Tra salario minimo legale e contrattazione collettiva
di Roberto LucariniAvrete senz’altro sentito il gran parlare che si fa, a livello politico-mediatico, del c.d. salario minimo legale. Di regola, preso costantemente da 1.000 impegni, me ne frego il giusto di tali discussioni, conscio che, non potendovi partecipare attivamente, ne dovrò in ogni caso subire le conseguenze. Queste note, quindi, non sono un’approfondita elucubrazione su quanto sopra, quanto piuttosto una riflessione en passant senza alcuna pretesa dottrinale.
Nel nostro ordinamento, che sul tema si muove nel solco del disposto ex articolo 36 della Carta Costituzionale (“Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), non è presente un’indicazione legale di salario minimo, al contrario che in altre nazioni. Vi sono, invece, una miriade di contratti collettivi nazionali, con integrazioni di secondo livello (territoriale o aziendale), a mezzo dei quali le c.d. parti sociali rilevano quello che viene da loro considerato il salario congruo per il lavoratore, a seconda di livello di inquadramento, anzianità, etc …. In fin dei conti la giurisprudenza ha finito per assegnare alle tabelle contrattuali una sorta di lasciapassare sul tema della congruità dei salari al precetto costituzionale, con ciò tracciando quantomeno una strada cui potersi riferire nel mare magnum interpretativo dell’espressione “esistenza libera e dignitosa”.
Se, quindi, abbiamo un punto di riferimento, di tipo negoziale, per quale motivo si cerca adesso di introdurre un parametro legale?
I dubbi sono tanti: dai contratti pirata, che spesso praticano una forma di elusione al ribasso dei salari, a forme, più o meno eleganti, di non applicazione dei minimi salariali.
Ma il salario minimo legale potrà essere la risposta? Personalmente ho qualche dubbio, anche se qualcosa dev’essere senz’altro fatto per garantire a tutti i lavoratori quei parametri minimi di congruità salariale.
Non sono, in linea generale, un fautore della regolamentazioni legali su ogni terreno, visto anche come si scrivono le leggi in questo benedetto Paese. A sensazione, infatti, preferisco che le parti si seggano attorno a un tavolo e trattino, tra gli altri, anche l’aspetto economico del rapporto. Per tale motivo, quindi, preferirei che le cose restassero, in linea di principio, come sono; tuttavia ….
È anche vero, però, che non si possono contare quasi 1.000 contratti collettivi nazionali, senza nel contempo riuscire a non perdere la bussola.
Perché, quindi, non accorpare tali accordi per settori di macro-aree? Perché non definire, con attenzione data la delicatezza del tema, la vera rappresentatività sindacale? Oppure, perché non indirizzare, in via definitiva, la contrattazione su base territoriale o aziendale?
Magari, risolvendo alcuni dei problemi appena elencati, potremmo risparmiarci un salario minimo legale
Segnaliamo ai lettori che è possibile inviare i propri commenti tramite il form sottostante.
Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:
22 Maggio 2019 a 10:35
Ritengo che, ancor prima di deliberare il c.d. salario minimo, che sembra essere già stato individuato in € 9.00/ora, si debba fare una cosciente ricognizione delle condizioni lavorative esistenti in Italia, sconosciute a buona parte dei nostri politici. Mi riferisco in particolare a tutte quelle attività svolte in regime di subfornitura (c.d. conto terzisti) che non riescono ad applicare alcuno dei contratti sottoscritti dalle OO.SS. sindacali ritenute comparativamente più rappresentative, per il solo fatto che i loro committenti impongono il prezzo della commessa, salvaguardando solo i loro interessi. Se dovesse “passare” tal provvedimento senza che venga fatta alcuna seria discussione al riguardo, nel solo settore dell’abbigliamento, ove impera il conto terzismo, saranno destinate a chiudere migliaia e migliaia di piccole aziende, letteralmente oggi “scannate” dai loro committenti (le c.d. grandi griffe vanto del made in Italy). Nel settore i committenti pagano il lavoro dei piccoli produttori italiani a livello dei salari erogati in Albania, Romania ed altri Paesi ove non esiste alcuna regola sociale ed alcun controllo delle Autorità. Quindi, ancor prima di riempirsi la bocca di provvedimenti che hanno solo il carattere della spettacolarità, bisogna avere il coraggio di incidere sulle componenti forti dell’economia italiana ed evitare che le stesse continuino ad arricchirsi a danno delle parti deboli, prive di potere contrattuale. Nel Parlamento italiano giacciono interpelli in tal senso, totalmente ignorati e mai discussi, perché non fa “moda”.