Il welfare aziendale dopo l’emergenza COVID-19
di Luca VannoniIn contemporanea con la gestione degli aspetti più immediati dell’emergenza COVID-19 sui rapporti di lavoro, legati in particolare alla sospensione dei rapporti di lavoro per esigenze ricadenti nella sfera aziendale – riduzione o sospensione delle attività – o dei lavoratori – congedi parentali, malattia e quarantena – le aziende si sono rivolte in prima battuta alle misure di welfare aziendale, innanzitutto per creare nuove forme di incentivazione soprattutto per coloro che hanno continuato a lavorare, introducendo, incrementando e ridefinendo strumenti appropriati alla complicata fase vissuta.
Ora, con il progressivo contenimento dell’emergenza sanitaria, il tema del welfare richiede una valutazione molto più strutturale, che possa tener conto delle nuove esigenze dei lavoratori, legate sia all’emergenza COVID in quanto tale, sia alle nuove modalità organizzative del lavoro in azienda da essa generate. Se, infatti, per welfare aziendale si deve intendere il complesso di servizi, prestazioni ed erogazioni volte a migliorare la qualità della vita privata e della vita lavorativa, favorendone la conciliazione, è evidente che esso deve essere permeabile alle esigenze concrete dei lavoratori, se si vuole realizzare l’ambizioso obiettivo sotteso.
Oltre a tale principio, è opportuno sottolineare come la crisi determinata dall’emergenza pandemica, oltre a ridurre le disponibilità economiche di imprese e lavoratori, abbia inciso in molte abitudini e interessi individuali e, probabilmente, abbia modificato le gerarchie dei valori di felicità e di benessere. Questa profonda diversità di prospettiva, al momento, non ha generato alcuna revisione dal punto di vista normativo: pertanto, se si vogliono sfruttare forme che determinino esenzioni da un punto di vista fiscale e contributivo, il parametro rimane essenzialmente l’articolo 51, Tuir, in particolare i commi 2, 3 e 4.
Si ricorda, infine, un aspetto essenziale per poter accedere alla non imponibilità fiscale e contributiva per le misure di welfare prevista dall’articolo 51, Tuir: esse devono essere riconosciute alla generalità o a categorie di dipendenti, intendendosi con quest’ultimo concetto un insieme omogeneo di lavoratori sulla base di requisiti oggettivi e, chiaramente, legittimi. In particolare, ci si riferisce a previsioni, spesso utilizzate nei regolamenti aziendali, dove vengono esclusi i lavoratori a termine e i lavoratori in somministrazione. In realtà, per quanto riguarda i lavoratori in somministrazione, l’articolo 35, comma 3, D.Lgs. 81/2015, prevede che i lavoratori abbiano diritto a fruire dei servizi sociali e assistenziali di cui godono i dipendenti dell’utilizzatore nella stessa unità produttiva, mentre per i lavoratori a termine, l’articolo 25, D.Lgs. 81/2015, prevede un principio di non discriminazione dal contenuto più generale.
Pertanto, si ritiene maggiormente coerente prevedere forme di anzianità minima di accesso, a prescindere dalla tipologia contrattuale, e il riproporzionamento sulla base della vigenza del contratto di lavoro nell’anno interessato.
Nello stesso modo, si ritiene sicuramente consigliabile prevedere la modulazione del valore del welfare sulla base delle effettive presenze – ovvero escludendo soltanto alcune forme di assenza tutelata (ad esempio, malattie superiori a 12 giorni non riducono il valore del welfare) – più che considerare come categoria omogenea i lavoratori che non superano un numero prefissato di assenze.
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