23 Settembre 2015

Subordinazione, eterorganizzazione, collaborazioni coordinate e continuative

di Marco Novella

 

Il destino delle collaborazioni coordinate e continuative e del lavoro a progetto

Il D.Lgs. n.81/15, recante la “Disciplina organica dei contratti di lavoro e la revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art.1, co.7 L. n.183/14”, ha provveduto alla radicale soppressione del lavoro a progetto e, più in generale, delle collaborazioni coordinate e continuative?

La domanda è del tutto legittima alla luce dell’annuncio del Presidente del Consiglio – formulato sul finire del 2014 – di volere “cancellare” i co.co.co., i co.co.pro. e tutte le collaborazioni che hanno fatto del precariato la forma prevalente del lavoro.

La risposta si trova all’art.52 del decreto, il cui primo comma recita: “le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69-bis del D.Lgs. n.276/03 sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto“.

Il secondo comma aggiunge – e la precisazione è assai significativa – che “resta salvo quanto disposto dall’art.409 del codice di procedura civile“.

Se ne deduce che:

  • sono abrogate tutte le disposizioni contenute nel D.Lgs. n.276/03 relative al lavoro a progetto e, in particolare, le disposizioni (artt.61 e 69) che, rispettivamente, imponevano la riconduzione dei rapporti i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art.409, n.3 c.p.c., a uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore (art.61), pena la “trasformazione” del rapporto di collaborazione autonoma in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (art.69);

  • sono altresì abrogate tutte le disposizioni contenute nel D.Lgs. n.276/03 relative alla disciplina dei diritti e degli obblighi delle parti nei rapporti di collaborazione a progetto;

  • i contratti di lavoro a progetto “in atto” al momento dell’entrata in vigore del decreto sono fatti salvi, fino alla loro scadenza. La circostanza che il Legislatore precisi che deve trattarsi di contratti “già in atto” pone un dubbio interpretativo: la norma di salvezza si riferisce ai soli rapporti in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del decreto o anche ai contratti già stipulati, ma di cui non sia ancora iniziata l’esecuzione?
    Il tenore letterale dell’espressione induce a ritenere preferibile la prima interpretazione, con esclusione dunque dei contratti “conclusi”, ma non ancora “in atto”;

  • non essendo stato abrogato l’art.409, n.3 c.p.c. (e, anzi, essendo stata espressamente ribadita – a scanso di equivoci – la sua perdurante vigenza), resta salva la possibilità di porre in essere rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato.

La sopravvivenza dell’art.409, n.3 c.p.c., ha un significato teorico rilevante. Consente, infatti, di affermare la perdurante compatibilità con lo schema del lavoro autonomo dell’obbligazione a prestare lavoro con modalità continuative e coordinate (anche a tempo indeterminato, essendo caduti i vincoli posti dal d.lgs. n.276/03 e successive modifiche).

Il ritorno al passato è tuttavia solo apparente, se solo si considera la disposizione contenuta nell’art.2 del decreto, ai sensi della quale: “a far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

Emerge, con nitidezza, il disegno governativo:

  1. da un lato, viene rimossa una disciplina, quella del lavoro a progetto, complessa, foriera di innumerevoli incertezze interpretative e – dopo le modifiche di impronta antielusiva introdotte dalla L. n.92/12 – di difficile applicazione;

  2. dall’altro, si fanno transitare nel campo di applicazione della disciplina del lavoro subordinato i rapporti di collaborazione personale, continuativa ed eterorganizzata dal committente. Contribuisce all’operazione di attrazione verso il contratto di lavoro subordinato la previsione, contenuta all’art.54 del decreto, volta a favorire la stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto e dei lavoratori autonomi titolari di partita Iva.

La disposizione prevede, nel caso di assunzione con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato di soggetti già parti di contratti di collaborazione coordinata e continuativa anche a progetto e di soggetti titolari di partita Iva, la possibilità di estinguere gli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro, fatti salvi gli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente alla assunzione.

La formulazione della norma pare voler dire che, a seguito dell’assunzione (e al ricorrere delle altre condizioni richieste – cfr. infra), rimangono non sanzionabili gli eventuali illeciti amministrativi, contributivi e fiscali relativi al pregresso rapporto di lavoro autonomo, ad esclusione di quelli già accertati al momento dell’assunzione.

Tutto ciò a condizione che:

  • i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano, con riferimento a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro, atti di conciliazione in una delle sedi di cui all’art.2113, co.4 cod.civ., o davanti alle commissioni di certificazione;

  • nei dodici mesi successivi alle assunzioni, i datori di lavoro non recedano dal rapporto di lavoro, salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo.


     

L’incerto significato sistematico dell’art.2, co.1 del decreto

La nuova disposizione introdotta dall’art.2, co.1, D.Lgs. n.81/15, è di incerto significato, anzitutto sotto il profilo sistematico. È dubbio, infatti, se essa si proponga semplicemente di estendere la disciplina del lavoro subordinato a fattispecie di lavoro autonomo, o se, invece, sia una norma che incide sulla fattispecie “lavoro subordinato”, modificandone i confini.

Prendendo alla lettera quel che scrive il Legislatore, la disposizione parrebbe estendere il campo di applicazione della disciplina del lavoro subordinato a rapporti ritenuti di natura autonoma, senza modificare direttamente la fattispecie di cui all’art.2094 cod.civ..

È pur vero che il Legislatore, nella disposizione in esame, omette di qualificare espressamente come autonome o subordinate le “collaborazioni” che ne sono oggetto, ma la circostanza che probabilmente le consideri alla stregua di collaborazioni autonome emerge da due elementi, uno letterale e uno sistematico. Il primo elemento si trova all’art.2, co.1, in cui è utilizzato il termine “committente” e non “datore di lavoro” per identificare la controparte contrattuale del collaboratore; il secondo elemento si desume dal co.2 della medesima disposizione, nel quale sono elencate le eccezioni alla regola di cui al co.1 (v. oltre): tali eccezioni sono compatibili con il principio di indisponibilità del tipo contrattuale soltanto ove si intendano riferite a ipotesi di collaborazione, pur eterorganizzata, ma di carattere autonomo.

Diversamente, se si leggesse l’art.2, co.1, come norma sulla fattispecie, ci troveremmo a dovere fare i conti con una serie di ipotesi (elencate al co.2 dello stesso articolo) in cui Legislatore sottrae rapporti di lavoro subordinato alle tutele stabilite dallo statuto protettivo del lavoro subordinato, con probabile lesione del principio di indisponibilità del tipo affermato dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. n.121/93 e n.115/94). Non sfugge, tuttavia, come una simile ricostruzione teorica dell’art.2, co.1, assuma, sotto il profilo sistematico, il significato di estendere la disciplina del lavoro subordinato a fattispecie di lavoro autonomo, ma nello stesso tempo, in via indiretta, produca un paradossale effetto restrittivo della fattispecie di cui all’art.2094 cod.civ., e più precisamente, della nozione di lavoro subordinato usualmente accolta nel diritto vivente.

Se infatti si ammette, così come sembra implicitamente presupporre il Legislatore, che le collaborazioni organizzate dal committente anche in relazione ai tempi e al luogo di lavoro conservino natura autonoma (tanto da essere necessaria una norma che estenda loro le tutele del lavoro subordinato), allora la nuova disposizione finisce per interferire con la giurisprudenza, anche di legittimità, che tende a ricondurre al lavoro subordinato anche i rapporti caratterizzati da inserimento funzionale nell’organizzazione aziendale, e quindi in sostanza anche i rapporti caratterizzati da prestazioni eterorganizzate, pur in assenza della prova dell’eterodirezione.

Si pensi, specialmente, agli orientamenti giurisprudenziali formatisi nell’ipotesi di lavori elementari e ripetitivi (ex multis, Cass. n.24561/13; Cass. n.2931/13), o, all’opposto, di mansioni caratterizzate da elevata specializzazione e/o di rilevante contenuto professionale (Cass. n.22289/14; Cass. n.8364/14; Cass. n.2056/14).

Ma, al di là di questi casi, si consideri la valorizzazione degli indici sussidiari della subordinazione compiuta in giurisprudenza nelle pronunce in cui sono ricondotti all’art.2094 cod.civ. i rapporti di lavoro caratterizzati dall’inserimento del prestatore nell’organizzazione dell’impresa, dalla continuità della prestazione lavorativa, dalla presenza di un orario di lavoro.

Quelle appena compiute sono, come è evidente, considerazioni che si muovono sul piano della ricostruzione sistematica della materia e assai meno coinvolgono il versante applicativo. In fin dei conti, le collaborazioni eterorganizzate anche sotto il profilo dei tempi e del luogo di lavoro, continuative ed esclusivamente personali, pur mantenendo natura formalmente autonoma, sono comunque attratte nella sfera di applicazione della disciplina del lavoro subordinato. Non specificando alcunché in proposito, si deve pensare che il Legislatore abbia esteso a questi rapporti l’intera disciplina del lavoro subordinato, senza eccezioni, comprendendosi quindi non solo la disciplina del rapporto contrattuale, ma anche quella relativa, ad esempio, agli obblighi di carattere pubblicistico, previdenziale e assicurativo. Ma se così è, sorgono seri dubbi sulla coerenza sistematica della scelta legislativa di non intervenire direttamente sulla fattispecie dell’art.2094 cod.civ., bensì di ampliare semplicemente il campo di applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

Ci si può chiedere, infatti, quale senso possa avere il mantenimento della formale qualificazione in termini di lavoro autonomo a fronte di rapporti di lavoro ai quali si applicano discipline tipiche dello schema della subordinazione giuridica, quali, ad esempio, l’art.2104 cod.civ., co.2, che impone al prestatore di lavoro di osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende; o l’art.2106 cod.civ., relativo al potere disciplinare.

Come si vede, la questione dell’inquadramento teorico dell’art.2, co.1, è tutt’altro che composta e v’è da scommettere che alimenterà un ampio dibattito.

 

Le nuove distinzioni: lavoro subordinato, lavoro eterorganizzato, lavoro coordinato

Passando agli aspetti più strettamente esegetici e applicativi, uno dei problemi da affrontare è dato dal rapporto tra l’art.2, co.1, decreto e l’art.409, n.3, c.p.c..

La questione più rilevante è comprendere se tutte le collaborazioni aventi le caratteristiche dell’art.409 c.p.c. sono ormai attratte nel campo di applicazione della disciplina del lavoro subordinato o se invece ve n’è una parte che rimane esclusa.

Ponendo a confronto i requisiti che si trovano nella nuova disposizione con quelli contenuti nell’art.409 c.p.c. si può osservare come due dei tre requisiti – la continuità e il carattere personale della prestazione – siano omogenei e dunque agevolmente confrontabili. In particolare:

  • la continuità è requisito comune alle due disposizioni, e dunque non vale a distinguere le forme di collaborazione: in entrambe le ipotesi la prestazione è volta a soddisfare un interesse continuativo del committente;

  • il carattere della personalità, pur presente in entrambe le disposizioni, è invece declinato diversamente nei due casi e, dunque, deve considerarsi quale primo elemento dirimente. Le collaborazioni ex art.409 c.p.c. possono essere “prevalentemente personali”. Le collaborazioni considerate dall’art.2, invece, sono soltanto quelle esclusivamente personali. Pertanto, se la collaborazione non è esclusivamente personale, ma prevalentemente personale, la fattispecie rimane esclusa dall’art.2, anche ove ricorra il carattere dell’eterorganizzazione.

Più difficile il confronto tra il terzo requisito dell’art.409 – il coordinamento – e il terzo requisito dell’art.2 – l’organizzazione della prestazione da parte del committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro.

Non è semplice stabilire in quale relazione stiano le nozioni di coordinamento e di eterorganizzazione, anche in ragione della pluralità di significati che, nell’elaborazione dottrinale, è stata attribuita al requisito del coordinamento.

Se si accede alla tesi secondo la quale il coordinamento realizza una forma attenuata di eterodirezione, qualificandosi come potere del committente di adeguare la prestazione alle esigenze aziendali, onde permetterne l’inserimento funzionale nell’organizzazione, allora il potere di organizzazione delle modalità di esecuzione della prestazione potrebbe intendersi come una forma intermedia tra il coordinamento e l’eterodirezione. Quando il coordinamento è così intenso da implicare l’organizzazione della prestazione anche sotto il profilo dei tempi e del luogo, allora il lavoro non è più coordinato, ma eterorganizzato e viene assimilato, quanto a discipline applicabili, al lavoro subordinato.

Rimane il dubbio relativamente all’utilizzo, nella disposizione, del termine “anche”, con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro. Alla lettera pare significare che, in linea teorica, potrebbero ben sussistere prestazioni eterorganizzate, ma non con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro, alle quali non si applica la disciplina del lavoro subordinato. Diversi sarebbero i termini del confronto se si accedesse alle tesi che ricostruiscono la differenza tra eterodirezione e coordinamento sul piano non solo quantitativo (l’intensità e la precisione delle direttive cui è soggetto il prestatore), ma sul piano qualitativo. Vi è chi ritiene che la differenza tra coordinamento e eterodirezione attenga al fatto che:

  • l’una – l’eterodirezione – configuri un potere del datore di lavoro (di conformazione della prestazione del dipendente, nell’ambito delle mansioni esigibili);

  • mentre l’altro – il coordinamento – configuri non un potere, ma un’obbligazione del collaboratore di coordinarsi con le esigenze organizzative e produttive del committente.

Una volta definiti in contratto i confini dell’obbligazione, il committente non sarebbe titolare di alcun potere di modifica delle modalità di esecuzione della prestazione. In questa prospettiva ricostruttiva, l’art.2 del decreto non andrebbe a incidere, a ben vedere, sull’ambito delle collaborazioni coordinate e continuative ex art.409 c.p.c., alle quali sarebbe estraneo il potere di coordinamento e quindi, a fortiori, anche quello di organizzazione delle modalità della prestazione da parte del committente, ma introdurrebbe la nuova categoria del lavoro eterorganizzato.

L’adesione a tale tesi ricostruttiva produrrebbe però un problema applicativo di difficile soluzione: quid iuris nel caso, sopra richiamato, di collaborazione organizzata secondo le modalità di esecuzione dal committente, ma non con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro?

Se il coordinamento di cui all’art.409 c.p.c. costituisse un’obbligazione del collaboratore e non un potere del committente, l’ipotesi in questione non rientrerebbe né nell’art.2 né nell’art.409 c.p.c..

È presumibile ritenere, dunque, che il Legislatore abbia costruito la nuova disciplina nel presupposto implicito che la differenza tra coordinamento e eterodirezione sia di tipo esclusivamente quantitativo.

Ne conseguirebbe che l’area del lavoro coordinato, del lavoro eterorganizzato e del lavoro subordinato sarebbero comunicanti tra di loro, e nello stesso tempo si distinguerebbero, in ragione del grado di intensità del potere riconosciuto al datore/committente.

 

 

Le eccezioni

Come già si è accennato, non tutte le collaborazioni eterorganizzate sono ricondotte alla disciplina del lavoro subordinato. È prevista una serie di eccezioni, che in parte, ma solo in parte, ricordano quelle già previste dall’art.61, co.1 e 3, D.Lgs. n.276/03, con riferimento al lavoro a progetto.

Ai sensi dell’art.2, co.2, la disposizione di cui al co.1 non trova applicazione in relazione:


  • alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del relativo settore. Tale disposizione rimette all’autonomia collettiva la possibilità di sottrarre alla disciplina del lavoro subordinato rapporti di lavoro autonomo eterorganizzato con riferimento anche ai tempi e al luogo di lavoro. Come si è già detto, se si ammette che le collaborazioni, pur eteroganizzate, conservino formalmente carattere di autonomia, allora non viene in questione il principio di indisponibilità del tipo contrattuale, che vieta al Legislatore e alle parti, individuali e collettive, di escludere l’applicazione delle discipline del lavoro subordinato a rapporti che di fatto hanno le caratteristiche del lavoro subordinato. La disposizione, piuttosto, potrebbe forse alimentare qualche dubbio di conformità rispetto al principio di cui all’art.3 Cost.. Le particolari esigenze produttive e organizzative di un certo settore possono giustificare il fatto che due collaboratori eterorganizzati nelle modalità di esecuzione della propria prestazione, anche con riferimento ai tempi e al luogo della prestazione, siano destinatari, l’uno della disciplina del lavoro subordinato, l’altro del trattamento economico e normativo definito dall’accordo collettivo? Se le “esigenze produttive e organizzative” si riducessero alla mera necessità di contenere il costo del lavoro in un certo settore qualche dubbio si porrebbe;

  • alle collaborazioni prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali è necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali;

  • alle attività prestate nell’esercizio della loro funzione dai componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni;

  • alle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni, come individuati e disciplinati dall’art.90, L. n.289/02. Le tre eccezioni richiamate riproducono, al netto di alcuni minimi aggiustamenti lessicali, altrettante ipotesi già escluse dall’applicazione della disciplina del lavoro a progetto.

A queste si aggiunge, poi, l’esclusione relativa ai rapporti di collaborazione con datori di lavoro pubblici. Il Legislatore, al co.4, art.2, dispone che “fino al completo riordino della disciplina dell’utilizzo dei contratti di lavoro flessibile da parte delle pubbliche amministrazioni, la disposizione di cui al comma 1 non trova applicazione nei loro confronti. Dal 1° gennaio 2017 è comunque fatto divieto alle Pubbliche Amministrazioni di stipulare le collaborazioni di cui al comma 1” (dell’art.2 del decreto).

Non sono state, invece, riproposte altre due ipotesi di esclusione già previste dal D.Lgs. n.276/03: le collaborazioni dei percettori di pensione di vecchiaia e le prestazioni occasionali (intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare ovvero, nell’ambito dei servizi di cura e assistenza alla persona, non superiore a 240 ore, con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito nel medesimo anno solare sia superiore a € 5.000,00).

Per completezza, vale la pena osservare che non rientra nell’ipotesi contemplata dall’art.2, co.1, D.Lgs. n.81/15 (né rientra tra i rapporti richiamati dall’art.409 c.p.c.), la fattispecie del lavoro autonomo (professionale o occasionale) nel quale la prestazione si svolga in assenza di coordinamento, continuità e, naturalmente, eterorganizzazione. A tale proposito si segnala come l’art.52 del decreto disponga anche l’abrogazione dell’art.69-bis, D.Lgs. n.276/03. Risulta, quindi, soppressa la previsione, introdotta dalla L. n.92/12, che poneva una presunzione relativa di collaborazione coordinata e continuativa al ricorrere di alcuni elementi relativi alla situazione di continuità della prestazione, di monocommittenza o di inserimento stabile nell’organizzazione aziendale (la presenza della c.d. postazione fissa) del lavoratore autonomo, ancorché titolare di partita Iva.

 

Cenni conclusivi al modello regolativo adottato dal Legislatore

In sintesi, il modello che ha ispirato il Legislatore, ancora una volta, pare rispondere essenzialmente a un intento antielusivo. La tecnica, ritenuta evidentemente inefficace, della riconduzione delle collaborazioni coordinate e continuative al progetto (accompagnata dalla tecnica delle presunzioni legali – cfr. L. n.92/12) è oggi sostituita da una tecnica differente che, assimilando – quanto a disciplina applicabile – le collaborazioni eterorganizzate a quelle eterodirette, tende a svuotare l’area delle collaborazioni coordinate e continuative (ma, come si è detto, non completamente) a favore dell’area del lavoro subordinato.

È confermata la tradizionale dicotomia tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, con conseguente rinuncia alla regolazione del lavoro autonomo economicamente dipendente.

Il criterio di imputazione delle discipline protettive giuslavoristiche rimane quello delle modalità di esecuzione della prestazione (eterodiretta, eterorganizzata, coordinata), senza alcuna concessione a criteri differenti, attinenti alla situazione economico-reddituale o alla dipendenza economica dal committente unico o prevalente.

Gli effetti della nuova regolamentazione, al momento non del tutto pronosticabili, non tarderanno a manifestarsi.

Quel che fin d’ora pare certo è che gli interpreti e gli operatori dovranno iniziare a destreggiarsi con la categoria inedita del lavoro eterorganizzato, con il rischio, neppure troppo remoto, di una duplicazione delle aree di incertezza qualificatoria: se fino a oggi l’area grigia era quella al confine tra lavoro subordinato e lavoro autonomo coordinato e continuativo, con l’introduzione della nuova area intermedia del lavoro eterorganizzato i confini di incerta determinazione diventeranno inevitabilmente due, e due saranno quindi le “aree grigie” con le quali fare i conti.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.