17 Novembre 2020

Senza quorum Rsu illegittima

di Luca Vannoni

La Corte di Cassazione, con la recente sentenza 4 marzo 2020, n. 6101, ha affrontato la corretta applicazione delle regole per la nomina, e il riconoscimento delle prerogative di rappresentanza sindacale, delle Rsu.

La Flai-Cgil di Torino ricorreva in cassazione avverso la sentenza n. 898/2014 della Corte d’Appello di Torino, dove era stata esclusa la valenza antisindacale alla comunicazione effettuata a tale organizzazione da un datore di lavoro che aveva considerato invalida la procedura di proclamazione degli eletti in qualità di Rsu per mancato raggiungimento del quorum, nei termini previsti dall’articolo 2, accordo interconfederale 20 dicembre 1993 (“più della metà dei lavoratori aventi diritto al voto“).

Le ragioni del ricorso dell’organizzazione sindacale si poggiano su 2 motivazioni.

La prima, procedurale, riterrebbe che il risultato degli scrutini per l’elezione delle Rsu possa essere contestato solo sulla base di quanto previsto dagli articoli 19 e 20, accordo interconfederale 20 dicembre 1993; eventuali ricorsi esterni ad essi determinerebbero il consolidamento definitivo della proclamazione dei risultati.

Anche da un’analisi superficiale emerge la pretestuosità di tale argomento, correttamente non accolto dalla Suprema Corte, in quanto il datore di lavoro è escluso dalla titolarità di azione di impugnazione ai sensi delle 2 disposizioni sopra richiamate e, quindi, dovrebbe comunque riconoscere la titolarità delle prerogative previste per le Rsu anche nel caso in cui non venga evidentemente rispettato l’accordo interconfederale.

Entrando nel merito delle argomentazioni della Suprema Corte, è necessario ricordare come l’articolo 19 dell’accordo interconfederale sopra richiamato preveda strumenti di impugnazione utilizzabili in caso di contestazione dei “risultati” dello scrutinio elettorale solamente per i soggetti coinvolti in tale iter, ai quali il datore di lavoro è totalmente estraneo.

L’effettiva natura di rappresentanza sindacale non può che partire dall’assenza di ingerenze del datore di lavoro nella sua costituzione, in ogni passo dell’iter elettivo, dalla presentazione dei candidati, alla formazione delle liste elettorali, alla composizione della commissione elettorale, alla designazione degli scrutatori e del seggio elettorale, alle modalità di affissione delle liste e della preparazione delle schede elettorali, alle modalità di tempo e di luogo della votazione e dello scrutinio, sino al all’attribuzione dei seggi ossia della proclamazione dei risultati.

Cosa diversa è la verifica, da parte del datore di lavoro, del rispetto della procedura prevista dall’accordo interconfederale.

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha pertanto confermato il giudizio di appello, dove si era evidenziato che ”il datore di lavoro è mero spettatore onerato di comunicare l’elenco degli aventi diritto al voto, di luogo e calendario delle votazioni (artt. 12, 22) ed è ovviamente tenuto a riconoscere le prerogative sindacali, mentre gli è precluso ogni intervento nelle operazioni di voto essendo estraneo a tale consultazione e mero destinatario della proclamazione degli eletti, non potendo certamente sindacare le candidature, ingerirsi nella presentazione delle liste o sul merito delle decisioni della Commissione elettorale sui ricorsi presentati da altri soggetti“.

Anche con il secondo motivo di ricorso viene posta una questione di carattere procedurale, fondata sul fatto che la commissione elettorale, per poter derogare al mancato raggiungimento del 50% + 1 dei lavoratori aventi diritto al voto, non è obbligata a prevederlo espressamente, ma possa effettuarlo anche implicitamente con l’atto di validazione del risultato elettorale.

La Corte d’Appello di Torino ha, infatti, affermato che dal verbale redatto dalla commissione elettorale non emergeva alcun intento di esercitare la facoltà di deroga riconosciuta dall’articolo 2, comma 3, Parte seconda, accordo interconfederale, “quanto piuttosto considerazioni che presuppongono una disposizione contrattuale difforme rispetto a quella vigente“.

La Cassazione, anche in questo caso, ritiene il motivo è inammissibile, poiché non impugna la regola di ermeneutica contrattuale violata dal giudice del merito e, conseguentemente, non indica le ragioni per le quali da detta regola quest’ultimo si sarebbe discostato.

Pertanto, la Corte di Cassazione conferma il giudizio di merito, convalidando quindi la regolarità del comportamento del datore di lavoro che ha escluso la qualificazione come Rsu della rappresentanza illegittimamente nominata.

 

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