19 Giugno 2019

Sul “secondo licenziamento” intimato in via subordinata rispetto all’illegittimità del “primo licenziamento”

di Giuseppina Mortillaro

Nella casistica giurisprudenziale si è posto spesso il problema dell’ammissibilità di un secondo licenziamento, subordinato all’illegittimità di un primo licenziamento, precedentemente intimato dal datore di lavoro. In linea generale, la giurisprudenza ha ammesso la possibilità per il datore di lavoro di adottare un “secondo licenziamento”, purché in presenza di talune condizioni, che saranno esaminate nello scritto che segue.

 

Il doppio licenziamento

Può accadere, nella concreta gestione del rapporto, che il datore di lavoro, dopo avere licenziato il dipendente per un determinato motivo, abbia interesse a intimare a quello stesso dipendente già licenziato un secondo licenziamento, subordinato all’invalidità del primo (il tema non va confuso però con quello, diverso, della rinnovazione dello “stesso” licenziamento).

Si è posto così il problema dell’ammissibilità del doppio licenziamento, problema che riveste delicate implicazioni per diversi ordini di ragioni, che attengono, rispettivamente, ai motivi del secondo licenziamento rispetto al primo e all’ambito di intervento del secondo licenziamento in relazione all’impugnativa del primo, questione, quest’ultima, che abbraccia anche quella della rilevanza (sotto il profilo temporale) dei comportamenti del lavoratore successivi al primo licenziamento, ma antecedenti alla sentenza, che, accogliendo l’impugnativa, dispone la reintegrazione del lavoratore.

Una volta inquadrato il tema d’indagine nella sua complessità, si cercheranno di mettere a fuoco, pur senza pretesa di esaustività (non essendo consentito dalla sedes materiae), le implicazioni cui si è fatto cenno, con un richiamo di volta in volta alla giurisprudenza intervenuta sull’argomento.

 

La necessaria diversità dei motivi posti a fondamento del secondo licenziamento rispetto a quelli posti a fondamento del primo

La giurisprudenza ammette la possibilità del doppio licenziamento, a condizione che il secondo licenziamento sia fondato su motivi diversi da quelli assunti alla base del primo licenziamento, dovendo rimanere l’uno del tutto indipendente e autonomo rispetto all’altro.

Si afferma infatti che “il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente” (Cassazione n. 1244/2011).

La necessaria diversità dei motivi attiene non al titolo astratto del licenziamento (giusta causa ai sensi dell’articolo 2119 cod. civ. o giustificato motivo oggettivo e soggettivo ai sensi dell’articolo 3, L. 604/1966), ma alle ragioni fattuali concrete addotte a sostegno dei 2 licenziamenti intimati per un dato titolo. Di talché, possono essere ammissibili non soltanto 2 licenziamenti intimati uno per inadempimento e l’altro per motivi economici, ma anche 2 licenziamenti intimati per la medesima causale, purché fondati su fatti differenti. Ciò significa, in termini pratici, che si potranno verificare i seguenti casi:

a) primo e secondo licenziamento intimati uno per giustificato motivo oggettivo (anche nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, per quanto sul punto la giurisprudenza non sia univoca: nel senso dell’incompatibilità del secondo licenziamento con la procedura di licenziamento collettivo a causa della necessità di comparare le posizioni dei dipendenti ai sensi dell’articolo 5, L. 223/1991, si veda Cassazione 106/2013) e l’altro per ragioni disciplinari, e viceversa;

b) primo e secondo licenziamento intimati entrambi per motivi oggettivi;

c) primo e secondo licenziamento intimati entrambi per ragioni disciplinari.

Va da sé che, mentre nell’ipotesi sub a) si è in presenza proprio di causali diverse e, dunque, di licenziamenti adottati per motivi ontologicamente differenti, non è così nelle altre 2 ipotesi, quella sub b) e quella sub c). E, infatti, trattandosi di licenziamenti intimati per il medesimo titolo, per scongiurare il rischio che si tratti dello stesso licenziamento reiterato sarà necessario, da parte del giudice, un accertamento scrupoloso circa la diversità delle ragioni fattuali poste alla base dei 2 licenziamenti. Ciò vale tanto ove siano dedotti 2 distinti motivi oggettivi, quanto (e soprattutto) allorché vengano in rilievo 2 licenziamenti disciplinari, pena la violazione del principio del ne bis in idem, che trova applicazione nella materia delle sanzioni disciplinari e più in generale, dopo la sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 4 marzo 2014 (Grande Stevens e altri contro Italia), in tutti i rami del diritto.

Investito dell’accertamento avente a oggetto la violazione del ne bis in idem, il giudice dovrà verificare che i fatti addotti a sostegno del primo licenziamento disciplinare siano differenti rispetto ai fatti sulla cui base è stato irrogato il secondo licenziamento, anche se, successivamente al primo licenziamento, siano emersi fatti che consentano di meglio circostanziare il precedente illecito, che rendano tale illecito più grave o che permettano di assegnare a esso una nuova qualificazione giuridica (tra le tante, in giurisprudenza, si veda Cassazione n. 8293/2012; Cassazione n. 17912/2016).

L’indagine del giudice dovrà avere ad oggetto l’esame delle particolari circostanze di tempo e di luogo che contraddistinguono gli addebiti da cui sono scaturiti i 2 licenziamenti, per accertare se i fatti, come contestati nella loro specifica individualità e come espressamente indicati nelle lettere di contestazione, siano o meno i medesimi e se abbiano o meno un’autonoma individualità.

Quando vengono in rilievo 2 distinti licenziamenti, si afferma ancora che i motivi del secondo licenziamento debbano essere anche “sopravvenuti”, nel senso di non noti al datore di lavoro nel momento in cui è stato intimato il primo licenziamento (Cassazione n. 106/2013), col consequenziale corollario che il datore di lavoro non potrà intimare un secondo licenziamento per fatti che conosceva già al momento del primo.

 

L’ambito di intervento del secondo licenziamento

La necessaria diversità dei fatti addotti a sostegno del secondo licenziamento rispetto a quelli posti a fondamento del primo non è condizione sufficiente perché il secondo licenziamento sia ammissibile, dovendosi tenere conto del fatto che il primo licenziamento ha prodotto l’effetto estintivo del rapporto, anche qualora il datore di lavoro abbia esonerato il dipendente dal prestare il preavviso, pagando la corrispondente indennità[1].

Pertanto, è necessario comprendere quando un atto (il secondo licenziamento) può essere idoneo ad estinguere un rapporto che, sulla base del primo licenziamento, dovrebbe essere già estinto.

Al riguardo si afferma che, essendo entrambi gli atti di recesso in astratto idonei ad estinguere il rapporto, il secondo licenziamento in tanto può produrre effetti in quanto il primo licenziamento sia riconosciuto invalido o inefficace, posto che, ove il primo licenziamento sia invece ritenuto valido ed efficace, il secondo licenziamento sarebbe tamquam non esset[2], con la conseguenza della sopravvenuta carenza di interesse ad impugnarlo. In tal senso, si veda la recentissima Cassazione n. 79/2019, secondo cui “Il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne consegue che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente. Ne deriva che il presente ricorso risulta non più assistito da interesse ad impugnare e va, pertanto, dichiarato inammissibile”.

Il che postula, quanto meno, che il primo licenziamento sia stato impugnato a norma dell’articolo 6, L. 604/1966, non potendo farsi questione di ammissibilità del secondo licenziamento laddove il primo licenziamento non sia stato tempestivamente impugnato dal lavoratore. Se, poi, il primo licenziamento supera il vaglio giudiziale e risulta legittimo, la questione del secondo licenziamento, come detto, non ha ragione di porsi. Se, invece, il primo licenziamento non supera il vaglio giudiziale, in quanto invalido o inefficace, si pone il problema della “tenuta” del secondo licenziamento, in relazione alla vicenda dell’impugnativa del primo atto di recesso.

Secondo un orientamento giurisprudenziale espresso, tra le altre, in Cassazione n. 10394/2005, n. 5125/2006 e n. 5092/2001, il primo licenziamento è valido ed efficace finché non intervenga una sentenza di annullamento dello stesso, dovendosi perciò affermare che un secondo licenziamento, intimato prima della sentenza di annullamento, risulterebbe privo di oggetto, difettando a monte il rapporto contrattuale da estinguere attraverso l’atto di recesso, e non operando la retroattività dell’azione di annullamento rispetto alle manifestazioni di volontà datoriale intervenute medio tempore: “Il licenziamento intimato, in area di tutela reale, per giusta causa o giustificato motivo, è inefficace fino a quando non intervenga sentenza di annullamento ex articolo 18, l. n. 300 del 1970; ne consegue che un secondo licenziamento, intimato prima dell’annullamento, è privo di oggetto, attesa l’insussistenza di un rapporto di lavoro (…). L’azione diretta a invalidare il licenziamento perché privo di giusta causa o giustificato motivo è un’azione di annullamento, ha natura costitutiva e pertanto, fino all’eventuale sentenza dì accoglimento, il negozio produce i propri effetti; ne consegue che un ulteriore licenziamento, intimato in corso di causa e prima della sentenza di accoglimento dell’impugnazione del primo, deve considerarsi privo di ogni effetto per l’impossibilità di adempiere la propria funzione; né la sentenza di annullamento fa acquisire allo stesso efficacia, operando la retroattività solo in relazione alla ricostituzione del rapporto e non anche alle manifestazioni di volontà datoriali poste in essere quando il rapporto era ormai estinto”.

Di diverso avviso è altra giurisprudenza (maggioritaria), secondo cui il datore di lavoro, soggetto alla disciplina della tutela reale, può intimare un secondo licenziamento anche prima della sentenza che, accogliendo l’impugnativa del primo licenziamento proposta dal lavoratore, disponga il ripristino del rapporto: “il licenziamento illegittimo intimato ai lavoratori ai quali sia applicabile la tutela reale non è idoneo a estinguere il rapporto al momento in cui è stato intimato, determinando solamente una interruzione di fatto del rapporto di lavoro senza incidere sulla sua continuità e permanenza” (Cassazione n. 17247/2016; dello stesso tenore anche Cassazione n. 19770/2014).

Ciò in quanto “nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, ove il datore di lavoro abbia già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un secondo licenziamento fondato su un motivo diverso, restando quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo. Ne discende che entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il licenziamento precedente” (Cassazione n. 11910/2015).

Analogamente, la giurisprudenza di merito ha sostenuto che non occorre che il datore di lavoro attenda l’esito del giudizio sul primo licenziamento, ben potendo, nelle more dell’accertamento giudiziale promosso previa impugnazione di un primo licenziamento, intimare un secondo licenziamento, consolidando tale risultato in concreto allorché il primo licenziamento venga dichiarato invalido o inefficace[3]. L’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato si concilia con quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 7/1986, circa l’inidoneità del licenziamento illegittimo a determinare la cessazione del rapporto di lavoro.

Un ulteriore filone giurisprudenziale ha sostenuto che il primo licenziamento, poi dichiarato illegittimo, non sarebbe idoneo a estinguere il rapporto, neppure in via di mero fatto, al momento in cui è stato intimato, determinando unicamente una sospensione della prestazione sinallagmatica, a causa del rifiuto datoriale di riceverla; da qui l’ammissibilità del secondo licenziamento intimato prima della sentenza di annullamento del primo. Tuttavia, “nel caso in cui, dopo un primo licenziamento, ne sia intervenuto un altro non tempestivamente impugnato, il giudice, chiamato a pronunciarsi sulle conseguenze del primo licenziamento dichiarato illegittimo, deve limitarsi alla condanna al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore nel periodo corrente tra il primo ed il secondo licenziamento e non può, invece, ordinare la reintegra nel posto di lavoro, essendosi il rapporto lavorativo ormai definitivamente estinto, per effetto della mancata impugnativa del secondo provvedimento di recesso” (Cassazione n. 6055/2008).

Dal punto di vista processuale, è stato evidenziato come l’eccezione di giudicato esterno rispetto al primo licenziamento sia rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo nel giudizio di impugnativa del secondo licenziamento, mirando tale eccezione a evitare la formazione di giudicati contrastanti. Con ordinanza n. 16847/2018, la Corte di Cassazione ha infatti affermato: “l’esistenza del giudicato esterno è, a prescindere dalla posizione assunta in giudizio dalle parti, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, trattandosi di un elemento che può essere assimilato agli elementi normativi astratti, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto; sicché, il suo accertamento non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del “ne bis in idem”, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione. (Nella specie, la S.C., in virtù di sentenze “inter partes” acquisite in sede di memoria ex articolo 380 bis1 c.p.c., ha rigettato l’impugnazione del secondo licenziamento, intimato a seguito di ripristino giudiziale del rapporto lavorativo, per effetto del giudicato sopravvenuto sulla legittimità del primo licenziamento disciplinare)”.

 

La rilevanza dei comportamenti del lavoratore dopo il primo licenziamento

Accedendo alla tesi dell’inammissibilità del secondo licenziamento prima della pronuncia di annullamento del primo licenziamento, in quanto la sentenza di annullamento di quest’ultimo non farebbe acquisire al primo efficacia, dovrebbe concludersi nel senso della totale irrilevanza delle condotte del lavoratore poste in essere tra il primo licenziamento e la sentenza che lo annulla. Secondo l’orientamento giurisprudenziale in parola, la retroattività opererebbe, infatti, solo in relazione alla ricostituzione del rapporto e non anche alle manifestazioni di volontà datoriali, poste in essere quando il rapporto era ormai estinto. Il che vuol dire, specularmente, che la retroattività non dovrebbe operare neppure rispetto a condotte realizzate dal lavoratore dopo il primo licenziamento, ma prima della sentenza che lo annulla (a meno che tali condotte non integrino i fatti estranei all’attività lavorativa nei casi in cui la giurisprudenza li ritiene rilevanti).

Viceversa, accedendo alla tesi dell’interruzione del rapporto in via di mero fatto a seguito del primo licenziamento o, a maggior ragione, a quella della sospensione del rapporto, le condotte poste in essere dal lavoratore medio tempore dovrebbero venire in rilievo, potendo le stesse fondare un secondo licenziamento o un diverso provvedimento disciplinare, ove il rapporto sia ripristinato a seguito della pronuncia giudiziale. In tal senso si segnala Cassazione n. 2949/1997, secondo cui: “i comportamenti posti in essere dal lavoratore licenziato (il quale richiede la reintegrazione nel posto di lavoro) nel periodo intermedio tra il licenziamento e l’ordine di reintegrazione possono avere rilievo sotto il profilo dell’eventuale violazione dell’obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.), che permane anche nel periodo suddetto, e possono anche giustificare un nuovo licenziamento, tenendo conto però che dalla violazione di tale obbligo (violazione nella specie consistente nello svolgimento di attività lavorativa alle dipendenze di altro datore di lavoro, operante in concorrenza con il datore di lavoro originario) non consegue automaticamente una facoltà per quest’ultimo di procedere ad un nuovo licenziamento, dovendo in ogni caso valutarsi la gravità in concreto della condotta inadempiente del lavoratore e la sussistenza della proporzionalità tra la condotta e l’estremo rimedio costituito dalla risoluzione del rapporto”.

 

Il mutato quadro normativo in materia di licenziamenti

Sul panorama sopra descritto, già complesso, occorre innestare ulteriori elementi di complessità che riguardano la nuova disciplina in materia di licenziamenti, introdotta dapprima con la L. 92/2012, che ha riscritto l’articolo 18, St. Lav., e successivamente, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, con il D.Lgs. 23/2015, recante norme sul contratto a tutele crescenti.

Se, infatti, in precedenza l’articolo 18, St. Lav., “unifica(va) gli effetti I delle tre specie di licenziamento già prefigurate dalla l. n. 604 del 1966, stabilendo che il Giudice, quando dichiara inefficace il licenziamento, ai sensi dell’articolo 2 della l. 604, o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità, dispone(ndo) un doppio ordine di conseguenze giuridiche: a) per il futuro ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; b) per il periodo anteriore alla sentenza condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per effetto del licenziamento, commisurato nel minimo a cinque mensilità di retribuzione[4], il panorama normativo è sicuramente mutato.

E, infatti, a seguito dell’entrata in vigore delle richiamate normative, la reintegrazione del lavoratore è oggi limitata a un’area sempre più ristretta, anche qualora il licenziamento sia dichiarato illegittimo dal giudice, con la conseguenza che – per precisa previsione normativa – un licenziamento illegittimo, ancorché in area di applicabilità soggettiva dell’articolo 18, St. Lav., è idoneo ad estinguere il rapporto se il vizio che affligge detto licenziamento non rientri tra quelli che espressamente la legge annovera quali suscettibili di dar luogo a una pronuncia di reintegrazione.

Il problema del secondo licenziamento, di conseguenza, è confinato oggi a un’area più ristretta rispetto a quella in cui era inserito quando si è formata la maggior parte della giurisprudenza sopra richiamata, e cioè ai casi di:

  • nullità (indipendentemente dai requisiti dimensionali) del primo licenziamento ai sensi dell’articolo 18, comma 1, St. Lav., e dell’articolo 2, comma 1, D.Lgs. 23/2015;
  • annullabilità del primo licenziamento ai sensi dell’articolo 18, comma 4 e 7, St. Lav., e dell’articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015.

In tutte le altre ipotesi, invece, l’effetto estintivo del rapporto si produce pacificamente già col primo licenziamento, pur successivamente dichiarato illegittimo.

[1] Tesi della c.d. efficacia obbligatoria del preavviso, secondo cui il mancato godimento del preavviso non influenza l’efficacia estintiva del licenziamento, sicché, ove il datore di lavoro non conceda il preavviso, il licenziamento produrrà ugualmente i propri effetti estintivi, salvo l’obbligo del datore di lavoro di corrispondere l’indennità sostitutiva: Cassazione n. 20099/2011; Cassazione n. 36/2011; Cassazione n. 22443/2010. Oggi la tesi dell’efficacia meramente obbligatoria del preavviso risulta confermata dal dettato normativo dell’articolo 1, comma 41, L. 92/2012).
[2] Cass. n. 17247/2016; Cass. n. 11910/2015; Cass. n. 6485/2014; Cass. n. 1244/2011.
[3] Così App. Salerno, 12 novembre 2014.
[4] O. Mazzotta, La «parola» del legislatore e il sistema della legge: a proposito del potere del datore di rilicenziare un lavoratore già licenziato, in RIDL, n. 2/2009, pag. 313, nota a Cassazione n. 25573/2008.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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