22 Luglio 2020

Smart working: da scelta a necessità

di Carlo CavalleriIlaria ConteIsabella De Vecchis

In questi mesi di lockdown ed emergenza sanitaria, il c.d. smart working, o lavoro agile, è diventato sempre di più, per molti lavoratori, l’unica modalità possibile per poter continuare a prestare la propria attività lavorativa e, in molti casi, è stato un prezioso strumento per le aziende per continuare a portare avanti il loro core business senza dover, per questo, porre i propri dipendenti in cassa integrazione. Nel presente contributo andremo ad analizzare brevemente la norma che disciplina tale istituto, per sottolineare i punti in cui vi è un inevitabile scostamento da parte di questo smart working “emergenziale”, per poi soffermarci sulle situazioni in cui il Legislatore ha reso quasi obbligatoria tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa a causa del coronavirus.

 

L’istituzione dello smart working: la L. 81/2017

L’articolo 18, L. 81/2017, nota anche come Statuto del lavoro autonomo, introduce la definizione di lavoro agile, ossia: “Una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo fra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva”.

Emergono, quindi, già da questa definizione le caratteristiche salienti di tale istituto: l’alternanza di svolgimento della prestazione lavorativa presso i locali aziendali e all’esterno – aspetto che, oltretutto, differenzia lo smart working dal telelavoro, il quale prevede che la prestazione lavorativa sia svolta sempre ed esclusivamente all’esterno dell’azienda – l’orario di lavoro non vincolato, anche se con alcuni limiti, come vedremo successivamente, il fatto che non sia una nuova tipologia contrattuale, ma solo una modalità di svolgimento delle prestazioni all’interno delle forme contrattuali già note al nostro ordinamento (lavoro a tempo indeterminato, determinato, part-time, apprendistato, anche se in quest’ultimo caso occorre porre attenzione all’aspetto formativo e di tutoraggio tipiche della figura dell’apprendista), la necessità di un accordo fra le parti.

Il lavoro agile deve, infatti, essere introdotto da un accordo fra datore di lavoro e lavoratore, ma non è necessario che sia espressamente previsto dai contratti collettivi di livello nazionale o di secondo livello. Tale accordo deve disciplinare l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro e agli strumenti utilizzati dal lavoratore. Dovranno essere regolamentati i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative necessarie per garantire il c.d. diritto alla disconnessione dello stesso.

Sarà necessario che il datore di lavoro precisi quali sono le condotte specifiche che potranno dare luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, oltre, comunque, a inserirle in ogni caso all’interno del codice disciplinare, posto che, proprio per la tipologia di svolgimento della prestazione lavorativa, che si basa su una maggiore autonomia del lavoratore, questi dovrà orientarsi più su obiettivi e risultati, che non sulla quantità di tempo lavorato. Le possibili problematiche che dovranno essere dettagliate come potenzialmente portatrici di sanzioni disciplinari saranno, quindi, quelle legate, per esempio, alla mancata prestazione o alla mancata reperibilità negli orari concordati, oppure alla scelta del luogo di lavoro che non risponda a criteri di ragionevolezza o riservatezza, oppure, ancora, alla violazione di disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro da parte del lavoratore.

L’accordo che introduce lo smart working può essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato e il recesso può avvenire da entrambe le parti con un preavviso non inferiore a 30 giorni, a meno che non si tratti di un recesso per giustificato motivo, che consente di non tener conto del periodo di preavviso. In caso di lavoratore disabile, il termine di preavviso del recesso dall’accordo da parte del datore di lavoro non può essere inferiore a 90 giorni, per consentire al lavoratore un’adeguata riorganizzazione dei percorsi di lavoro rispetto alle proprie esigenze di cura e di vita.

Per quanto riguarda l’orario di lavoro, abbiamo già accennato al fatto che la norma richiama esclusivamente i limiti di durata massima dello stesso, senza richiamare altri istituti, come, per esempio, il lavoro notturno o quello straordinario. Si ritiene, pertanto, che questi ultimi debbano essere espressamente esclusi dall’accordo di smart working, stante anche la difficoltà di gestire verifiche quantitative sull’orario lavorato anche in termini di lavoro notturno. Il lavoratore dovrà comunque essere reperibile in fasce orarie concordate, mentre in altre avrà diritto alla disconnessione.

La L. 81/2017 si preoccupa, inoltre, di disciplinare la tutela della sicurezza sul lavoro, anche quando reso in modalità agile. L’articolo 22, L. 81/2017, impone, infatti, al datore di lavoro di consegnare con cadenza almeno annuale al prestatore di lavoro e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza un’informativa scritta nella quale siano individuati i rischi generali e i rischi specifici connessi alla particolare modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, che peraltro dovranno comunque essere indicati anche nel DVR. Naturalmente, come in tutta la normativa che disciplina la sicurezza sul lavoro, viene ribadito che il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro

La tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali è comunque garantita dall’Inail, sia per la prestazione resa al di fuori dei locali aziendali, sia in caso di infortunio in itinere durante il normale percorso di andata e ritorno dal luogo di abitazione a quello scelto per lavorare, sempre che quest’ultimo risponda a criteri di ragionevolezza e sia connesso a esigenze di conciliazione delle esigenze di vita con quelle di lavoro. Se il rischio assicurato è il medesimo di quello svolto normalmente dal lavoratore in azienda, il datore di lavoro non ha nessun obbligo di specifica denuncia assicurativa, altrimenti, nel caso in cui tale rischio dovesse variare, è obbligatorio dettagliarlo nell’informativa e inviarne comunicazione alla sede Inail territorialmente competente.

 

Il ricorso allo smart working durante l’emergenza COVID-19

Durante l’attuale emergenza sanitaria, soprattutto nei mesi del lockdown più restrittivo, il lavoro agile è stato individuato dal Governo come strumento preferenziale da far utilizzare ai datori di lavoro, insieme allo smaltimento di ferie e permessi e all’utilizzo dei congedi, per evitare lo spostamento di grandi quantità di lavoratori ogni giorno.

Al fine di incentivare l’utilizzo di tale modalità di svolgimento della prestazione, è stata anche semplificata la procedura di attivazione del suddetto strumento, ed è qui che troviamo le prime deroghe rispetto alla disciplina ordinaria: infatti, fino alla fine della fase di emergenza epidemiologica, prevista attualmente per il 31 luglio 2020, ma che potrebbe proseguire in base all’andamento dell’indice del contagio, è permesso l’utilizzo dello smart working anche in assenza degli accordi individuali disciplinati dalla L. 81/2017. In aggiunta, gli obblighi di informativa sulla salute e sicurezza sono assolti anche se effettuati solo in via telematica, ricorrendo alla documentazione resa disponibile sul sito dell’Inail. E, ancora, la comunicazione obbligatoria individuale di avvio dello svolgimento della prestazione in modalità agile, prevista dall’articolo 23, L. 81/2017, da effettuare sul sito Cliclavoro del Ministero del lavoro, viene sostituita da una comunicazione massiva, in cui possono essere indicati, in un file excel, tutti i lavoratori che potranno sfruttare la possibilità di lavorare da casa.

Dunque, attualmente la Legge ci permette di attuare lo smart working anche in assenza di un accordo fra le parti. Tuttavia, passato il primo periodo in cui, per necessità, abbiamo dovuto procedere tutti come se si trattasse di una “corsa agli armamenti”, sarebbe opportuno regolamentare in ogni caso lo svolgimento della prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, soprattutto per alcuni aspetti peculiari come la definizione del potere disciplinare del datore di lavoro e l’indicazione di eventuali ulteriori comportamenti rilevanti ai fini disciplinari, l’elencazione dei luoghi ove è possibile prestare attività in modalità agile (conformi alle norme di sicurezza), i casi di necessario rientro in azienda, i riferimenti in azienda e le modalità di comunicazione per assenze o problematiche e la regolamentazione circa l’utilizzo della strumentazione informatica e le modalità per la disconnessione.

Se in questo momento la maggior parte dei nostri lavoratori si trova a lavorare fuori dall’azienda e sarebbe troppo oneroso regolamentare il lavoro agile in maniera individuale, possiamo pensare di farlo, se non altro, per categorie omogenee.

Il Decreto Cura Italia ha inoltre stabilito che: “Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVlD-19, i lavoratori dipendenti disabili nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona con disabilità nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile ai sensi dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione. Ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità’ agile ai sensi degli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81. 2-bis. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano anche ai lavoratori immunodepressi e ai familiari conviventi di persone immunodepresse”.

Tale messaggio è stato anche rafforzato dai vari protocolli condivisi dalle parti sociali, che sono stati redatti per il contenimento del virus, che hanno individuato nel lavoro agile uno strumento idoneo a ridurre un’alta concentrazione di persone sui luoghi di lavoro.

In ultimo, il Decreto Rilancio, D.L. 34/2020, all’articolo 90, comma 1, ha stabilito quanto segue: “Fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da COVID–19, i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore, hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali, fermo restando il rispetto degli obblighi informativi previsti dagli articoli da 18 a 23 della legge 22 maggio 2017, n. 81, e a condizione che tale modalità sia compatibile con le caratteristiche della prestazione”.

La ratio della norma appare chiara: l’intenzione è quella di sostenere il lavoratore nella gestione dei figli, e nel contempo, aiutare nel contenimento del contagio fornendo una corsia preferenziale a chi ha tali necessità famigliari, tuttavia, se vi è un genitore “non lavoratore” viene meno quella necessità di tutela delle esigenze familiari, che potranno essere comunque essere espletate da parte di questo genitore. Appare, tuttavia, problematica la questione di come possa il datore di lavoro essere a conoscenza dello stato lavorativo di quest’ultimo.

Troviamo, quindi, l’altra grande differenza rispetto allo smart working tradizionale: mentre normalmente è frutto di una scelta e di un accordo fra datore di lavoro e lavoratore, in questa situazione di emergenza, da una parte, il datore di lavoro può collocare il lavoratore in smart working senza particolari formalità e senza il suo consenso, dall’altra, ci sono, invece, determinate situazioni in cui è obbligato dalla Legge a consentire lo svolgimento della prestazione in modalità agile.

 

Attenzione al rifiuto

Abbiamo visto che, in alcune specifiche circostanze, il datore di lavoro è pressoché obbligato a concedere al dipendente che ne faccia richiesta la possibilità di lavorare in modalità agile, con l’unico limite che la prestazione lavorativa sia compatibile con tale modalità di svolgimento. Questo elemento, per lo più arbitrario, sembrerebbe poter lasciare margine all’azienda di negare il diritto del lavoratore nel caso in cui essa dimostri l’incompatibilità tra le caratteristiche della prestazione lavorativa e la modalità di lavoro da remoto. Se tale dimostrazione appare ovvia per alcune attività, basti pensare a linee di produzione industriali oppure nel commercio al dettaglio, in altri casi potrebbe essere legata a una valutazione datoriale che dovrà dimostrare tale incompatibilità, tenendo conto anche, eventualmente, del pregresso periodo svolto in modalità agile durante il lockdown.

Se il datore di lavoro vorrà intraprendere tale direzione, dovrà fornire una rigorosa prova dell’incompatibilità della prestazione lavorativa con lo smart working oppure del fatto che tale soluzione comporti un onere eccessivo e insostenibile.

Quest’ultimo punto pare, tuttavia, di difficile dimostrazione, anche a causa della previsione contenuta nel Decreto Rilancio, per cui “la prestazione lavorativa in lavoro agile può essere svolta anche attraverso strumenti informatici nella disponibilità del dipendente qualora non siano forniti dal datore di lavoro”.

Inoltre, non dobbiamo dimenticare un altro possibile vincolo per il datore di lavoro, che rende quasi impossibile respingere questo tipo di richieste, ossia l’articolo 2087, cod. civ.. Come noto, tale articolo racchiude una norma programmatica in tema di sicurezza sul lavoro, per cui: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Questo articolo è considerato programmatico perché non elenca una serie di provvedimenti che devono essere adottati al fine di tutelare le condizioni di lavoro, ma, attraverso una formula aperta, lascia l’imprenditore libero di adottare tutte le soluzioni ritenute idonee e necessarie al fine di garantire la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro. Da ciò discende, pertanto, una responsabilità contrattuale del datore di lavoro alla tutela dell’integrità fisica dei propri lavoratori.

Stante quanto appena visto, per il datore di lavoro sarà oltremodo difficile poter respingere le richieste di lavoro in modalità agile provenienti dai propri dipendenti.

Si collocano, infatti, in questa linea di pensiero 2 recenti pronunce di fine aprile del Tribunale di Grosseto e del Tribunale di Bologna, che condannano, appunto, 2 datori di lavoro che hanno opposto un secco rifiuto alla richiesta di propri dipendenti di poter lavorare in modalità agile.

Nel primo caso, la società si era rifiutata di adibire al lavoro agile un dipendente con contratto a tempo indeterminato e mansioni di addetto al servizio di assistenza legale e contenzioso, nonostante tutti i colleghi del suo reparto fossero già stati autorizzati a lavorare dal proprio domicilio. Oltretutto, il lavoratore evidenziava di poter vantare una precedenza nel diritto di lavorare in smart working, in quanto portatore di patologia da cui era derivato il riconoscimento di un’invalidità civile con riduzione della sua capacità lavorativa al 60% e riduzione della capacità di deambulazione. L’azienda, tuttavia, si era limitata a prospettargli il ricorso alle ferie anticipate, da computarsi su un monte ferie non ancora maturato, in alternativa alla sospensione non retribuita del rapporto fino alla cessazione della lamentata incompatibilità. A detta dell’azienda, avendo essa proceduto alla scelta dei soggetti da collocare in lavoro agile all’epoca in cui il ricorrente si trovava in malattia, si trovava ora nell’impossibilità di modificare l’organigramma del personale cui era consentito lavorare in remoto, salvo affrontare costi significativi in termini economici e organizzativi, non potendo ricorrere a turni in alternanza fra il personale. Oltre a ciò, sempre secondo l’azienda, il certificato medico di temporanea inidoneità alla mansione le avrebbe imposto di non adibire ad alcuna attività lavorativa il lavoratore ricorrente.

Il Tribunale di Grosseto ha indicato le motivazioni della società resistente come del tutto pretestuose, in quanto poco plausibili per un’impresa di notevole importanza (e, dunque, munita di consistenti risorse economiche e organizzative) e, soprattutto, a fronte della già attuata misura in favore degli altri dipendenti del medesimo reparto del lavoratore interessato, il quale, oltretutto, aveva rappresentato all’azienda di aver provveduto all’installazione di una rete wi-fi mobile presso il proprio domicilio. Inoltre, riguardo al certificato di malattia, lo stesso si limitava a indicare l’allontanamento dal posto di lavoro, in quanto, a causa delle patologie croniche polmonari preesistenti, il lavoratore non poteva essere sottoposto a rischi aggiuntivi di contrarre l’infezione da COVID-19, che notoriamente grava proprio sull’apparato respiratorio. E per posto di lavoro, cui fa riferimento il certificato, non poteva che intendersi il luogo ove abitualmente il lavoratore prestava l’attività lavorativa, ovvero la sede operativa in Grosseto, e non certo il domicilio, non essendo rilevabile alcun nesso diretto tra la patologia e l’attività lavorativa in sé, sebbene svolta in ambiente domestico e, come tale, protetto. Viene, inoltre, fatto presente che il ricorso al lavoro agile è stato considerato una priorità, al punto che tale misura è stata reiteratamente e fortemente raccomandata e, addirittura, considerata modalità ordinaria di svolgimento della prestazione nella Pubblica Amministrazione. Inoltre, ai sensi dell’articolo 39, comma 2, D.L. 18/2020, ai lavoratori del settore privato affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa è riconosciuta la priorità nell’accoglimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile, situazione nella quale si trovava indubitabilmente il ricorrente.

Pertanto, laddove il datore di lavoro privato sia nelle condizioni di applicare il lavoro agile, il ricorso alle ferie non può essere indiscriminato, ingiustificato o penalizzante, soprattutto laddove vi siano titoli di priorità per ragioni di salute; il lavoratore ricorrente si troverebbe, in questo caso, di fronte alla scelta tra 2 distinte e ingiustificabili rinunce: alla retribuzione o al godimento annualmente ripartito delle ferie come via via maturate in ragione del lavoro prestato, in entrambi i casi con sicura compromissione di diritti fondamentali e intangibili dello stesso.

Nel caso esaminato dal Tribunale di Bologna, la lavoratrice ricorrente, dipendente della società convenuta come impiegata addetta al settore fiscale, aveva richiesto di poter usufruire della formula lavorativa in smart working, allegando certificazione del suo stato di invalida in misura del 60%. La stessa ha, inoltre, una figlia disabile nelle condizioni di cui all’articolo 3, comma 3, L. 104/1992. L’azienda, che sta già utilizzando la modalità smart working per taluni dipendenti dell’ufficio fiscale al quale è addetta la lavoratrice, rispondeva negativamente all’istanza della stessa e la collocava in cassa integrazione, deducendo che, qualora dovesse riprendersi l’attività lavorativa, si sarebbe presa in esame la richiesta in parola, senza tuttavia dare successivamente alcun riscontro in merito.

Il Tribunale, dopo aver ricordato che nella attuale situazione di emergenza sanitaria il lavoro da casa è raccomandato o imposto dalla normativa recente, e richiamato l’articolo 39, D.L. 18/2020, sottolinea che la ricorrente, invalida al 60%, convive con figlia con handicap grave accertato e documentato. Trattasi di 2 soggetti gravemente esposti al rischio di contagio, anche in forma grave, con l’emergenza sanitaria ancora in corso. Vi è più che fondato timore di ritenere che lo svolgimento dell’attività di lavoro in modalità ordinarie, uscendo da casa per recarsi al lavoro, esponga la ricorrente al rischio di un pregiudizio imminente e irreparabile per la salute sua e della figlia convivente; e, pertanto, ordina al datore di lavoro di procedere immediatamente ad assegnare la ricorrente a modalità di lavoro agile smart working, dotandola degli strumenti necessari o concordando l’uso di quelli personali.

 

Conclusione

L’ultima sostanziale differenza che è emersa a seguito dell’emergenza sanitaria riguarda il fatto che lo smart working tradizionale prevede periodi di lavoro in azienda alternati con periodi di lavoro all’esterno, proprio al fine di mantenere sempre saldi i legami con la realtà aziendale e con i colleghi ed evitare quella sensazione di alienazione che potrebbe discendere dal lavorare sempre in isolamento; dove per “esterno” si intende, potenzialmente, qualsiasi luogo fisico ritenuto idoneo per lo svolgimento della prestazione lavorativa (un solo accenno alla necessità di valutare il luogo nel rispetto delle norme in merito alla privacy dei dati trattati). In questo periodo, invece, non si è potuto far altro che annullare quest’alternanza in favore di uno smart working più simile a un telelavoro, presso l’abitazione del lavoratore.

Per cui, anche in vista di un utilizzo più massivo di questo strumento nel futuro, aspetto che sicuramente si andrà concretizzando, dato che entrambe le parti hanno comunque potuto apprezzare i lati positivi di questo strumento fino ad oggi ancora poco utilizzato a livello di piccole e medie imprese, sarà opportuno ripristinare delle modalità di alternanza reali ed efficaci, che permettano di conciliare le esigenze di vita con quelle di lavoro, senza però sacrificare anche l’aspetto più prettamente sociale proprio di ciascun ambiente lavorativo.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.

 

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