9 Luglio 2019

Un solo Tfr, un solo momento per disporne: crederci sempre, fino alla fine

di Riccardo Girotto

Il diritto al proprio Tfr continua a essere tormentato da una giurisprudenza fortemente ondivaga. Le 2 tesi contrapposte dell’istituto a maturazione differita e dell’istituto a mera esigibilità differita hanno tenuto per anni con il fiato sospeso gli operatori del diritto.

Una prima lettura, condivisa da chi scrive, e protesa a sostenere l’infrazionabilità e l’indisponibilità del titolo in costanza di rapporto, qualificava il Fondo Tfr come un mero accantonamento contabile, inabile a intervenire nel patrimonio del lavoratore prima della cessazione, fatte salve le espresse previsioni di anticipazione tipizzate dall’articolo 2120, commi 6 ss. cod. civ..

Successivamente si sviluppò una giurisprudenza in controtendenza divenuta prevalente, che, garantendo la frazionabilità dell’istituto, lasciava piena libertà di gestione ai lavoratori titolati a disporre di un credito in formazione. Le sentenze di legittimità n. 24635/2009, n. 19291/2011 (confermate da Cassazione n. 20873/2013 e n. 9464/2015) possono sicuramente considerarsi ispiratrici di un percorso legislativo teso a complicare oltremodo la gestione del Tfr, culminato con la novazione dell’articolo 29, D.Lgs. 276/2003: “In caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto …”.

L’intento della legge pareva chiaro, la fruibilità operativa tutt’altro. Dal testo letterale si evince, ad esempio, come il lavoratore, dopo 25 anni di lavoro presso una ditta impiantistica operante in appalti plurimi, in caso di insolvenza del proprio datore di lavoro, potenzialmente possa richiedere frazioni pro quota ai diversi committenti, ognuno dei quali dovrà: liquidare capitale e rivalutazione, tassare il tutto, coordinarsi con gli altri debitori solidali.

Si susseguirono, figlie di una tesi che pareva ora intoccabile, note di prassi dal tenore a dir poco bizzarro. In scia, recentemente, la circolare n. 19/2018 del Ministero del lavoro ci ha spiegato come viene liquidato il Tfr a carico Inps in caso di Cigs per cessazione aziendale, con successiva ripresa del rapporto senza soluzione. L’Istituto paga il Tfr al dipendente “in ogni caso” al termine della Cigs. Anche la cessazione del rapporto, fin qui unica certezza legata all’esigibilità, diventa quindi un requisito superfluo, superato, quasi anacronistico.

Di fronte a tutto questo, ogni accordo assistito in sede protetta, teso alla gestione del titolo di fine rapporto, considerato sempre nella sua accezione di diritto indisponibile, almeno questo senza dubbio, doveva considerarsi attendibile, con le parti pronte a rimbalzare da una parte all’altra le quote di “liquidazione”, spartendosi liberamente la solidarietà a piacimento.

Ma proprio quando il Tfr spacchettato sembrava poter dormire sonni tranquilli, è il talento della Suprema Corte a sfoderare la giocata che non ti aspettavi, o che ti aspettavi, ma verso la quale avevi perso ogni speranza. Eppure la fiducia detta la differenza e, in un solo colpo, la Cassazione n. 14510/2019 sancisce principi antitetici a quelli diffusi, per certi versi lapidari:

  • il lavoratore non può disporre di un diritto futuro;
  • la rinuncia di un diritto futuro, o la mera disposizione dello stesso, deve considerarsi radicalmente nulla;
  • il Tfr entra nel patrimonio del lavoratore, che quindi potrà disporne solamente una volta cessato il rapporto.

Forse questa sentenza sosterrà solo delle tesi in “maturazione”, in attesa di un’effettiva sintesi sul tema: certa, liquida ed esigibile, come prevede da sempre il giusto articolo 2120 cod. civ.. Ma la certezza arriverà solo alla fine.

 

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