12 Ottobre 2017

Tutele crescenti: se il licenziamento è in frode alla legge il lavoratore ha diritto alla reintegra

di Evangelista Basile

Con l’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015, per i prestatori di lavoro assunti dopo il 7 marzo 2015, la tutela reintegratoria è limitata alle ipotesi di nullità del recesso perché discriminatorio ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, nonché allorquando il fatto materiale posto alla base del licenziamento disciplinare sia insussistente.

In tutti gli altri casi di illegittimità del recesso, il datore di lavoro è tenuto a versare solo un’indennità risarcitoria secondo i parametri individuati nello stesso D.Lgs. 23/2015, ma il rapporto di lavoro si risolve definitivamente.

Molti avevano ipotizzato che i giudici del lavoro, al cospetto di una simile restrizione della loro discrezionalità nella scelta della sanzione, avrebbero cercato di individuare nel testo di legge uno spazio per estendere i casi in cui riconoscere al dipendente la tutela reintegratoria, anche nell’ottica di ampliare nuovamente il loro margine decisionale.

È+ il caso della sentenza n. 1774 del 24 aprile 2017 del Tribunale di Taranto, con la quale il magistrato del lavoro – nel ricondurre agli “altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge” anche la nozione civilistica di frode alla legge – ha reintegrato in servizio il lavoratore licenziato.

Nella fattispecie al vaglio del Tribunale pugliese, il datore di lavoro aveva licenziato il proprio dipendente per giusta causa, senza contestare previamente l’addebito. Nella stessa lettera di recesso la Società aveva poi affiancato al licenziamento disciplinare anche una motivazione oggettiva, ossia che il recesso era dovuto anche a una situazione di grave crisi economica ingeneratasi in seguito alla cessazione di alcuni contratti d’appalto.

Secondo il giudice del lavoro, l’inserimento nella lettera di licenziamento di un giustificato motivo oggettivo (che, da quel che si apprende dalla lettura della sentenza, non sarebbe stato addotto con precisione né dimostrato) avrebbe avuto l’unica finalità di eludere la tutela reintegratoria di cui all’articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015, prevista nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato.

Pertanto, il giudice tarantino ha dapprima escluso la sussistenza del fatto materiale addebitato al dipendente per mancanza di una contestazione disciplinare; motivazione, questa, che lascia alquanto perplessi, visto che al vizio formale o procedurale l’articolo 4, D.Lgs. 23/2015, ricollega una sanzione economica; una volta accertato il vizio procedurale si sarebbe forse dovuto indagare l’esistenza o meno – nella sostanza – dell’addebito fondante il licenziamento disciplinare in base alla lettera di licenziamento. Dopodiché, alla luce dell’intento fraudolento della società (che aveva tentato di frapporre anche un giustificato motivo oggettivo inconsistente, a detta del magistrato), il giudice del lavoro ha accertato che il lavoratore aveva diritto di riprendere servizio in azienda e di ottenere il risarcimento del danno.

La sentenza in esame, seppur adottata in una fattispecie molto particolare, potrebbe essere sintomatica di una futura tendenza dei giudici del lavoro a interpretare in senso estensivo i casi in cui il dipendente può ottenere la reintegrazione in servizio, anche nei licenziamenti a tutele crescenti. I datori di lavoro sono dunque avvisati: anche in assenza della prova di un intento discriminatorio e/o ritorsivo, non è sufficiente addurre un qualunque giustificato motivo oggettivo di licenziamento per evitare il rientro in servizio del dipendente. Se il giudice ravvisa nella condotta datoriale una condotta fraudolenta ai sensi dell’articolo 1344 cod. civ., il rapporto di lavoro può essere ripristinato.

Sarà interessante verificare in futuro se gli stessi principi enunciati dal Tribunale di Taranto (che potranno comunque essere riformati in sede di appello e/o dalla Corte di Cassazione) verranno utilizzati con prudenza dai giudici del lavoro e applicati solo nei casi di evidente volontà fraudolenta del datore di lavoro. La speranza è che non vengano snaturate le tutele crescenti ed eluse – questa volta sì – le intenzioni del Legislatore, confondendosi nelle aule di Tribunale le ipotesi di semplice violazione di legge – che si verifica allorquando il motivo oggettivo addotto a sostegno del licenziamento è insussistente o non dimostrato – con la frode alla legge, che secondo la disposizione codicistica di cui all’articolo 1344 cod. civ. richiede una specifica volontà di eludere l’applicazione di una norma imperativa. Il rischio, in altri termini, è che ogni licenziamento illegittimo per insussistenza del giustificato motivo venga automaticamente ricondotto alla frode alla legge, accedendosi per questa via sempre alla tutela reintegratoria, che invece il Legislatore ha voluto limitare a casi ben precisi.

 

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