Strumenti di stabilizzazione del rapporto di lavoro: prolungamento del periodo di preavviso
di Barbara Garbelli Scarica in PDFIl processo di raggiungimento dell’equilibrio e della performance aziendale in relazione ai lavoratori si ottiene essenzialmente mediante interventi di natura attiva o passiva.
Se fra gli strumenti di natura attiva possiamo annoverare politiche di attrazione e fidelizzazione, gli strumenti di natura passiva sono definiti tali dal fatto che il lavoratore non sceglie liberamente di rimanere in azienda, ma si vincola al posto di lavoro, rinunciando a recedere dal contratto di lavoro, per un determinato periodo di tempo. Un classico esempio di queste misure è dato dalla clausola che prevede il prolungamento del periodo di preavviso.
Il periodo di preavviso: da elemento accidentale del contratto di lavoro a politica di retention
Ciascuna delle parti firmatarie del contratto di lavoro a tempo indeterminato, ai sensi dell’articolo 2118, cod. civ., può recedere dallo stesso, mediante un periodo di preavviso, la cui durata è stabilita dalla legge, dalle norme corporative (oggi dai contratti collettivi), dagli usi o secondo equità.
Lo scopo del preavviso è quindi quello di evitare le conseguenze pregiudizievoli che l’immediata cessazione del rapporto di lavoro determinerebbe per la parte che subisce il recesso; viene quindi concesso un periodo entro cui la parte che riceve la comunicazione di cessazione del rapporto può operare i dovuti passaggi di consegne e disporre una nuova organizzazione lavorativa.
Qualora il recesso sia conseguenza di una decisione del datore di lavoro, il preavviso garantisce al lavoratore una continuità economica durante il periodo di ricerca di una nuova occupazione; nel caso in cui invece il recesso provenga da parte del lavoratore, il preavviso garantisce al datore di lavoro un lasso di tempo utile per la ricerca di un sostituto.
Proprio per tali ragioni, così come previsto dal codice civile, qualora la parte recedente non rispetti il periodo di preavviso minimo previsto è obbligato a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso stesso.
Il preavviso di recesso (eventualmente sostituito dalla relativa indennità) costituisce dunque un obbligo gravante su entrambe le parti contraenti, a meno che non venga giudizialmente accertato che il relativo recesso sia sorretto da una giusta causa ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., oppure che il recesso sia stato comunicato durante il periodo di prova eventualmente previsto nel contratto di lavoro ai sensi dell’articolo 2096, comma 3, cod. civ. o da un lavoratore genitore durante il periodo tutelato; in questi casi, infatti, il preavviso non è dovuto.
L’attuale andamento del mercato e la conseguente necessità da parte dei datori di lavoro di stabilizzare i rapporti di lavoro di lavoro in essere, ha portato a porre forte attenzione sulle politiche di retention: è a questo proposito che il periodo di preavviso può diventare uno strumento di stabilizzazione dei rapporti di lavoro, al pari di un patto di non concorrenza o di un patto di stabilità.
Il patto di prolungamento del periodo di preavviso, che è lo strumento mediante cui il periodo di preavviso può assumere la valenza di una politica di retention, si configura quando le parti, di comune accordo, concordano che l’eventuale futuro recesso venga assoggettato a un periodo di preavviso avente durata maggiore rispetto a quella prevista dalla contrattazione collettiva.
In assenza di specifiche previsioni da parte dei contratti collettivi nazionali di lavoro, i limiti al ricorso di tali clausole sono individuati da giurisprudenza e dottrina.
Alcuni contratti collettivi nazionali di lavoro prevedono espressamente la facoltà delle parti di derogare alla durata prevista dal Ccnl: un esempio su tutti è dato dal Ccnl del settore credito, secondo cui il lavoratore è tenuto a presentare le dimissioni per iscritto con il preavviso di 1 mese, salvo diverso termine concordato dalle parti; questo passaggio legittima la disciplina individuale, che può disporre il prolungamento del periodo di preavviso per un periodo ritenuto congruo dalle parti ed in linea con l’indennità individuata a tale scopo.
Anche la giurisprudenza ammette tale facoltà, anche al di là di quanto specificatamente previsto dalla contrattazione collettiva: il preavviso -per espressa previsione dell’articolo 2118, cod. civ. – non può essere escluso dal contratto di lavoro in fase di stipula dello stesso e tantomento limitato rispetto a quanto previsto dalla normativa collettiva, ma può essere esteso per effetto della volontà delle parti debitamente manifestata.
La giurisprudenza definisce poi alcuni limiti di applicazione:
- il patto deve avere un’efficacia temporanea, al termine della quale le parti sono libere di recedere dal patto stesso, tornando quindi in vigore la durata del preavviso stabilita dal contratto collettivo;
- in caso di recesso da parte del lavoratore, dovrà essere previsto -come anticipato in precedenza- un indennizzo a compensazione di tale rinuncia.
Patto per il prolungamento del periodo di preavviso: punti d’attenzione
Una doverosa considerazione riguarda la possibilità di prolungare il preavviso rendendolo più lungo rispetto a quello di licenziamento: tale deroga, secondo i giudici, è possibile se prevista dal contratto collettivo e il lavoratore dovrà ricevere un compenso quale corrispettivo per il maggior termine accordato.
Qualora tale accordo celi tuttavia un accordo di natura diversa, quale una limitazione alla possibile concorrenza futura da parte del lavoratore, tale accordo è considerato nullo ab originem, in quanto elusivo dei “limiti di specificazione dell’attività e di adeguatezza del corrispettivo” (Cassazione n. 22933/2015); in questo caso il datore di lavoro potrebbe richiedere al lavoratore le somme indebitamente erogate.
Da ultimo, è necessario proporre una riflessione in merito all’imponibilità di tali somme ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto: in base alle previsioni dell’articolo 2120, cod. civ., la base imponibile per il calcolo del trattamento di fine rapporto: “… comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese”, definendo un concetto di non occasionalità come condizione minima da applicare a ogni emolumento erogato al lavoratore, per poterlo considerare utile ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto.
In funzione di questa considerazione possiamo asserire con assoluta certezza che l’indennità corrisposta a fronte del prolungamento del preavviso faccia parte degli emolumenti da considerare ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto.
Casi noti di giurisprudenza
Si propongono di seguito 3 esempi di giurisprudenza in materia di durata del preavviso, fra cui un recente esempio relativo a una sentenza del 2023.
ESEMPIO 1
Corte di Cassazione, sentenza n. 4991/2015
Con tale sentenza la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla legittimità del patto con il quale il lavoratore si era obbligato, a fronte di un corrispettivo economico, a osservare un periodo di preavviso, in caso di dimissioni, più lungo rispetto a quello fissato dal Ccnl. In questo specifico caso il Ccnl applicato al rapporto di lavoro per cui era stato siglato l’accordo (Ccnl del credito) prevede espressamente la possibilità, in caso di dimissioni, di stabilire un differente termine di preavviso, concordato tra le parti. Oltre a ciò, la Suprema Corte, con la sentenza in esame, ha confermato l’orientamento per cui un accordo per il prolungamento del periodo di preavviso sarebbe idoneo a produrre effetti, indipendentemente dalla possibilità che tale previsione sia espressamente contenuta nel contratto collettivo nazionale di lavoro.
È da ritenersi pertanto legittima la stipulazione individuale che prevede l’individuazione di un periodo di preavviso più lungo rispetto a quello previsto dalla normativa o dal Ccnl di riferimento, a fronte di un vantaggio economico per il lavoratore.
ESEMPIO 2
Corte di Cassazione, sentenza n. 14457/2017
Con tale sentenza la Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema del patto di durata minima, affermandone la legittimità a patto che -nella sua complessità- sia più favorevole per il lavoratore rispetto a quanto previsto dal contratto collettivo.
Il comma 1, articolo 2118, cod. civ., rinvia la fissazione del termine di preavviso non all’autonomia individuale, bensì alle norme corporative e, quindi, ora ai contratti collettivi di diritto comune, agli usi o all’equità giudiziale; oltre a ciò, con rimando alla categoria impiegati, producono ancora effetti i termini di preavviso previsti dall’articolo 10, R.D. 1825/1924, secondo cui per il licenziamento possono essere pattuiti “in misura più larga” (articolo 10, comma 1) onde favorire il lavoratore, mentre per le dimissioni il rinvio agli stessi termini (articolo 14, comma 1) non sembrerebbe comprendere anche la facoltà di ampliamento che qui svantaggerebbe il lavoratore.
In tal modo, a fronte di previsioni legali e contrattuali collettive, non derogabili in peius dall’autonomia privata, viene scongiurato il pericolo della imposizione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, di un preavviso di dimissioni eccessivamente lungo.
Si ricorda inoltre che, ai sensi dell’articolo 2077, cod. civ., quanto previsto in un contratto individuale di lavoro deve essere uniforme alle disposizioni del Ccnl di categoria e che: “le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro”.
ESEMPIO 3
Tribunale di Udine, sezione lavoro, sentenza del 7 febbraio 2023
Nel caso in esame il lavoratore, dopo aver pattuito un prolungamento del preavviso e aver percepito importo a compensazione di tale rinuncia, lo ha interrotto.
La sentenza del tribunale di Udine ha esaminato, nello specifico, la validità del patto di prolungamento di preavviso, la validità della richiesta di pagamento, la non vessatorietà della pattuizione[1] e l’esclusione della presunta nullità.
Il tribunale, a fronte della richiesta di risoluzione da parte del lavoratore per inadempimento relativa al mancato versamento dell’ultima parte di corrispettivo del patto e all’avvenuta compensazione con i crediti del lavoratore, ha rigettato la richiesta, confermando la piena legittimità del patto di prolungamento del preavviso che emerge anche dal Ccnl applicato al rapporto di lavoro (settore Credito) che prevede espressamente che “le dimissioni devono essere presentate per iscritto con il preavviso di 1 mese, salvo diverso termine concordato”[2].
Tale accordo è da intendersi dunque come espressione legittima della libertà negoziale delle parti e ha carattere accessorio e distinto da quello del contratto di lavoro.
Analisi della dottrina
Se la giurisprudenza è concorde nel considerare legittima una clausola contrattuale che prevede l’istituzione di un periodo di preavviso di durata superiore a quanto previsto dal Ccnl (a fronte di congruo ristoro economico), meno favorevole è la posizione della dottrina, che si è espressa negativamente ritenendo la normativa di riferimento concentrata sulla tutela del lavoratore e come tale inderogabile in pejus.
Secondo dottrina, il prolungamento del preavviso rappresenta un vincolo alla libertà, aggravato dal fatto che l’indennità sostitutiva del preavviso a fronte del prolungamento equivarrebbe a una penale tanto elevata da impedire di fatto l’anticipata risoluzione.
Antonio Vallebona[3] e Pietro Ichino[4] sostengono che la durata del preavviso non può in genere costituire oggetto di pattuizioni individuali per esplicita previsione contenuta nell’articolo 2118, cod. civ., che demanda espressamente alle norme contrattuali.
D’altro canto, Levi[5] e Russo[6], sostengono che le clausole di prolungamento del preavviso possono essere considerate legittime in quanto anche il lavoratore, pur a fronte di un carattere di corrispettività consistente in un aumento monetario e nella garanzia di un percorso professionale, trae un beneficio dalla stabilità del rapporto pur a fronte della limitazione del proprio potere di recesso.
Il lavoratore è obbligato a rispettare il patto siglato? Conclusioni
Ipotesi non troppo remota, come emerso anche dall’analisi del recente caso trattato dal tribunale di Udine, può riguardare il lavoratore che, nonostante abbia siglato il patto di prolungamento del periodo di preavviso e sia stato regolarmente retribuito per tale espressa rinuncia, si trovi nella condizione di non voler più rispettare tale disposizione.
Utilizzando le parole di Antonio Vallebona: “Il lavoratore può liberarsi del rapporto senza rispettare il maggior preavviso semplicemente rinunziando al compenso superminimale pattuito ad hoc e senza ulteriori conseguenze pregiudizievoli”.
Il lavoratore potrà quindi esercitare il diritto di rivedere la propria posizione, senza tuttavia dimenticare che quanto percepito a indennizzo per la rinuncia esercitata dovrà tornare nella disponibilità del datore di lavoro, unitamente a un eventuale trattenuta relativa al periodo di preavviso minimo previsto dal Ccnl, che regola il rapporto di lavoro.
[1] Il Tribunale ha escluso che la pattuizione possa avere natura vessatoria in quanto “la disciplina di cui all’art. 1341 c.c. è applicabile solo alle condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti nel c.d. contratto per adesione e, in ogni caso, è da escludersi la vessatorietà se è prevista la corresponsione in favore del lavoratore di un corrispettivo”.
[2] Si veda anche esempio di cui ai precedenti paragrafi.
[3] “Preavviso di dimissioni e accordi individuali”, in Lav. giur., 2001, pag. 1120.
[4] “Il contratto di lavoro”, Vol. III, 2000, pag. 390).
[5] G. Giappichelli “Contratto di lavoro e recesso del dipendente”, Ed., 2012, pag. 84.
[6] “Problemi e prospettive nelle politiche di fidelizzazione del personale. Profili giuridici”, Milano 2004, pag.122.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.