3 Novembre 2016

Chi vuole spegnere del tutto il lavoro intermittente? 

di Marco Frisoni

 

La nota n. 18194 del 4 ottobre 2016, formulata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali in materia di lavoro a chiamata, ha destato non poche perplessità (oltre che preoccupazioni, in virtù delle ricadute sul piano ispettivo che ne potrebbero oggettivamente discendere) fra i datori di lavoro (e i loro professionisti) e, soprattutto, getta non poche ombre sulle prospettive future su tale forma contrattuale invero molto controversa sin dalla propria introduzione nel panorama giuslavoristico avvenuto attraverso la c.d. Legge Biagi del 2003.

Giova rammentare come, scorrendo i contenuti del documento di prassi in parola, il Dicastero, ai sensi del D.Lgs. 81/2015 (uno dei tasselli del Jobs Act), ritenga demandata alla contrattazione collettiva (anche di secondo livello, purché munita dei galloni di rappresentatività statuiti dall’articolo 51 del D.Lgs. stesso) l’individuazione delle esigenze organizzative e produttive con riferimento alle quali possono svolgersi prestazioni di lavoro a chiamata, precisando altresì che, in mancanza di disciplina sindacale, opera ancora (in attesa di un nuovo decreto ministeriale) il D.M. 23 ottobre 2004, che, a propria volta, ha rinviato alla tabella allegata al R.D. 2657/1923.

In particolare, il Ministero interpreta l’articolo 13, comma 1, D.Lgs. 81/2015 nel senso che la delega affidata agli accordi collettivi possa essere intesa anche in senso negativo, vale a dire con funzione preclusiva; in altre parole, le parti stipulanti ben potrebbero escludere l’applicabilità del lavoro a chiamata nel settore interessato, a condizione che esplicitino le ragioni su cui viene imperniata una siffatta determinazione (a onor del vero, il Ministero si limita ad affermare che le parti sociali sarebbero chiamate solo a dare conto che, nell’ambito del contesto merceologico di riferimento, non si rinvengono le esigenze legittimanti l’uso del job on call).

Di talché, chiarito che resta comunque legittimo il ricorso al lavoro intermittente nel caso in cui sussistano i requisiti soggettivi di cui all’articolo 13, comma 2, D.Lgs. 81/2015 (lavoratori con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni), la conseguenza della violazione delle clausole contrattuali che escludono il ricorso al lavoro intermittente integra una carenza in ordine alle condizioni legittimanti l’utilizzo di tale forma contrattuale e la conseguente applicazione della sanzione della conversione in rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato.

Orbene, senza pretesa di svolgere un approfondimento giuridico sulla questione, la presa di posizione del Ministero risulta quanto meno straniante rispetto all’orientamento che, sino ad ora, aveva caratterizzato la prassi (anche qualificata, poiché sovente veicolata per il tramite dell’istituto dell’interpello di cui al D.Lgs. 124/2004) del Dicastero che, nel tempo, appariva tesa, con le dovute cautele, ad estendere l’alveo applicativo del lavoro a chiamata visto l’ostracismo e lo sfavore quasi fisiologico dimostrato dalle parti sociali che, consciamente, hanno in larga parte optato per ignorare detta forma di lavoro.

Non solo; non si può non ricordare che lo stesso Ministero, con interpello n. 37 del 1° settembre 2008, rispondendo a una sollecitazione posta dal Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro in argomentazione di legittimità o meno delle clausole contrattuali con le quali si esclude l’applicazione del contratto di lavoro intermittente a determinati comparti, a mente dell’articolo 34, D.Lgs. 276/2003 allora vigente affermava che l’autonomia collettiva sembrava essere destinataria di un potere integrativo/ampliativo e non preclusivo e, pertanto, in buona sostanza, l’inverso di quanto affermato con la nota del 4 ottobre 2016.

Posto che, in una logica competitiva della fonti, l’interpello dovrebbe prevalere sulla mera prassi (tale è la nota ministeriale), non si comprende se si tratti di un nuovo corso finalizzato a depotenziare il contratto di lavoro a chiamata, quasi fosse una sorta di formula risarcitoria a posteriori per indolcire molte pillole amare del Jobs Act, oppure di una semplice svista che, a questo punto, prima che si verifichino effetti inimmaginabili sul piano ispettivo, necessiterebbe di un’immediata (e gradita) precisazione del Ministero.

Insomma, l’auspicio è che, al di là di tutto, non si tenti, per via traverse, di spegnere progressivamente le lampadine intermittenti del lavoro a chiamata …

 

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