10 Giugno 2020

Lo Statuto dei Lavoratori 50 anni dopo

di Riccardo Del Punta

Sarebbe stato arduo immaginare un contesto più complicato di quello nel quale è caduto, lo scorso 20 maggio, il cinquantennale dell’emanazione della L. 300/1970, meglio nota come Statuto dei diritti dei lavoratori. Il drammatico stato di emergenza conseguente alla diffusione della pandemia da COVID-19 ha assorbito tutte le nostre energie, costringendoci a rivedere abitudini, modalità relazionali, stili di vita, e dando altresì luogo alla produzione di un già corposo “diritto dell’emergenza” che ha toccato anche importanti istituti del diritto del lavoro, con l’intento di far fronte alle drammatiche ricadute sociali legate alla pandemia e alle misure di lockdown che sono state adottate per contenerla.

Tutto il resto è stato travolto, o differito a tempi migliori. Ma fra i tanti eventi già programmati per la primavera del 2020 ce n’era uno più speciale degli altri, e più difficilmente separabile dalla data in cui avrebbe dovuto essere celebrato. Bene ha fatto “Il giurista del lavoro”, dunque, a tenere ferma l’iniziativa, da tempo scadenzata, di dedicare all’anniversario dello Statuto dei Lavoratori una serie di approfondimenti che saranno pubblicati nei prossimi numeri della rivista, sotto forma di commenti a singoli articoli o a gruppi omogenei di articoli della Legge. È, appunto, questo lavoro collettivo di commento, finalizzato a collocare ciascuna previsione statutaria nell’attuale contesto normativo, che si intende introdurre con le pagine che seguono.

 

La legge e il simbolo

Anche un giurista del lavoro talvolta incline alla dissacrazione, quale il sottoscritto, non può celare, di fronte allo Statuto dei Lavoratori, una certa soggezione, dovuta al fatto di riconoscere quel complesso di norme come costitutivo della propria identità.

Lo Statuto, in effetti, è un simbolo popolare di successo, sul quale si è depositato negli anni un grande investimento politico, culturale, e in ultima analisi affettivo. Grazie ad esso, in una peculiare contingenza storica (la seconda metà degli anni ’60) che esigeva che le classi lavoratrici venissero fatte finalmente partecipare ai frutti della crescita economica del dopoguerra, il Legislatore è arrivato a mettere nero su bianco – anche grazie alla lucida ispirazione di figure come quella di Gino Giugni – che il lavoratore subordinato doveva essere trattato non come un fattore di produzione qualsiasi, bensì come una persona dotata di piena dignità anche una volta varcati “i cancelli della fabbrica”.

Non che un diritto del lavoro, all’epoca, non esistesse affatto, essendo stato scandito, nel corso di quello stesso decennio, da Leggi importanti, come la L. 1369/1960 sul divieto di appalto di manodopera, la L. 230/1962 sul contratto a termine, la L. 7/1963 sui licenziamenti a causa di matrimonio, e soprattutto la L. 604/1966 sui licenziamenti individuali, che per la prima volta aveva infranto il dogma della libertà di licenziamento (o recesso ad nutum) risalente all’impostazione liberale del codice civile.

È stato soltanto con lo Statuto dei Lavoratori, tuttavia, che è stato posto il suggello su una gamma di diritti basici dei lavoratori subordinati, per i quali è stata così tracciata una via di uscita dalla loro storica condizione di minorità.

Una parte del merito deve essere anche ascritta all’impiego, divenuto da subito comune, della parola “Statuto”, che è andata a riassumere l’avvenuta acquisizione, da parte del lavoratore, di uno stato giuridico di piena cittadinanza, e come tale capace di frapporsi, con la forza derivante dal carattere imperativo e inderogabile in peius delle norme che lo delineavano (un carattere chiaramente proclamato dall’articolo 40), alla libertà contrattuale dell’imprenditore, sino a quel momento preponderante.

Taluno potrà non convenire che si sia trattato davvero di conquiste irreversibili, rammentando che alcune norme dello Statuto, e tra le più importanti (l’articolo 4 sui controlli a distanza sui lavoratori, l’articolo 13 sul regime delle mansioni, e, last but not least, l’articolo 18 sul regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo) sono state profondamente modificate nel 2012 (licenziamento) e 2015 (controlli e mansioni), e che soprattutto una di tali riforme (ovviamente quella dell’articolo 18, poi radicalizzata dal D.Lgs. 23/2015) è stata molto controversa a livello politico e sindacale.

L’attualità di una Legge non può equivalere, però, alla sua intoccabilità, a meno di farne un totem al di fuori della storia e della politica. Inoltre, persino queste riforme, tra l’altro intervenute dopo ben 42 e 45 anni dall’emanazione della Legge, hanno conservato diversi caratteri del testo originario, pur flessibilizzandolo e adattandolo a situazioni ed esigenze nuove. E sulla più ardita di esse, quella del D.Lgs. 23/2015, il Decreto Dignità del 2018 e la sentenza n. 194/2018 della Corte costituzionale hanno imposto un deciso dietrofront.

Gli interventi sullo Statuto erano cominciati, comunque, già nel 1995, con il referendum popolare che ha stravolto il testo dell’articolo 19 sulla Rsa, in seguito ulteriormente manipolato dalla sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale.

Quello stesso referendum ha cassato anche l’articolo 26 sulla trattenuta dalla busta paga dei contributi sindacali: ma in quel caso sono venuti in soccorso i contratti collettivi.

È del 2002, inoltre, l’abrogazione dei superatissimi articoli 33 e 34 sul vecchio sistema di collocamento dei lavoratori, che infatti sono stati espunti dalla serie dei commenti.

Un simbolo, quindi, che ha ormai un posto riconosciuto nella storia della materia, ma anche una Legge viva, che merita di essere sottoposta a un duplice piano di analisi.
Il primo è quello della valutazione di adeguatezza rispetto a realtà che sono profondamente mutate, e ben da prima di questo anniversario.

Basti pensare, per dirne una, che nel 1970 – per quanto i computer già esistessero e avessero reso possibile, un anno prima, il primo viaggio dell’uomo sulla Luna – eravamo ancora nella preistoria delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, come rivelano, ad esempio, norme come l’articolo 4 pre-riforma e l’articolo 8.

Il secondo piano, sul quale si muoveranno i commenti qui presentati, è quello della ricostruzione e della contestualizzazione interpretativa.

Si tratta di ricostruire il passato, ma soprattutto il presente delle varie disposizioni: di quelle rimaste intonse dopo 50 anni, alcune delle quali sono state, però, integrate in modo importante dal diritto giurisprudenziale (si pensi all’esperienza applicativa di norme come l’articolo 7 sulle sanzioni disciplinari o l’articolo 28 sul procedimento di repressione della condotta antisindacale); di quelle che, come l’articolo 9, dopo non essere mai decollate, sono state assorbite da normative di sistema assai più perfezionate (il T.U. 81/2008, che ha istituito il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza); di quelle che, pur venendo ribadite nella loro valenza precettiva e di sistema, sono però divenute tasselli di un quadro normativo più ampio ed evoluto, grazie ai decisivi apporti regolativi dell’Unione Europea (si pensi agli articoli 15 e 16 in materia antidiscriminatoria); di quelle che, come l’articolo 19, si sono trovate inserite in un complicato gioco di affiancamento con le concorrenti creazioni dell’autonomia collettiva (mi riferisco  all’istituzione della Rsu come alternativa alle Rsa), senza esserne però soppiantate; e, infine, di quelle interessate dalle riforme già evocate. Per ciascuna di queste norme, i commentatori dovranno seguire percorsi interpretativi differenti.

 

Le norme sulla tutela della libertà e della dignità dei lavoratori

Quello che dà corpo a un’idea profonda di libertà e dignità dei lavoratori è uno dei 2 grandi capitoli della Legge (l’altro si occupa della libertà e dell’attività sindacale in azienda). Si tratta di un insieme di norme che, con l’uso di tecniche giuridiche diverse (affermazione positiva di diritti di libertà, libertà negative fotografate in termini di divieto, e soprattutto limiti di natura imperativa ai principali poteri datoriali), si sono spinte sin nel cuore del rapporto di lavoro subordinato, intaccando sostanzialmente il primato dell’imprenditore (“capo dell’impresa”: si veda articolo 2086, cod. civ.) sui collaboratori che ne dipendono gerarchicamente.

Di alcune di queste norme, il tempo trascorso ha confermato l’attualità, anzi rinvigorendone le ragioni ispiratrici. Ciò non toglie che un’operazione di contestualizzazione rimanga necessaria, atteso che esse debbono far fronte a problematiche nuove.

È il caso, anzitutto, della libertà di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro (articolo 1), che è tutta da rapportare all’era della comunicazione diffusa, soprattutto veicolata dai social media. Le insidie maggiori provengono, al riguardo, non già dagli imprenditori “all’antica” cui guardava lo Statuto, ma da quelli maggiormente inseriti nei circuiti comunicativi globali. Il diritto di critica dei lavoratori, che è sacrosanto sin quando è esercitato in modo proporzionato, deve essere salvaguardato con una speciale attenzione: sarebbe antistorico considerare il lavoratore del XXI secolo come un “soldato” agli ordini dell’impresa. C’è inoltre il rischio che si determini, come nel mondo anglosassone sta già accadendo, un circolo vizioso tra la corsa ad apparire che i social media incoraggiano, le preoccupazioni reputazionali (ergo, commerciali) delle imprese e il conformismo del politically correct.

Fa, invece, quasi tenerezza, di fronte alla mole di informazioni personali che i lavoratori e soprattutto le persone in cerca di lavoro riversano spontaneamente nei social media (nella speranza di essere “profilati” favorevolmente), il divieto di indagini sulle opinioni e su ogni fatto “non rilevante ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore” (articolo 8). Non che la norma, antesignana dell’idea di privacy del lavoratore (soprattutto a fini di prevenzione delle discriminazioni), abbia perduto la propria ragion d’essere, ma essa rischia di essere aggirata sempre di più dalla comunicazione via social, oltre che da più stagionate pratiche elusive.

Alcune delle norme relative ai controlli sui lavoratori, e cioè quelle di cui agli articoli 2, 3 e 6, sono rimaste come allora, senza dar luogo a particolari criticità, ma, per almeno 2 di esse (guardie giurate e visite personali di controllo, alias perquisizioni), con una netta perdita di importanza. Quanto al precetto dell’articolo 3 in merito alla trasparenza del personale di vigilanza, a mettere una pezza sulle conseguenze irragionevoli di un’applicazione troppo letterale del disposto ci ha pensato la giurisprudenza, con l’invenzione (tanto saggia quanto concettualmente debole) dei “controlli difensivi”, che si è poi propagata all’ambito del susseguente articolo 4.

Venendo appunto al regime dei controlli a distanza, l’informatizzazione dei processi di lavoro ha messo in crisi il modello statutario, rendendo obsoleta la distinzione tra strumenti di lavoro e strumenti di controllo, che esso presupponeva. Già per questa ragione, dunque, una riforma era indispensabile. La scelta del Legislatore del 2015 è stata quella di puntare sulla normativa privacy (poi rimessa a nuovo, nel 2016, dal GDPR), in un’ottica volta al bilanciamento tra il diritto fondamentale al rispetto della sfera personale – anche sul lavoro – e le prerogative imprenditoriali. La promozione di tale normativa è arrivata al punto di condizionare al rispetto della stessa (a cominciare dai doveri di informativa) l’utilizzabilità (anche disciplinare) dei dati personali raccolti. Ma resta un grande lavoro da fare, da parte di tutti gli attori in gioco (a cominciare dalle Autorità garanti, europea e italiana), per dare una fisionomia più compiuta ed equilibrata, in un senso e nell’altro, a una civiltà dei controlli tecnologici nei luoghi di lavoro.

Non è stato più rimesso in discussione, per quanto concerne gli accertamenti sanitari sulle malattie e gli infortuni dei lavoratori (un diverso regime vale oramai, nel quadro del T.U. salute e sicurezza, per le visite di idoneità), il divieto di far ricorso a medici di fiducia del datore di lavoro (articolo 5). Non va, però, dimenticato che questa piccola norma favorì, negli anni ’70, un forte incremento dell’assenteismo, inducendo il Legislatore a correre ai ripari con l’istituzione, nel 1983, delle fasce orarie di reperibilità domiciliare. Nondimeno, che con questo siano stati risolti tutti i problemi di effettività delle visite fiscali, sarebbe azzardato affermarlo.

Invece, sembra essere stata metabolizzata in misura soddisfacente dai datori di lavoro, in quanto portatrice di valori di “civiltà giuridica”[1], la norma che ha vincolato l’esercizio del potere disciplinare al rigoroso rispetto di una procedura volta a garantire al lavoratore un pieno diritto di contraddittorio e difesa (articolo 7). Le possibili migliorie potrebbero consistere, in questo caso, in una riscrittura più lineare della disposizione, che tenesse altresì conto di una serie di chiarimenti apportati nel tempo dalla giurisprudenza.

 

Le mansioni

Se da un punto di vista formale il glorioso articolo 13 dello Statuto ormai non esiste più, in quanto il testo dell’articolo 2103, cod. civ., che disciplina il regime giuridico delle mansioni del lavoratore, è oggi recato dall’articolo 3, D.Lgs. 81/2015, è doveroso continuare a parlarne in un’occasione come questa, visto che il tema fa parte, a pieno titolo, dell’eredità statutaria (e altresì, per questo aspetto, della sua messa in discussione).

In effetti, se dovessi rispondere a un quesito su quali sono i 4 articoli dello Statuto che considero più importanti, non avrei esitazioni a menzionare l’articolo 18, gli articoli 19 e 28, e appunto l’articolo 13, il quale ha inciso in modo significativo sul nucleo del potere direttivo datoriale, che è il potere di specificazione, e dunque anche di mutamento (ius variandi), delle mansioni assegnate al lavoratore.

La norma statutaria aveva osato molto, apprestando una rigida disciplina in virtù della quale il legittimo esercizio dello ius variandi era condizionato a un giudizio di “equivalenza” delle mansioni di destinazione rispetto a quelle di provenienza, e non esistevano, nel contempo, modi per aggirare pattiziamente il limite legale (quest’ultimo vincolo, peraltro, è stato successivamente allentato dalla giurisprudenza, che, andando saggiamente praeter legem, ha riconosciuto la legittimità dei patti di demansionamento ove stipulati in alternativa al licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

La riforma del 2015 ha superato il troppo incerto concetto di “equivalenza”, identificando l’ambito di legittimo esercizio dello ius variandi nella gamma di mansioni appartenenti allo stesso livello di inquadramento contrattuale nonché alla stessa categoria legale. In questo modo, la gestione della flessibilità funzionale è stata messa nelle mani dei sistemi di classificazione dei contratti collettivi, che debbono rappresentare, per il giudice, l’unico parametro per giudicare se ci sia stata o no una dequalificazione professionale del lavoratore. Per altro aspetto, la nuova norma ha confermato il via libera ai patti di demansionamento, dei quali ha altresì ampliato i possibili contenuti, ma li ha sottoposti alla condizione della stipulazione in sede assistita.

Nell’insieme, quindi, è stato introdotto un regime maggiormente aperto nei confronti delle istanze di flessibilità delle imprese, ma senza affatto dismettere il fronte della difesa della professionalità del lavoratore.

 

Il licenziamento

Sul mitico articolo 18, norma-simbolo per eccellenza dello Statuto, ci sarebbero così tante cose da dire, da indurmi a dirne il meno possibile, lasciando la parola al rispettivo commentatore. Non c’è dubbio che si trattasse, nella versione rimasta in vigore per 42 anni, dopo essere stata ulteriormente rinvigorita con la L. 108/1990, di un regime particolarmente protettivo in rapporto ai parametri europei. Qualunque fosse il tipo di illegittimità del licenziamento, il vecchio articolo 18 contemplava la medesima tutela, vale a dire il ripristino giuridico del rapporto di lavoro e l’ordine di reintegrazione materiale nel posto di lavoro, da un lato, e il risarcimento integrale dei danni patrimoniali pregressi, dall’altro. Con l’ulteriore facoltà potestativa (introdotta dalla citata L. 108/1990) di scambiare la continuazione del rapporto con un’indennità sostitutiva pari a ulteriori 15 mensilità.

Questo regime così compatto non ha resistito ai marosi della crisi del debito sovrano italiano del 2011-2012, a sua volta conseguente alla crisi finanziaria del 2007-2008. La Riforma Fornero, varata con L. 92/2012, vi ha così posto mano, realizzando una nuova disciplina esasperatamente compromissoria (così come ampia ed eterogenea, nel contesto emergenziale del momento, era la maggioranza parlamentare che sosteneva il Governo Monti). Essa ha conservato la tutela reintegratoria (in forma piena o attenuata, cioè con un cap di 12 mensilità sui risarcimenti) per i casi più gravi di licenziamento illegittimo, mentre ha previsto, per tutti gli altri, una tutela indennitaria determinabile dal giudice tra 12 e 24 mensilità di retribuzione.

L’immissione in circolo della tutela economica (seppure già prevista, da sempre, per le piccole imprese) ha fatto della norma l’oggetto di accese dispute, che si sono poi trasferite su come dovessero essere interpretati i (problematici) confini fra le 2 tutele. La Corte di Cassazione ha prodotto un’ampia giurisprudenza a tale riguardo.

Successivamente, il già evocato D.Lgs. 23/2015, punta di diamante del Jobs Act, ha impresso un’ulteriore svolta in favore di un regime di compensation, ma incentrato sulla novità di un moltiplicatore automatico di 2 mesi per ogni anno di anzianità di servizio del lavoratore licenziato, entro un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità. Il tutto è stato applicato, però, ai soli lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, dandosi così vita a un doppio regime alquanto disfunzionale.

Ma il gioco è durato poco, perché il Decreto Dignità del 2018, espressione del Governo Lega-5 Stelle, ha innalzato il minimo e il massimo di cui sopra a 6 e 36 mensilità. A completare l’opera è sopravvenuta la sentenza n. 194/2018 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il meccanismo di incremento automatico dell’indennità risarcitoria in rapporto all’anzianità di servizio, attribuendo al giudice il potere di determinazione dell’indennità entro il range previsto.

A questo punto ci sarebbe bisogno di un Legislatore sereno e tranquillo che ponesse mano a un opportuno riordino della disciplina, oramai troppo frammentata. E ho detto tutto.

 

Le norme sulla tutela della libertà e dell’attività sindacale

L’altro cavallo di battaglia dello Statuto è stata la creazione di una rete di norme dedicate a creare le condizioni di una piena agibilità sindacale all’interno delle aziende. Ciò è stato fatto su 2 piani paralleli, la cui concezione è ancora attuale.

Da un lato, sono state previste, a valere per tutti, norme di difesa della libertà sindacale in azienda (l’articolo 14 sul diritto di svolgere attività sindacale in azienda, gli articoli 15 e 16 sul divieto di discriminazioni per ragioni sindacali, e l’articolo 17 sul divieto dei sindacati di comodo).

Dall’altro lato, è stata disegnata, ma in questo caso per i soli sindacati più rappresentativi, una normativa di sostegno del contropotere sindacale in azienda, incentrata sulla Rsa (articolo 19) e su una batteria importante di diritti di attività sindacale (articoli 20-27), tra i quali i diritti ad assemblee e a permessi sindacali retribuiti, impensabili prima dello Statuto (diversi di questi diritti, peraltro, sono tecnologicamente invecchiati).

Il tutto è stato suggellato dalla previsione di uno speciale procedimento giudiziario per la repressione della condotta antisindacale (articolo 28), che ha celebrato i suoi fasti soprattutto negli anni ’70 e ’80, ma che resta tuttora uno strumento importante per garantire l’effettività dei diritti sindacali.

Il punto debole del sistema è stato, semmai, quello della rappresentanza sindacale.

Si è già accennato alle vicissitudini dell’articolo 19, il cui favor verso le confederazioni maggiormente rappresentative non ha retto alla prova del referendum del 1995 e della successiva sentenza n. 231/2013 della Corte costituzionale, che ha abilitato la costituzione di Rsa nell’ambito di tutte le organizzazioni sindacali anche solo partecipanti alle trattative per contratti collettivi di livello nazionale e aziendale.

Nel contempo, le carenze democratiche del modello legale di rappresentanza hanno portato al suo superamento per via contrattuale, tramite l’istituzione di un nuovo organismo di rappresentanza formato su base elettiva (la già citata Rsu). Le 2 forme di rappresentanza, tuttavia, sono rimaste entrambi in piedi, con una duplicazione poco funzionale.

 

Il soffio della storia

Anche lo Statuto dei Lavoratori, come qualunque prodotto sociale, non ha fatto eccezione alla legge dell’invecchiamento e della storicità, come hanno dimostrato le vicende di alcune sue parti. Il che non esime dal ravvisarne, e dal celebrarne laicamente, l’impatto rivoluzionario che esso ha avuto nella storia del diritto del lavoro italiano.

Le sue 2 idee portanti – il valore della libertà e dignità dei lavoratori, l’importanza di un contropotere sindacale in azienda – sono tuttora pienamente valide, anche se, come ogni cosa, debbono essere adeguate ai tempi e ai contesti.

A uno sguardo retrospettivo, si è rivelato eccessivo l’affidamento che esso ha riposto nei confronti delle grandi organizzazioni sindacali, che non si sono dimostrate in grado di contraccambiarlo in mancanza di più solide investiture democratiche, che lo Statuto aveva ritenuto, invece, di poter bypassare. Un’altra conseguenza di tale vizio d’origine è stata la rimozione dei problemi della contrattazione collettiva, che si sono puntualmente ripresentati in stagioni successive.

Un’altra carenza originaria è stata l’eccessiva focalizzazione sulla sola realtà dell’impresa medio-grande e dei lavoratori subordinati standard, all’epoca concepiti come un polo d’attrazione quasi unico della forza lavoro, il che è stato poi spiazzato dalla diffusione delle forme di lavoro flessibile, quando non precario.

Diverse norme dello Statuto sono state poi ripensate, o dovrebbero tuttora esserlo, alla luce dell’impatto trasversale della digitalizzazione sui modi di produzione e di organizzazione del lavoro, che tra l’altro è venuto a ruota di precedenti trasformazioni dei modelli organizzativi in senso toyotista o post-fordista.

Per il resto – ma qui si lambisce inevitabilmente il piano dei giudizi politici –, lo Statuto ci restituisce l’immagine di una pace armata tra 2 parti costrette a collaborare, ma le cui sorti sono immaginate come fondamentalmente separate, in un mondo nel quale il conflitto centrale era ancora reputato quello tra capitale e lavoro.

All’epoca, beninteso, non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che una delle 2 parti era rimasta, sino al giorno prima, irrimediabilmente più debole e non in grado di avere un confronto paritario, soprattutto dentro le aziende. Per cui, appunto, dovevano esserle dati gli strumenti per poterlo sostenere.

A distanza di 50 anni, e dopo che la materia della quale lo Statuto è stato a lungo il riconosciuto alfiere si è trovata a sostenere, negli anni 2000, una sequenza impressionante di choc sistemici, a cominciare dalla globalizzazione vera per giungere sino all’attuale pandemia, è da chiedersi se non sia il caso di andare oltre – come in buona parte si è già andati, ad esempio attraverso pratiche partecipative che lo Statuto aveva ignorato – quell’assetto di potenziale stallo, provando a impostare, o a consolidare, ove già avviata, una politica di collaborazione strategica tra imprese, sindacati e lavoratori, che parta dalla valorizzazione degli interessi comuni, più che dall’enfatizzazione di quelli contrapposti, che tuttora, ovviamente, ci sono.

Ma a ciò – ossia a un rinnovato patto sociale – si potrà, se del caso, arrivare non soltanto per la benevolente disponibilità delle imprese, bensì sulla base di un confronto da pari a pari adeguatamente supportato a livello istituzionale, del che potrebbe far parte anche la riscrittura di uno Statuto per i lavoratori del XXI secolo, questa volta preferibilmente esteso a tutti i lavori.

Quale che sarà il destino di quell’idea seminale, è giusto ribadire, dopo tanti anni, che del difficile percorso verso il riconoscimento ai lavoratori di una piena dignità giuridica e sociale, lo Statuto dei Lavoratori è stato una pietra miliare: esso è stato, per questo, uno di quei rari eventi sui quali si è sentito il soffio della storia, e non soltanto di quella del ‘900.

[1] Cfr. Corte Cost. n. 427/1989.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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