11 Aprile 2018

Welfare aziendale e abuso del diritto

di Andrea Asnaghi

Nelle analisi operative conseguenti alla realizzazione di un piano di welfare aziendale o di una contrattazione sul tema, spesso emerge la possibilità o l’opportunità di sostituire trattamenti già in corso nelle aziende verso i lavoratori, anche individualmente, con benefit o poste di welfare. In tal caso, sorge talvolta la perplessità rispetto a possibili future contestazioni di tali scelte, da parte degli Enti previdenziali o fiscali, conseguenti alla perdita di imponibile che ne deriva. Analizziamo pertanto i limiti di intervento rispetto alla fattispecie e, al contempo, anche i limiti che hanno gli organi di vigilanza rispetto alla possibilità di eccepire i comportamenti in questione.

 

La posizione del problema

Probabilmente sorprenderà l’accostamento del titolo. Il welfare aziendale è un insieme di provvidenze di tipo economico-organizzativo di cui non si può che pensare bene; l’abuso del diritto è invece qualcosa che, fin dal nome, assume una caratteristica espressamente negativa.

Quale nesso potrebbe mai esserci fra 2 argomenti tanto distanti?

In realtà, spesso capita, sulla strada della costruzione di un sistema di welfare aziendale e/o di opportunità varie per i lavoratori, di trovarsi di fronte a trattamenti retributivi, già incardinati da tempo nella realtà aziendale, che sottraendo risorse economiche si pongono come ostacolo alla realizzazione di servizi o di provvidenze per i lavoratori. A volte questi trattamenti sono stati elargiti a macchia di leopardo o a livello individuale verso alcuni lavoratori – frutto di politiche retributive passate (ma non per questo necessariamente disprezzabili), che, tuttavia, obiettivamente drenano nel presente mezzi e possibilità – e, pertanto, diventa più difficile disegnare un sistema di trattamento complessivo comprendente anche le poste e gli interventi di welfare che, dovendosi estendere a una generalità di lavoratori, finirebbe per essere sbilanciato a favore dei lavoratori già remunerati (o a sfavore degli altri).

Non ultimo, l’estrema convenienza del welfare aziendale sotto il profilo fisco-previdenziale, sia per la parte lavoratore che per quella datoriale (la tipica soluzione “win-win”, affrontata in qualsiasi discorso sul welfare aziendale), spinge verso la preferenza a utilizzare le poste di quest’ultimo, e quindi a cercare di “ribattezzare” trattamenti che, essendo meramente retributivi, di tale esenzione non godevano.

Ma la perplessità che spesso nasce è che, risultando appunto una convenienza – cioè un vero e proprio risparmio, di oneri fiscali e previdenziali – possa sorgere una contestazione da parte degli organi di vigilanza in capo alle scelte che siano andate in questa direzione. Ovviamente non stiamo qui parlando di soluzioni contra legem, ma di assetti formalmente corretti in cui, tuttavia, si realizza il predetto risparmio fiscale. È forte il timore in molti operatori che, in tal caso, possa essere contestata un’elusione d’imposta o contributiva, creando parecchia perplessità o imbarazzo relativamente a consigliare o ad avallare determinate scelte.

 

L’abuso di diritto in campo tributario (e previdenziale)

A parere di chi scrive, la questione si iscrive naturalmente nel concetto di abuso di diritto in campo tributario, che è stato recentemente oggetto di focalizzazione normativa. Sull’impulso di una raccomandazione comunitaria sulla pianificazione fiscale aggressiva (n. 2012/772/UE del 6 dicembre 2012, recepito dalla L. 23/2014) è stato emanato a livello nazionale il D.Lgs. 128/2015, che, all’articolo 1, ha recepito norme di contrasto a operazioni elusive che si concretizzino in costruzioni meramente artificiose allo scopo di ottenere un indebito vantaggio fiscale.

La norma, infatti (articolo 1, comma 1), prevede che “Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti. Tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria, che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni”.

Ecco perché consideriamo che operazioni come quelle descritte in premessa possano rientrare quantomeno teoricamente (è l’oggetto della presente analisi, infatti) nell’alveo di questa disposizione: essi infatti hanno l’effetto di sostituire poste imponibili con poste esenti e nella loro ideazione potrebbero essere considerate tendenzialmente come elusive, pur essendo formalmente corrette (se non fossero formalmente corrette o si basassero su informazioni distorte, infatti, il campo di riferimento sarebbe ben diverso e riguarderebbe l’evasione).

Se analizziamo il testo normativo, possiamo sorprendere il concorrere di 3 aspetti; le operazioni de quibus infatti sono:

  • osservanti delle norme fiscali (si rappresentano pertanto come formalmente corrette e, sostanzialmente, veritiere, ovvero prive di occultamenti o altri espedienti illeciti);
  • prive di sostanza economica;
  • portatrici di vantaggi fiscali indebiti.

Il terzo aspetto, invero, è collegato sostanzialmente al secondo e non si regge senza di esso: i vantaggi fiscali ottenuti sono indebiti, infatti, non in sé, bensì solamente in considerazione dell’artificiosità della costruzione fiscale.

È quindi opportuno esaminare cosa si intende con la locuzione “operazioni prive di sostanza economica”, aiutandoci anche con la Direttiva.

L’articolo 1, comma 2, D.Lgs. 128/2015, ne dà questa definizione: “I fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato”.

In altre parole, le operazioni in questione si connotano per non essere giustificate se non dal risparmio fiscale, e, anzi, appaiono abnormi e ingiustificate all’interno di quelle che possono essere le normali scelte imprenditoriali, magari prive di linearità e incoerenti con l’organizzazione aziendale, prive di pregio operativo o imprenditoriale, e quindi sostanzialmente distoniche, inutili, farraginose (e, di conseguenza, perpetrate con il preciso e unico scopo di eludere oneri fiscali). In sostanza, il frutto di tali costruzioni, al di là del risparmio fiscale, non appare ragionevole sotto diversi profili: sistemico, operativo, commerciale.

A questo principio, tuttavia, ne va aggiunto un altro egualmente importante: non tutto ciò che sia idoneo a costituire risparmio fiscale deve essere automaticamente letto come elusivo.

E ciò è peraltro precisato nei commi immediatamente successivi della norma (grassetto a nostra cura): “3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente. 4. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.

Insomma, come detto, sarà contestabile la mancata corresponsione di tributi (e contributi) solo qualora le operazioni messe in atto siano connotate da un principio di irragionevolezza tale da non potersi altrimenti giustificare se non nel senso, predetto, di pagare meno tasse, sussistendo al contempo anche una libertà di scelta che permette al contribuente di optare per la soluzione più conveniente, purché coerente.

Vedremo se e come questi principi siano applicabili al welfare aziendale e, in genere, ai benefit e ai criteri di esenzione previsti dall’articolo 51, Tuir, tenendo anche presente che l’eventuale onere della prova della sussistenza di operazioni prive di sostanza economica spetta all’Amministrazione finanziaria.

Prima, però, dobbiamo risolvere un ultimo dubbio, e in particolare se quanto osservato sotto il profilo tributario (la norma qui in commento, infatti, è inserita dal decreto direttamente all’articolo 10-bis, Statuto del contribuente) sia immediatamente applicabile anche al versante contributivo e assicurativo. A parere di chi scrive la risposta è assolutamente positiva per 2 ordini di ragioni.

La prima ragione è di ordine sistematico: non esistendo una regolamentazione analoga nel versante contributivo, e dato che il passaggio normativo in questione non ha natura meramente procedurale/operativa (come invece lo sono altre dello Statuto del contribuente), bensì interpretativa, può ritenersi applicabile come criterio generale.

Ma la seconda ragione è ancor più forte e consiste nell’intervenuta “armonizzazione della base imponibile fiscale e contributiva” operata dal D.Lgs. 314/1997, che, sia pure prevedendo diversificazioni fra le 2 discipline, in forza della loro diversa finalità, individua proprio nell’articolo 51, Tuir (allora articolo 48) il maggior punto di contatto e di allineamento delle 2 basi imponibili.

In ragione di ciò, non potrebbe pertanto rilevarsi che ciò che sarebbe non imponibile sotto il profilo fiscale lo sia invece sotto quello previdenziale; e ciò non in forza delle specificità delle rispettive discipline, ma solo per una loro ipotetica diversa, ma asistematica e inopportuna, applicazione.

Tenendo presente, peraltro, che l’articolo 51, Tuir contiene i principi di esenzione che, per la maggior parte dei casi, sono riferibili alle poste di welfare aziendale.

 

Il welfare aziendale e l’abuso del diritto tributario sono essenzialmente antitetici

Dopo aver esaminato in sintesi cosa si intende per abuso del diritto e averne affermato la sua portata universale (almeno per il tema che stiamo trattando), dobbiamo subito considerare che fra welfare aziendale e abuso del diritto vi sarebbero pochi elementi di vicinanza e commistione. In via di principio, infatti, se consideriamo il welfare aziendale come l’insieme dei beni e dei servizi (e, più raramente, delle somme a titolo di rimborso per spese specifiche), nonché delle scelte di carattere organizzativo che vengono messe dal datore di lavoro a disposizione della generalità o di categoria di lavoratori, già troviamo nell’aspetto definitorio del welfare aziendale una radice di carattere organizzativo e conciliativo che porta in radice ad escluderlo come soluzione irragionevole o artificiosa.

Diversi sono i motivi:

  • il rivolgersi alla generalità dei lavoratori (o a categorie, che comunque vanno intese sempre nel senso di “macro-categorie”) ostacolerebbe di fatto l’imputazione di operazioni al mero risparmio, che necessariamente dovrebbero essere rivolte a platee più circoscritte di dipendenti;
  • l’individuazione di poste non indifferenziate, ma che, per loro natura e funzione, hanno una componente spiccatamente sociale e assistenziale costituisce un ulteriore elemento di giustificazione di manovre volte a promuovere il welfare, ancorché ciò avvenga sostituendo in qualche caso altre forme di remunerazione adottate in precedenza;
  • la componente di beni e servizi di natura non immediatamente trasformabile in senso monetario, ma al limite solo mediatamente, costituisce un altro elemento importante: è evidente che un’eventuale rinuncia a una componente retributiva per accedere a tali benefit non acquista una natura puramente sostitutiva e, quindi, nemmeno sarebbe una pura scelta del contribuente, ma proprio un’altra fattispecie sui generis;
  • anche il mix di opzioni di carattere materiale e organizzativo conferisce al welfare aziendale una sua specificità.

Tuttavia, suscita in taluni qualche perplessità assistere a operazioni in qualche caso esperite come propedeutiche all’accesso al welfare aziendale, quali: riduzione del superminimo individuale, rinuncia a premi dati con cadenza periodica (tipo “premio ferie”), elementi di welfare premiale in sostituzione di elementi variabili di retribuzione, etc..

Facciamo alcuni esempi di queste fattispecie.

  • Alcuni dipendenti accettano di ridurre il proprio superminimo individuale, da essi percepito, in forza dell’accesso, per loro e per altri lavoratori, al sistema di welfare ideato o contrattato dall’azienda.
  • L’azienda e i dipendenti decidono di sostituire un premio periodico ricorrente con una prestazione di beni/servizi di welfare (e pertanto esenti).
  • L’azienda e i dipendenti sostituiscono un premio presenza giornaliero in denaro con un ticket-pasto.

La causa della perplessità verso queste operazioni è sempre la stessa: potranno il fisco o l’Ente previdenziale rinunciare di buon grado ai conferimenti che venivano dalla precedente imponibilità delle poste retributive ora sostituite?

Cominciamo col dire che, qualora tali poste si configurino come diritto quesito, ovvero siano somme che siano entrate nella disponibilità e aspettativa del lavoratore, le stesse potranno essere “perse” unicamente con una rinuncia individuale di ciascun lavoratore (non soccorrono in efficacia eventuali accordi collettivi, a meno che tali poste non discendessero da contrattazioni collettive e non da libera elargizione del datore o da accordi individuali).

Discendendo in genere da accordi individuali e non riferibili a leggi o contratti collettivi, l’eventuale rinuncia del lavoratore è diritto immediatamente disponibile e non deve necessariamente sottostare a ratifica in sedi protette; tuttavia, potrebbe apparire comunque opportuno concludere l’accordo in tali sedi, al fine di un’ulteriore certificazione della libera volontà abdicativa del lavoratore. Già tale atto, comunque lo si volesse finalizzare, è cosa diversa dal mero scambio e, dotato di una sua propria autonomia, renderebbe inoppugnabile a Fisco e Inps la rinuncia: se così non fosse, dovremmo rimettere in discussione tutti gli atti di tal natura perpetrati nel corso del lungo decennio di crisi appena trascorso, che ha visto non pochi lavoratori lasciare sul piatto vantaggi economici acquisiti in tempi di “vacche grasse” per salvaguardare il proprio posto di lavoro.

Ma, ancorchè la finalizzazione di tali atti fosse esplicitamente dichiarata a favore del welfare, per tutti i motivi sopra esposti non si vede in quale modo potrebbe essere dimostrabile da un eventuale ispettore la natura artificiosa e meramente strumentale – anzi irragionevole sotto un profilo organizzativo ed economico – di tali atti.

Se, invece, tali poste non configurino diritto quesito, nemmeno si porrà il problema di un’eventuale sostituzione, in senso più favorevole anche sotto il profilo fisco-previdenziale, di determinate usanze aziendali: ben potrà, ad esempio, il datore che abitualmente erogava in determinate occasioni regalie monetarie di varia natura in modo del tutto volontario e occasionale, quantomeno nella diversificazione di tempi e quantità erogate, sostituire tali elementi con provvidenze di welfare o benefit esenti (ricorrendone ovviamente le caratteristiche).

A farla da padrone, nel welfare aziendale, è infatti una componente organizzativo-psicologica che, se ben percorsa, oltre a contribuire a integrare la parte più nobile del benessere aziendale (che certo è intervento sul clima dell’impresa e sulla percezione del lavoro, e non solo elargizione di cose/servizi), rende impossibile considerare gli interventi in argomento una pura e semplice “sostituzione al risparmio”.

 

In conclusione: cosa fare e cosa evitare

Nella generale esclusione di commistioni tra welfare aziendale e abuso del diritto tributario, in corrispondenza di rinunce retributive effettuate con lo scopo di favorire politiche di welfare, meglio non farsi prendere la mano e mantenere un percorso equilibrato e corretto.

A supportare la natura originalmente organizzativa del welfare, infatti, basterà mettere in atto un’analisi di clima, di motivazione e di necessità o bisogni dei lavoratori, meglio ancora poi se le soluzioni adottate non si limitino a una mera elargizione di beni, ma comprendano anche aspetti di natura non immediatamente materiale, quali formazione, sicurezza, conciliazione vita-lavoro, etc.. Si tratta, in effetti, di dare al welfare ciò che è del welfare, cioè un mix di soluzioni il cui scopo è il miglioramento del senso di appartenenza all’azienda e di fidelizzazione dei lavoratori.

Aspetti da evitare, invece – in genere sempre, ma a maggior ragione quando vi siano stati meccanismi di scambio retribuzione-welfare – saranno quelli relativi a un’immediata “monetizzazione” del welfare o non rispettosi della fattispecie, quali:

  • prevedere erogazioni di natura economica in sostituzione del welfare non usufruito o rimborsi laddove non consentiti o integrazioni in dispregio delle disposizioni dell’articolo 51, comma 3-bis, Tuir;
  • una personalizzazione esasperata del welfare premiale, “liberato” dall’interpello n. 904-791/2017 dell’Agenzia delle entrate – Direzione regionale Lombardia, che porti a un’eccessiva individualizzazione delle poste di welfare, tale da farle corrispondere nei fatti a una posta non più collettiva ma di natura-interesse prettamente individuale; la stessa cosa potrebbe osservarsi in un uso troppo spinto delle categorie, tanto da far risultare una ricaduta “chirurgica” (cioè sostanzialmente individuale) dei benefit;
  • prevedere la sostituzione di elementi previsti da legge o contrattazione collettiva (ad esempio straordinari o indennità turni o maggiorazioni similari, retribuiti in via forfettaria con beni/servizi) con poste/sistemi di welfare.

In due parole finali, se si rispettano le vere finalità del welfare aziendale e un minimo di prudenza, accortezza e aderenza alle regole, diventa compito davvero arduo per un’eventuale azione di vigilanza contestare la natura di abuso dello scambio retribuzione-welfare (concetto che in genere non sussiste, se non in una pervicace mentalità fisco-previdenziale oppressiva).

Un’ultima, doverosa, annotazione: abbiamo usato in questo contributo i termini di “scambio” e “sostituzione” unicamente per brevità, semplicità e immediatezza espositiva, ma speriamo di essere riusciti a dimostrare che in realtà la rinuncia a poste retributive e l’adesione a sistemi di welfare sono 2 rette parallele che, nella geometria euclidea di un sistema aziendale ben definito, non si incontrano mai.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.

 

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