La settimana finanziaria
di Mediobanca S.p.A.IL PUNTO DELLA SETTIMANA: gli impatti sull’economia globale degli attacchi agli impianti petroliferi sauditi
- Il danno arrecato ai due impianti petroliferi sauditi è significativo, ma resta incerta la sua entità
- L’impatto del repentino aumento del prezzo del petrolio sull’economia mondiale dipenderà dalla sua durata
- Dopo lo shock di fiducia delle imprese, prodotto dall’incertezza del commercio internazionale, un aumento duraturo del prezzo del petrolio potrebbe produrre un nuovo shock di offerta, capace di indebolire il consumatore globale
Sabato 14 ottobre gli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq e Khurais hanno subito un attacco, da parte di droni Iraniani o forniti dall’Iran. L’attacco, ufficialmente rivendicato dagli Houthi yemeniti (che in Yemen combattono sul fronte opposto rispetto a Riyadh), ha inferto pesanti danni alla produzione petrolifera saudita, causandone una diminuzione di più del 50%, pari ad una riduzione dell’offerta sul mercato di 5,7 milioni di barili al giorno, corrispondenti al 5% dell’offerta globale di petrolio. Questa contrazione dell’offerta globale ha provocato un drastico aumento dei prezzi del greggio, che all’apertura del mercato di lunedì mattina è aumentato di circa il 20% rispetto alle quotazioni di venerdì, raggiungendo i 71,9$ al barile. Una simile impennata del prezzo di apertura giornaliero del Brent non si verificava dall’invasione del Kuwait del 1990 da parte di Saddam Hussein. L’attacco ha riacceso tensioni mai sopite nel Golfo Persico, dove ogni parte accusa l’altra di privare il paese della sua principale fonte di ricchezza. Da un lato c’è la vendita di petrolio iraniano impedita dalle sanzioni US e benedette da Riyan, dall’altra la indebolita produzione petrolifera dell’Arabia Saudita, dimezzata dagli attacchi dei droni. L’attacco di sabato rientra in una crisi più ampia, che coinvolge il confronto tra Iran e Stati Uniti su diversi piani (economico, della sicurezza e stabilità regionale, della non proliferazione nucleare), è strettamente collegato alla strategia US di “massima pressione” sull’Iran e si configura come un rischio di scenario, a cui potrebbero aggiungersi altri episodi nei prossimi mesi.
Soffermandosi sulle conseguenze dei soli attacchi della scorsa settimana, l’impatto sull’economia globale dipenderà dai danni effettivi subiti dagli impianti e dal periodo di interruzione della loro produzione di greggio. L’impianto di Abqaiq è il maggior impianto al mondo di lavorazione del petrolio, con una capacità di oltre 7 mb al giorno, che gestisce l’estrazione del greggio dal giacimento di Ghawar destinato all’esportazione verso i terminali Ras Tanura, Juaymah e del Mar Rosso. Un’interruzione prolungata ad Abqaiq ridurrebbe significativamente la produzione saudita. Khurais è per dimensioni il secondo giacimento petrolifero saudita, con una capacità produttiva di 1,45 mb al giorno. La ripresa della produzione e delle esportazioni dipenderà dall’entità dei danni e dal fatto che questi si siano verificati in un impianto di lavorazione piuttosto che in un campo petrolifero. A seconda della gravità dei danni si avrà un diverso impatto sulla riduzione della produzione saudita e l’effetto derivante sul prezzo del petrolio dipenderà dalla durata di questa interruzione. Un’interruzione molto breve – una settimana ad esempio – si tradurrebbe in un aumento modesto e permanente del prezzo del petrolio (3-5$/barile), imputabile al solo aumento del premio geopolitico ascrivibile al timore che nessun giacimento è oggi sicuro. Questo aumento impatterebbe poco sull’economia mondiale, dato che il prezzo del petrolio ha subito comunque un calo pari al 29% rispetto al picco di ottobre 2018, e si tradurrebbe solamente in un ulteriore aumento dell’incertezza globale, che si andrebbe a sommare a quella derivante dalle accresciute tensioni commerciali. Un’interruzione ai livelli attuali tra le due e le sei settimane, oltre allo spostamento dei prezzi a lungo termine, comporterebbe un inasprimento della curva a termine del Brent (2-mo vs. 3 anni avanti) di rispettivamente 2-9$/barile*. Nel complesso, il movimento atteso del prezzo sarebbe di 5-14$/barile *, commisurato alla durata dell’interruzione. Invece, se la durata dell’attuale livello di interruzione del servizio dovesse essere superiore alle sei settimane, è plausibile prevedere che i prezzi del Brent saliranno rapidamente sopra i 75$/barile*, innescando effetti di grandi dimensioni sia sul fronte dell’offerta che della domanda di scisto, con un impatto diretto sulla capex USA.
Un aumento prolungato del prezzo del petrolio si configura come un ulteriore shock di offerta per l’economia globale, che andrebbe a pesare principalmente sui consumi – componente che negli ultimi due anni ha sostenuto la crescita nelle economie avanzate- in una fase in cui il settore manifatturiero è, già, in forte rallentamento. Un aumento del prezzo del petrolio si traduce, dapprima, in un aumento dell’inflazione attraverso l’impatto diretto e indiretto sulle categorie di prezzo connesse all’energia e, conseguentemente, fa diminuire la spesa non energetica in percentuale del reddito disponibile – essendo la domanda di benzina solitamente anelastica – Un aumento dell’inflazione potrebbe diminuire il margine di manovra delle banche centrali che, grazie al livello silente dell’inflazione headline, possono attualmente permettersi una politica monetaria accomodante.
Un rischio elevato potrebbe configurarsi, inoltre, per i paesi emergenti importatori netti di petrolio, che dovranno affrontare uno shock commerciale negativo, dovuto all’aumento dei prezzi del petrolio. Inoltre, per le economie emergenti, che già registrano disavanzi delle partite correnti (ad esempio, India, Sudafrica e Turchia, che sono tra i maggiori importatori di petrolio), l’aumento dei prezzi del petrolio metterà a rischio le loro capacità di finanziamento. Ciò risulta particolarmente vero in questo ciclo, dato che l’aumento della produzione petrolifera USA e la riduzione della bilancia commerciale del petrolio si sono tradotte in uno stabile disavanzo delle partite correnti USA, che funge da ulteriore sostegno al dollaro US. Le banche centrali dei paesi emergenti non riusciranno quindi a far fronte allo shock dei prezzi del petrolio e, al netto, le loro condizioni finanziarie si inaspriranno.
Sui mercati finanziari, un aumento persistente del prezzo del petrolio si tradurrebbe in un rafforzamento del dollaro US. Infatti, solitamente quando uno shock di offerta muove al rialzo il prezzo del petrolio, il dollaro US si rafforza e cala la propensione al rischio degli investitori.
*Secondo quanto stimato dalla Banca di investimento Goldman Sachs.
A cura di Teresa Sardena, Mediobanca SGR
SETTIMANA TRASCORSA
L’OECD ha pubblicato il settimana l’aggiornamento del proprio Outlook, incorporando per il 2019 una riduzione della crescita globale dal 3,2% al 2,9% e prevedendo per il 2020 una crescita del 3% – i tassi di crescita annua più deboli dalla crisi finanziaria. La riduzione è infatti stata giustificata dal fatto che l’intensificarsi della diatriba commerciale sta pesando sulla confidenza degli investitori.
EUROPA: cala l’inflazione in UK
L’indice delle condizioni attuali ZEW (Economic Sentiment) tedesco si è attestato in settembre a -19,9 (consenso -15,0; valore precedente -13,5), peggiorando di 6,4 punti percentuali a settembre, raggiungendo il livello più basso da maggio 2010, e riconfermando la debolezza nel terzo trimestre. La debolezza industriale si fa sempre più sentire sul mercato del lavoro, mentre l’economia si prepara ad entrare in una recessione tecnica in T3. Al contrario, l’indice che cattura le aspettative degli investitori è salito a -22,5, salendo di 21,6 punti percentuali rispetto ad agosto. L’indagine riporta che gli investitori erano meno pessimisti riguardo alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina ed erano più fiduciosi che una “no-deal Brexit” venisse evitata. L’inflazione nel Regno Unito ad agosto si è attestata al livello più basso dal dicembre 2016 (1,7% – consenso 1,9% di consenso, valore precedente 2,0%). Anche l’inflazione core si attesta all’1,5% (consenso 1,8% e valore precedente 1,9%). I dati aggiungono un’ulteriore giustificazione perché la BoE continui a mantenere una politica economica invariata per i prossimi mesi.
USA: ancora positivo il mercato immobiliare
L’indice Empire della NY Fed a settembre corregge marginalmente, scendendo a 2 da 4,8 di agosto, con un segnale di quasi-stagnazione. Lo spaccato dell’indagine mostra marginale espansione di ordini e consegne, modesta accelerazione dei prezzi pagati e ricevuti, e ripresa della dinamica occupazionale. Sull’orizzonte a sei mesi, le condizioni di attività in calo a 13,7 da 25,7 di agosto. Le componenti dell’indagine a 6 mesi sono in generalizzato calo, particolarmente marcato per le spese in conto capitale a 4,6 (-19 punti), sui minimi dal 2016. Nel complesso i dati non modificano il quadro di stagnazione dell’attività nel manifatturiero e di preoccupazione delle imprese per lo scenario dei prossimi trimestri. La produzione industriale in agosto è salita dello 0,6% m/m (consenso: 0,2% m/m, valore precedente -0.1% m/m rivisto al rialzo). Nel manifatturiero, la produzione nel comparto manifatturiero è salita di 0,5% m/m, pur in presenza di una contrazione di -1% m/m nel settore auto. Il manifatturiero ex-auto ha infatti segnato un incremento di 0,6% m/m, con una variazione di 1,6% m/m per i macchinari e di 0,4% m/m per l’elettronica. Le utility sono risultate in crescita di 0,6% m/m, mentre l’estrattivo rimbalza di +1,4% m/m dopo -1,5% m/m di luglio. I dati di agosto riportano l’output sui livelli dell’inizio della primavera e segnalano una possibile stabilizzazione, più che una svolta verso l’alto dei trend di attività, alla luce delle informazioni deboli delle indagini di settore. L’indice della Philadelphia Fed a settembre ha corretto a 12, da 16,8 di agosto, mantenendosi in territorio espansivo. La scomposizione dell’indagine è più positiva dell’indice di attività, con un marginale calo dei nuovi ordini a 24,8 da 25,8 di agosto, e rialzi per le consegne, l’occupazione, la settimana lavorativa e gli indici di prezzo. L’indice di attività a 6 mesi corregge, ma rimane relativamente elevato a 20,8 (da 32,6). Le diverse componenti a 6 mesi sono in flessione dai livelli molto elevati di agosto e segnalano ancora ottimismo delle imprese riguardo alle prospettive cicliche. L’indice NAHB homebuilders in settembre si è attestato a 68 (consenso 66, valore precedente 67). I nuovi cantieri residenziali ad agosto hanno sorprendono verso l’alto, salendo a 1,364 mln (massimo da giugno 2007), da 1,215 mln di luglio raggiungendo il suo livello più alto da ottobre 2018. L’aumento è particolarmente marcato nel comparto delle unità multifamiliari, ma anche le unità monofamiliari risalgono sui livelli di gennaio. Un trend verso l’alto dei cantieri è coerente con le indicazioni dell’indagine dei costruttori di case e con il significativo calo dei tassi sui mutui, tuttavia la variazione di agosto potrebbe essere rivista verso il basso, vista la volatilità della serie. Le licenze danno una sorpresa altrettanto ampia, toccando 1,419 mln (massimo da maggio 2007), da 1,317 mln di luglio, con indicazioni di ulteriore rialzo dell’attività nei prossimi mesi.
ASIA: la PBoC taglia nuovamente il tasso di riferimento sui prestiti ad un anno
In Giappone, l’indice CPI è aumentato dello 0,5% a/a in agosto (consenso 0.5%, valore precedente 0.6%), segnando il ritmo più debole da luglio 2017. L’inflazione sottostante è rimasta stabile allo 0,6%, leggermente al di sopra del consenso (0,5%). Il contributo della componente energetica è diminuito leggermente, trainato dai servizi di pubblica utilità, mentre il calo della benzina ha registrato un’accelerazione. Sempre in agosto le esportazioni giapponesi sono diminuite dell’8,2% a/a (consenso -10,9% a/a, valore precedente -1.6%). I principali fattori trainanti sono state le esportazioni di automobili (verso gli Stati Uniti), i componenti e le attrezzature per la produzione di semiconduttori. Le importazioni sono, invece, risultate in calo del 12,0% (consenso -11,2%, valore precedente -12%). Per regione, le esportazioni verso gli Stati Uniti sono diminuite per la prima volta dal settembre dello scorso anno, mentre l’UE è diminuita per il quarto mese negli ultimi cinque, mentre l’Asia è diminuita ogni mese da novembre (con la Cina come principale contribuente). La debolezza delle importazioni è stata determinata da Stati Uniti e Cina. In Cina la produzione industriale cinese ha inaspettatamente perso ulteriore slancio in agosto, aumentando del 4,4% a/a (consenso 5,2%, valore del mese precedente dopo il 4,8%), registrando la lettura più debole da febbraio 2002. Il calo della produzione di auto è stato moderato, mentre il calo della produzione di smartphone è stato a doppia cifra. La crescita degli investimenti in attività fisse (YTD) è rallentata al 5,5% (consenso 5.6%, valore precedente dal 5,7%). La crescita degli investimenti immobiliari è diminuita parallelamente alla continua decelerazione dei finanziamenti. Le vendite al dettaglio sono aumentate del 7,5% rispetto al 7,9% e al 7,6% di luglio.
La PBoC ha tagliato nuovamente il tasso di riferimento sui prestiti a un anno per il secondo mese di fila. Il Loan Prime Rate (LPR) è stato fissato al 4,20%, in calo rispetto al precedente 4,25%. La mossa era ampiamente prevista, anche se alcuni speravano in un taglio più aggressivo. All’inizio di questa settimana ha seguito qualche delusione per il fatto che il PBOC ha lasciato invariato il tasso MLF a un anno.
LE PROSSIME DUE SETTIMANE: quali dati?
- Europa: in settimana saranno pubblicati gli indici relativi alla fiducia delle imprese, comprendenti sia l’IFO sia le stime preliminari degli indici PMI di settembre.
- Stati Uniti: attesi i numeri degli indici PMI preliminari di settembre e diverse indicazioni sulla fiducia, insieme alla stima finale del PIL di T2.
- Asia: Settimana povera di dati macro dall’economia cinese. Per il Giappone, si attende l’inflazione di settembre dell’area di Tokyo e gli ordini di macchine utensili.
A cura della Funzione Asset Allocation
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