Sembrava cambio appalto, ma si trattava di trasferimento d’azienda
di Riccardo Girotto Scarica in PDFLa norma cardine a presidio della responsabilità solidale nel contratto d’appalto, che coinvolge i rapporti tra committente e appaltatore al fine di garantire i diritti del lavoratore, è sicuramente l’articolo 29, D.Lgs. 276/2003.
La norma cardine a presidio della continuità del rapporto di lavoro, nel caso di trasferimento d’azienda, è l’articolo 2112, cod. civ..
La prima è una norma che tutela i lavoratori dell’appaltatore, i quali, proprio perché scollegati giuridicamente dal committente che di fatto comanda la filiera dell’attività, potrebbero subire gli effetti indiretti di una gestione datoriale condizionata da terzi. L’assunzione della responsabilità da parte del committente offre ai lavoratori dell’appaltatore una sorta di secondo strato impermeabile alle fluttuazioni di liquidità che accompagnano l’effettivo datore di lavoro.
La seconda norma non necessita di particolare ragionamento sotteso, in quanto mira, in via principale, a precisare che il cambio di proprietà non incide sul rapporto di lavoro, mantenendo intatto il vincolo senza soluzione di continuità.
Nel primo caso la responsabilità solidale copre tutto il periodo di concomitante presenza nella filiera tra committente e appaltatore, mentre nel secondo la responsabilità solidale segna la tutela tra il prima e il dopo.
Nel primo caso è chiaro che le aziende coinvolte sono 2, 2 diversi datori di lavoro che rimangono tali anche dopo il contatto rappresentato dall’appalto. Nel secondo caso l’azienda è unica, la norma tende proprio a precisare che ciò che viene trasferito è l’intera azienda o parte di questa.
La prima tutela non chiarisce il campo di applicazione o, meglio, lo chiarirebbe anche, solo che le interpretazioni di prassi, nonché di una giurisprudenza particolarmente ispirata sul punto, non hanno lesinato ad assimilare le più disparate tipologie negoziali all’appalto.
La seconda tutela chiarisce senza dubbio alcuno il campo di applicazione e lo fa con una norma assolutamente assorbente, che non agevola certo l’individuazione di casi di esclusione: “Ai fini e per gli effetti di cui al presente articolo si intende per trasferimento d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda” (articolo 2112, comma 5, cod. civ.)..
A questo punto, combinando i 2 campi di applicazione, l’uno incerto, l’altro totalizzante, va compreso se, in caso di appalto, possa palesarsi un’ipotesi di trasferimento d’azienda. Trattandosi di sovrapposizione temporale tra committente e appaltatore, il rischio trasferimento deve scongiurarsi, ma il momento che potrebbe stimolare il rischio di identificazione delle fattispecie si realizza quando il committente cambia appaltatore, spostando, quindi, l’attenzione dal rapporto committente-appaltatore, a quello tra appaltatore uscente e appaltatore entrante.
L’articolo 29, D.Lgs. 276/2003, nella sua versione vigente fino al 2016, al comma 3 smarcava chiaramente il rischio: “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di un nuovo appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di clausola del contratto d’appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.
L’articolo 30, L. 122/2016, però, ha ben pensato di travalicare questa certezza, proponendo un nuovo testo del comma 3 caratterizzato dal sospetto: “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”.
Non è più indiscutibile, quindi, l’esclusione dalla disciplina del trasferimento d’azienda, ma necessariamente le parti coinvolte, per evitare la continuità di tutti i rapporti, dovranno (molto) preventivamente avviare un’indagine circa le strutture organizzative e gli elementi di discontinuità che caratterizzano i 2 diversi appaltatori, pena conseguenze non proprio piacevoli[1].
Come se non bastasse, a complicare l’identificazione delle fattispecie tutelate dall’articolo 2112, cod. civ., recentemente è intervenuta anche l’Agenzia delle entrate. La prassi dell’INL ci aveva abituato a richiami sulle questioni dell’appalto e della responsabilità solidale, un po’ meno preparati ci troviamo, però, a far fronte anche alla posizione delle Entrate.
La risposta a interpello n. 207/E/2024 copre il tema Iva e imposte indirette, ma offre l’occasione per comprendere il pensiero dell’Agenzia sui requisiti che identificano il trasferimento d’azienda in luogo di un mero cambio di gestione nell’appalto di servizi.
Quali elementi di identificazione del complesso aziendale, vengono identificati:
- la prosecuzione dell’attività d’impresa da parte del cessionario tramite un complesso di beni;
- il mantenimento da parte del soggetto subentrante del medesimo complesso di beni.
A suffragare tale aspetto vengono citati precedenti risposte del medesimo ente, n. 546/E/2020 e n. 455/E/2023, che aggiunge, stavolta, come la forma sia di fatto sostanza, citando il contenuto del verbale di consegna nel caso oggetto dell’interpello[2]: “prosecuzione dell’attività d’impresa da parte del cessionario con un complesso di beni materiali e immateriali che permetta di svolgere un’attività economica autonoma e attuale”. Posto che tale dizione contenuta del verbale si sarebbe dovuta evitare, se lo scopo era quello di avanzare una richiesta di qualificazione all’Agenzia delle entrate, rileva come l’utilizzo di una frase di un verbale di riconsegna (nemmeno, quindi, di un contratto vero e proprio d’appalto) come elemento costitutivo della fattispecie, pare un esercizio assai acrobatico.
L’indizio che innesca, poi, il rischio di identificazione giuslavoristica arriva nell’ulteriore richiamo al verbale, posto in chiusura dell’interpello: “Le disposizioni del verbale di consegna sopra riportate, inducono a ritenere che non vi sia nel caso di specie quella netta discontinuità tra la posizione del gestore entrante e quella del gestore uscente”, esattamente i requisiti di cui all’attuale versione del dell’articolo 29, comma 3, D.Lgs. 276/2003.
Il verbale tra le parti diventa, quindi, un dogma, nessuna indagine di sostanza, nessun approfondimento sull’esecuzione vera e propria, la sola forma come fattore determinante.
Forse questo in ambito fiscale può ritenersi sufficiente, ma il trascinamento lavoristico di un pensiero così leggero, a mio avviso, rappresenta un vero ostacolo, ulteriore, alla gestione di un problema sempre più delicato: il cambio d’appalto appunto, o forse ciò che sembrava un cambio d’appalto, ma che a questo punto non lo sarà mai più.
[1] Si pensi anche solo all’omissione delle consultazioni preventive ex articolo 47, comma 1, L. 428/1990.
[2] È bene ricordare che, pur indice del pensiero dell’Amministrazione finanziaria, lo strumento dell’interpello risulta vincolante solo per l’istante.