20 Marzo 2018

Un modello contrattuale “di retroguardia”

di Evangelista Basile

Lo scorso 9 marzo è stato sottoscritto un importante accordo sindacale tra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil al fine di fissare i contenuti e gli indirizzi futuri delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva. Ovviamente, l’intesa sottoscritta a livello confederale – per quanto rilevante – sconta comunque i limiti che sono propri di qualunque accordo collettivo nel nostro sistema: impegna solo i soggetti firmatari e copre il solo campo di applicazione che le parti rappresentano.

Se dovessi sintetizzare una mia opinione sull’accordo, direi che le parti hanno individuato obiettivi condivisibili, ma trovato soluzioni che – in questo momento storico – non mi convincono per nulla. In particolare, mi pare che le parti sociali si impegnino a promuovere un modello di contrattazione collettiva “di retroguardia”, che – al di là dei buoni propositi (solo) sbandierati a favore della contrattazione collettiva decentrata – gioca ancora una partita in difesa della centralità del contratto collettivo nazionale.

Gli obiettivi dichiarati dalla parti stipulanti (si veda punto 3 dell’accordo) sono in sintesi:

  1. estendere la contrattazione collettiva di secondo livello;
  2. promuovere un mercato del lavoro più dinamico e aperto a giovani e donne;
  3. creare un modello di relazioni industriali innovativo e partecipativo, anche attraverso la diffusione – di nuovo – della contrattazione di secondo livello.

Tutto condivisibile sulla carta: anche perché gli obiettivi parrebbero preannunciare uno spazio molto ampio alla contrattazione decentrata. Tuttavia, le soluzioni trovate dalle parti per conseguire gli obiettivi sopra elencati si allontanano dai propositi iniziali, sacrificando in luoghi angusti lo spazio lasciato al decentramento contrattuale.

Vediamo i contenuti dell’intesa in estrema sintesi.

Le parti si sono accordate anzitutto per misurare la rappresentanza sindacale, non solo delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, ma anche di quelle datoriali (punto 4 dell’accordo). Si affida tale arduo compito al Cnel, il quale dovrebbe non solo pesare la rappresentatività delle associazioni datoriali, ma anche definire  i “perimetri” della contrattazione collettiva. Questo secondo aspetto mi sembra davvero rischioso, anche perché il perimetro lo definiscono le parti sociali quando sottoscrivono gli accordi collettivi, non può essere deciso dall’alto (quindi occorrerà capire bene come il Cnel intenderà muoversi).

Il secondo caposaldo dell’intesa riguarda l’assetto della contrattazione collettiva (punto 5 dell’accordo), che vede confermata l’articolazione su due livelli, nazionale e aziendale (oppure territoriale), ma con una predefinizione di ciò che spetta all’uno e all’altro. E siccome si ribadisce che il contratto collettivo nazionale è garante dei trattamenti economici e normativi, è evidente che i contratti aziendali potranno agire solo negli angusti spazi che i contratti nazionali lasceranno loro. Invece, in questo momento storico, se davvero si voleva che i contratti collettivi fossero “tagliati su misura” per le esigenze delle imprese e dei lavoratori, si sarebbe dovuto avere il coraggio di ribaltare il paradigma: l’accordo aziendale centrale, lasciando alla contrattazione nazionale un ruolo sussidiario in caso di assenza di accordi aziendali. Solo una soluzione del genere avrebbe davvero consentito la diffusione (sbandierata nelle premesse iniziali) e la centralità della contrattazione decentrata, limitando l’inopportuna invadenza che attualmente i contratti nazionali hanno su ogni aspetto, anche di dettaglio, dei rapporti di lavoro.

Sempre nel capitolo relativo agli assetti contrattuali, le parti sociali hanno voluto distinguere i concetti di trattamento economico minimo (Tem) e trattamento economico complessivo (Tec): il secondo si comporrà di tutte le voci di costo, incluse quelle relative al welfare. Siccome il valore del Tec viene espressamente definito nell’accordo qui in commento come la somma delle voci economiche “comuni a tutti i lavoratori del settore”, il mio timore è che – alla fine della fiera – gli oneri obbligatori imposti ai datori di lavoro aumenteranno. Chi non ce la farà, o uscirà dal mercato o dal campo di applicazione delle confederazioni stipulanti.

Da ultimo, nel capitolo 6 dell’accordo, le parti si sono ripromesse di sottoscrivere specifiche intese – dettando i principi guida – in tema di welfare, formazione e competenze, sicurezza del lavoro, mercato del lavoro e partecipazione dei lavoratori.

Come detto, spero di sbagliarmi, ma ho l’impressione che si tratti di un accordo che conferma e difende l’attuale sistema di relazioni industriali, con scarsi elementi di innovazione soprattutto in ordine alla promozione della contrattazione decentrata.

 

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