12 Aprile 2017

Il valore delle registrazioni “occulte” effettuate dal dipendente

di Matteo MotroniSergio Passerini

L’articolo propone una disamina degli orientamenti giurisprudenziali in tema di registrazioni effettuate all’insaputa di uno degli interlocutori, prestando particolare attenzione all’utilizzabilità delle registrazioni nel corso del processo e alla possibile rilevanza disciplinare della condotta.

 

Premessa: l’utilizzabilità delle registrazioni occulte alla luce della giurisprudenza della Corte di Cassazione

Molto spesso, nelle controversie di lavoro, si assiste alla produzione in giudizio di registrazioni fonografiche di colloqui intercorsi tra il datore di lavoro e il lavoratore; si tratta – nella stragrande maggioranza dei casi – di registrazioni effettuate in forma occulta dal lavoratore al fine di tutelare un proprio diritto, come avviene, ad esempio, quando il lavoratore intenda precostituirsi elementi di difesa in una causa di mobbing o “svelare” eventuali azioni discriminatorie o ritorsive del datore di lavoro.

In linea generale, la Corte di Cassazione ritiene che la registrazione di una conversazione effettuata all’insaputa dell’interlocutore sia legittima, e possa essere validamente utilizzata in sede processuale, qualora essa sia necessaria per tutelare o far valere un diritto in sede giudiziaria.

L’orientamento giurisprudenziale e maggioritario dominante ritiene infatti che la registrazione di una conversazione (anche telefonica) – ancorché effettuata all’insaputa di uno dei partecipanti – costituisca una “forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, della quale l’autore può disporre legittimamente, anche ai fini di prova nel processo secondo la disposizione dell’art. 234 c.p.p., salvi gli eventuali divieti di divulgazione del contenuto della comunicazione che si fondino sul suo specifico oggetto o sulla qualità della persona che vi partecipa” (Cass., SS.UU., n. 36747/2003).

È tuttavia fondamentale, come già accennato, che la registrazione venga effettuata da uno dei soggetti che partecipano alla conversazione.

Ove la registrazione venga effettuata da un terzo, infatti, non siamo più di fronte a una “semplice” registrazione, bensì a una vera e propria intercettazione (il cui tratto distintivo – come affermato in giurisprudenza – è proprio la terzietà del captante che dall’esterno s’intromette in un ambito privato non violabile); strumento che può essere utilizzato esclusivamente dall’autorità inquirente e che richiede il rispetto delle garanzie previste dal codice di procedura penale. La sentenza di Cassazione penale n. 7724/2002 ha infatti stabilito: “Non costituisce intercettazione la registrazione o la successiva utilizzazione di una conversazione da parte di un interlocutore all’insaputa dell’altro. È infatti pacifico che ciascuno dei soggetti tra i quali intercorre una comunicazione ha pieno ed esclusivo diritto sulla comunicazione stessa anche facendone venire meno la segretezza, indipendentemente dalla circostanza che l’altro soggetto sia o non consapevole o dissenziente”.

In questo contesto, la Corte di Cassazione ha riconosciuto la piena legittimità, quale elemento di prova, della registrazione di una conversazione telefonica effettuata da parte di uno dei partecipanti alla conversazione stessa, ritenendo utilizzabile, “anche senza che vi sia stato un provvedimento dell’autorità giudiziaria”, “il contenuto di colloqui privati registrati da uno degli interlocutori, a nulla rilevando né che la registrazione sia stata da lui effettuata su richiesta della polizia giudiziaria, né che egli stesso agisca utilizzando materiale da questa fornito ovvero addirittura appartenga alla polizia giudiziaria, sempre che il partecipante si limiti solo a registrare, come ipotizzato nella fattispecie, la conversazione, senza utilizzare apparecchi mediante i quali terzi estranei e, in particolare, la polizia possano captarne il contenuto durante il suo svolgimento e procedere all’ascolto diretto, perché in tal caso sussisterebbe una vera e propria intromissione nella sfera di segretezza e libertà delle comunicazioni costituzionalmente presidiata e si realizzerebbe indirettamente una intercettazione ambientale senza la previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria” (Cass. n. 9132/2010).

 

La valenza probatoria delle registrazioni “occulte”

La giurisprudenza, in sintesi, ritiene che:

  1. la registrazione di una conversazione (telefonica o tra presenti) effettuata da uno degli interlocutori non costituisca offesa alla libertà di comunicazione della persona;
  2. la registrazione di una conversazione tra presenti possa essere utilizzata in giudizio, assumendo essa valore di prova documentale, in quanto tale assoggettata al regime probatorio di cui all’articolo 2712 cod. civ., secondo cui “Le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime”.

Le registrazioni, in altri termini, possono formare piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, solo se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime. In caso di contestazione, la registrazione viene “degradata” al rango di una “presunzione semplice” che dovrà giocoforza essere corroborata da “… ulteriori elementi, pur se anch’essi di carattere indiziario o presuntivo, offerti dall’interessato o acquisiti dal giudice nell’esercizio dei propri poteri istruttori” (Cass. n. 17526/2016).

La Corte di Cassazione, ad ogni modo, ha precisato che: “il disconoscimento delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c., che fa perdere alle stesse la loro qualità di prova, pur non essendo soggetto ai limiti e alle modalità di cui all’art. 214 c.p.c., deve, tuttavia, essere chiaro, circostanziato ed esplicito (dovendo concretizzarsi nell’allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta) e – al fine di non alterare l’iter procedimentale in base al quale il legislatore ha inteso cadenzare il processo in riferimento al contraddittorio – deve essere tempestivo e cioè avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla rituale acquisizione delle suddette riproduzioni, dovendo per ciò intendersi la prima udienza o la prima risposta successiva al momento in cui la parte onerata del disconoscimento sia stata posta in condizione, avuto riguardo alla particolare natura dell’oggetto prodotto, di rendersi immediatamente conto del contenuto della riproduzione” (Cass. n. 9526/2010).

Secondo la Corte di Cassazione, dunque, affinché la registrazione possa essere validamente disconosciuta e quindi degradata da “piena prova” a mera “presunzione”, non è sufficiente una contestazione di puro stile, ma è necessario fornire precisi elementi di fatto da cui si possa inferire la non veridicità del contenuto o che possano rendere plausibile un’alterazione del “nastro”.

 

Le condizioni per un legittimo utilizzo in sede processuale delle registrazioni “occulte”

La Corte di Cassazione, come sopra accennato, ammette la possibilità di fare ricorso alle registrazioni occulte (rectius, effettuate all’insaputa dell’interlocutore), e di utilizzarle nell’ambito di un procedimento giudiziario, solo qualora ricorrano due imprescindibili condizioni:

  1. a) vi sia necessità di tutelare o far valere un diritto;
  2. b) i dati “raccolti” siano trattati esclusivamente per finalità di difesa e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento.

Con riguardo alla prima delle due condizioni, è stato correttamente affermato che solo la sussistenza di una valida e reale esigenza difensiva consente di ritenere integrata l’esimente generale prevista dall’articolo 51 c.p., che, come noto, esclude la punibilità del reato commesso in “esercizio di un diritto” o in “adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità”.

Integra invece il reato di trattamento illecito di dati personali (articolo 167, D.Lgs. 196/2003) il diffondere una conversazione documentata mediante registrazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui.

Come afferma la Suprema Corte, infatti, “… non è illecito registrare una conversazione perché chi conversa accetta il rischio che la conversazione sia documentata mediante registrazione, ma è violata la privacy se si diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui” (cfr. Cass. n. 18908/2011).

Naturalmente, per ritenere sussistente l’esimente difensiva, il giudice non deve indagare circa l’effettiva rilevanza della registrazione o tantomeno circa la fondatezza della tesi difensiva propugnata dall’autore; ciò che rileva ai fini dell’esimente di cui all’articolo 24, Codice privacy, infatti, non è la concreta idoneità della registrazione a provare le tesi difensive dell’autore della stessa (valutazione che compete al giudice della causa stessa), né l’ammissibilità di tale produzione documentale, bensì “la sua oggettiva inerenza a tale specifica difesa, quindi alla finalità di addurre elementi atti nella specie a sostenere il rigetto delle domande contro di essa rivolte” (Cass. civ., n. 21612/2013).

Nella pronuncia in questione si controverteva circa la legittimità dell’utilizzo in sede processuale, da parte di una banca e contro uno dei propri clienti, di documentazione inerente a un deposito titoli intestato, oltre che alla controparte processuale, anche a un terzo, il quale ultimo lamentava di aver subito un pregiudizio per l’illecito trattamento di propri dati personali, in tal modo divulgati senza il suo consenso e comunque trattati in modo eccedente le finalità per cui i medesimi erano stati raccolti dalla banca.

La seconda condizione (quella secondo cui i dati “raccolti” devono essere trattati esclusivamente per finalità di difesa e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento) si inserisce nel solco dei principi generali in materia di trattamento dei dati personali, meglio dettagliati dall’articolo 24, lettera f), Codice privacy, ove si esclude la necessità del consenso dell’interessato qualora il trattamento sia reso necessario ”ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale”.

Questa seconda condizione – come si vedrà infra – non è stata adeguatamente valorizzata dalla giurisprudenza.

 

Le registrazioni “occulte” effettuate dal lavoratore e la loro utilizzabilità nel processo del lavoro

I principi appena esposti sono stati grosso modo trasposti, seppur con qualche oscillazione, anche nell’ambito dei rapporti di lavoro.

L’argomento è balzato agli onori delle cronache grazie alla nota sentenza n. 26143/2013, nella quale la Corte di Cassazione aveva indirettamente ritenuto legittimo (avallando la sentenza di merito) un licenziamento intimato a carico di un lavoratore che si era reso responsabile di aver registrato, utilizzato e diffuso una serie di conversazioni intrattenute in un ambito strettamente lavorativo con colleghi e superiori, utilizzandole per sostenere un’accusa di mobbing che si era peraltro dimostrata del tutto infondata.

La motivazione della sentenza risulta però ben lontana dal sovvertire l’orientamento contrario dominante, che – come detto – legittima in maniera piena e incondizionata l’utilizzo processuale delle registrazioni occulte, qualora necessarie per far valere un diritto in sede giudiziaria.

Nella sentenza in questione, infatti, la Suprema Corte si è correttamente limitata a “fare il proprio mestiere” di giudice di legittimità, limitandosi a operare un controllo esterno di legittimità sulla sentenza impugnata, dando peraltro atto di come la Corte d’Appello avesse “… adeguatamente motivato il proprio convincimento sulla gravità del fatto oggetto dell’addebito disciplinare posto a base del licenziamento attraverso argomentazioni congrue, ancorate a dati istruttori precisi ed immuni da qualsiasi rilievo di ordine logico-giuridico”.

Non a caso la Corte ha concluso nel senso dell’inammissibilità dei motivi di ricorso formulati dalla parte appellante, facendo notare come questi fossero destinati a tradursi in un’“inammissibile rivisitazione del merito istruttorie, non consentita nella presente sede di legittimità” (Cass. n. 26143/2013).

Non stupisce dunque che, non appena è stata chiamata a pronunciarsi ex professo sulla questione (con la sentenza n. 24724/2014), la Sezione Lavoro della Cassazione abbia confermato in toto l’orientamento dominante espresso dai colleghi delle altre sezioni, fissando (o meglio ribadendo) i seguenti principi:

  • la registrazione fonografica di un colloquio tra persone presenti rientra nel genus delle riproduzioni meccaniche di cui all’articolo 2712 cod. civ. (si tratta quindi di prove ammissibili nel processo civile, così come lo sono in quello penale);
  • il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, ma si estende a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancor prima che la controversia sia stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso;
  • non può assumere alcuna rilevanza disciplinare la condotta di colui che registri un colloquio tra presenti all’insaputa dei propri interlocutori; tale condotta, infatti, risponde “alle necessità conseguenti al legittimo esercizio d’un diritto e, quindi, essendo coperta dall’efficacia scriminante dell’art. 51 c.p., di portata generale nell’ordinamento e non già limitata al mero ambito penalistico”;
  • potrebbe invece assumere rilevanza “la registrazione d’una conversazione tra presenti effettuata a fini illeciti, ad esempio estorsivi o di violenza privata”; in tal caso, infatti, non sarebbe ravvisabile l’esimente del diritto di difesa e la registrazione risulterebbe non solo illegittimamente effettuata, ma anche passibile di assumere rilevanza penale.

In definitiva, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione esclude con fermezza che possa attribuirsi rilevanza disciplinare al comportamento di un lavoratore che, per finalità difensive, registri una conversazione intercorsa con colleghi o superiori all’insaputa degli stessi.

Constano però alcuni precedenti che hanno valorizzato diversamente una simile condotta tenuta in ambito lavorativo, specie se accompagnata ad altri comportamenti idonei a integrare una violazione del generale dovere di fedeltà che grava sul prestatore di lavoro ex articolo 2105 cod. civ..

Il riferimento, da ultimo, va alla sentenza n. 16629/2016, nella quale la Suprema Corte – pur ribadendo il generale principio di legittimità secondo cui “il lavoratore che produca, in una controversia di lavoro intentata nei confronti del datore di lavoro, copia di atti aziendali che riguardino direttamente la sua posizione lavorativa, non viene meno ai suoi doveri di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., tenuto conto che l’applicazione corretta della normativa processuale in materia è idonea a impedire una vera e propria divulgazione della documentazione aziendale e che, in ogni caso, al diritto di difesa in giudizio deve riconoscersi prevalenza rispetto alle eventuali esigenze di segretezza dell’azienda” (Cass. n. 6420/2002, n. 12528/2004, n. 22923/2004, n. 3038/2011, n. 6501/2013) – ha comunque posto l’accento (ai fini della valutazione della portata disciplinare della condotta) sulle “modalità di apprensione ed impossessamento dei documenti”; tali modalità, infatti, a prescindere dall’utilizzabilità o meno in giudizio della prova in tal modo acquisita, “…potrebbero di per sé concretare ipotesi delittuose, o comunque integrare la giusta causa di licenziamento per violazione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c.” (Cass. n. 16629/2016).

La pronuncia in questione, come è evidente, affronta la diversa (ancorché affine) questione della producibilità in giudizio di documenti aziendali riservati, ma al contempo sembra esprimere un certo moto di sfavore verso le registrazioni di colloqui effettuate occultamente dal lavoratore; in un passaggio, infatti, il giudice di legittimità riconosce che le particolari modalità che hanno connotato l’agire del lavoratore, “… consistenti nella registrazione della conversazione tra presenti all’insaputa dei conversanti e nell’impossessamento di un’e-mail non destinata alla visione dello S.” devono ritenersi “… entrambe di per sé in contrasto con gli standard di comportamento imposti dal dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c. e da una condotta improntata a buona fede e correttezza e tali da minare irreparabilmente il rapporto fiduciario” (ancora Cass. n. 16629/2016).

Allo stato attuale è difficile capire se la sentenza in esame costituisca un nuovo precedente isolato (destinato a seguire le sorti della sentenza n. 26143/2013 sopra citata), o se invece possa assumere una valenza “di sistema”. Difatti, non è nemmeno possibile comprendere quale tra le due condotte contestate (registrazione della conversazione tra presenti all’insaputa dei conversanti e impossessamento di un’e-mail non destinata alla visione del lavoratore) abbia inciso in misura decisiva sulla tenuta del vincolo fiduciario (è certo che nella valutazione operata dai giudici di merito ha pesato e non poco il contegno complessivo del lavoratore, come indice di scarsa affidabilità e di compromissione della fiducia).

Nel complesso, però, la motivazione fornita dalla Corte di legittimità nella sentenza dell’agosto scorso sembra essere connotata da un approccio metodologico qualitativamente diverso da quello che aveva caratterizzato gli orientamenti precedenti; nelle sentenze precedenti, infatti, la Corte di Cassazione aveva sempre attribuito incondizionata prevalenza alle esigenze difensive dell’autore della registrazione, e non aveva mai paventato la possibilità (o quantomeno non lo aveva mai fatto in maniera così chiara) di sindacare le concrete modalità con cui il lavoratore sia venuto in possesso della prova.

È lecito dunque attendersi un ulteriore sviluppo degli orientamenti giurisprudenziali.

Un’ulteriore spinta in tal senso potrebbe altresì derivare da una più attenta applicazione dei principi del Codice della privacy (su tutti: i canoni di proporzionalità e necessità del trattamento) che, ad oggi, non sembrano aver destato particolare attenzione agli occhi della giurisprudenza.

Il riferimento va in particolare al principio di proporzionalità, che dovrebbe imporre di limitare il ricorso alle registrazioni occulte solo qualora non vi sia la disponibilità di altre fonti di prova o nel caso in cui queste, pur essendo astrattamente sussistenti, risultino insufficienti o inattuabili.

Una corretta attuazione di questi principi (e più in generale una corretta valorizzazione dell’obbligo di fedeltà che grava sul prestatore di lavoro, sul quale, per motivi di spazio, non è possibile concentrarsi in questa sede), ad avviso di chi scrive, dovrebbe suggerire di limitare il ricorso alle registrazioni occulte solo qualora sia ravvisabile un’esigenza difensiva concreta e attuale (non dunque puramente ipotetica e eventuale), e sempre che non vi sia la possibilità di reperire altre fonti di prova che possano comunque corroborare in maniera altrettanto efficace le tesi difensive del lavoratore.

 

Le possibili “innovazioni” contenute nel DdL 2067/2017 di riforma del processo penale

Per completezza occorre da ultimo rilevare che la materia delle registrazioni “occulte” potrebbe subire da qui a breve alcune importanti innovazioni sul piano legislativo.

L’articolo 84 del disegno di legge di riforma del processo penale (DdL 2067, approvato in prima lettura dal Senato il 15 marzo 2017), infatti, delega il Governo ad adottare una serie di decreti legislativi prevedendo, tra le altre cose, “che costituisca delitto, punibile con la reclusione non superiore a quattro anni, la diffusione, al solo fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui, di riprese audiovisive o registrazioni di conversazioni, anche telefoniche, svolte in sua presenza ed effettuate fraudolentemente. La punibilità è esclusa quando le registrazioni o le riprese sono utilizzate nell’ambito di un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca”.

Si ipotizza dunque l’introduzione di una nuova tipologia di reato – commesso da chi diffonde riprese audiovisive e/o registrazioni di conversazioni (anche telefoniche) in maniera fraudolenta, ove il fine di questa azione sia quello di cagionare la reputazione o l’immagine altrui – la cui pena è stata identificata nella reclusione fino a 4 anni; occorre tuttavia sottolineare che la punibilità del reato viene espressamente esclusa nei casi di registrazioni eseguite nell’ambito di procedimenti amministrativi o giudiziari o nell’esercizio del diritto di cronaca e di difesa.

Qualora il disegno di legge in esame dovesse essere definitivamente approvato dal Parlamento, dunque, verrebbe definitivamente cristallizzata l’esimente generale del diritto di difesa, sulla scorta di quanto è stato ripetutamente sancito dalla Suprema Corte di Cassazione – pur con qualche oscillazione – nelle sentenze sopra menzionate.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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