2 Aprile 2019

Il salario minimo comparativamente più rappresentativo

di Evangelista Basile

Era il 2014 e, con la famosa legge delega 183, la vecchia maggioranza parlamentare aveva approvato all’articolo 1, comma 7, la delega sull’“introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazione sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.

La delega, in verità, rimase poi lettera morta per la strenua opposizione proprio delle parti sociali. Gli ostacoli paventati dai sindacati, infatti, erano (e sono) sostanzialmente il possibile effetto di uscita delle imprese dalle associazioni sindacali in presenza di un compenso orario inferiore ai minimi tabellari, da una parte, e la solita velleità di attuazione dell’articolo 39, Costituzione, dall’altra, ritenendo necessario l’intervento legislativo non nello stabilire il compenso minimo, ma, semmai, nell’affermare l’efficacia erga omnes dei Ccnl.

Prima di andare oltre bisogna premettere che a sopperire al vuoto legislativo ci aveva già pensato la giurisprudenza, che, nel tempo, ha affermato, seppur con le più svariate oscillazioni, il diritto dei lavoratori a percepire i minimi salariali previsti dai contratti collettivi, attraverso il combinato disposto dell’articolo 36, Costituzione e dell’articolo 2099 cod. civ..

Anche il Legislatore, in virtù di questo orientamento, aveva già introdotto in settori specifici alcune norme sociali volte a evitare il c.d. dumping salariale, riconoscendo ai trattamenti economici previsti dalla contrattazione collettiva nazionale – comparativamente più rappresentativa – una certa indiretta valenza erga omnes: si pensi, a riguardo, al settore degli appalti pubblici, in cui è imposta agli appaltatori, quale condizione per l’ammissione alle gare, l’applicazione integrale dei trattamenti economici previsti dalla contrattazione collettiva o alla normativa sulle cooperative nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorativa, tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico comunque non inferiore ai minimi previsti dalla contrattazione nazionale di settore.

Il percorso del salario minimo, dopo l’impasse con le parti sociali di qualche anno fa, è di recente tornato all’ordine del giorno in Parlamento, prima con il DdL 310/2018, su proposta del Partito Democratico, e da ultimo con quello targato Movimento 5 Stelle, il 658/2018.

A differenza di quanto accaduto (o meglio, sarebbe dovuto accadere) con la legge delega, in entrambe le nuove proposte è scomparso l’esclusivo riferimento alle “aree non contrattualizzate”, il che avrebbe reso il compenso minimo un sostituto di quanto previsto nei contratti collettivi, spingendo – probabilmente – all’abbandono di tutti quei contratti collettivi più onerosi rispetto al minimo da garantire per legge.

I 2 DdL si differenziano, invece, in primo luogo, per il quantum del salario orario, 9 euro netti per il PD (da incrementarsi secondo gli indici Istat), 9 euro lordi per il M5S (da incrementarsi secondo l’indice Ipca). In realtà, in entrambi i casi, si tratta di un ammontare che si sostanzia in una percentuale del 75-80% del salario mediano del Paese, ben al di sopra di quanto previsto negli altri Paesi Ocse, in cui la percentuale oscilla fra il 40 e il 60%.

Ebbene, il rischio di un salario troppo alto è che possa sfavorire l’occupazione o riversarsi sui prezzi dei prodotti e, dunque, sul consumatore (che altro non è che un lavoratore), poiché sarebbe adeguato solo a realtà economiche forti, mentre diventerebbe mera forzatura nelle aree più deboli.

E, ancora, secondo il DdL 310/2018, a firma PD, l’attuazione del salario minimo avverrebbe per il tramite di un D.M., previo accordo con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, al fine di individuare – da una parte – i contratti a cui estendere la disciplina del salario minimo (ovvero i contratti i cui minimi sono inferiori a 9 euro) e, dall’altra, di stabilire i casi di esclusione dalla disciplina, oltre che le modalità di incremento proporzionale dei salari di importo superiore al salario minimo.

Secondo il più recente DdL 658/2018, invece, si considera “retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente” il trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal Ccnl “in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro”, stipulato “dalle associazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale ai sensi dell’art. 4 della legge 30 dicembre 1986, n. 936, il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, anche considerato nel suo complesso, all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”.

Fulcro, quindi, dell’attuazione rimane la “rappresentatività” delle associazioni sindacali, anche in presenza di una pluralità di contratti applicabili, poiché – secondo l’articolo 3, comma 2, DdL 658/2018 – “ai fini del computo comparativo di rappresentatività del contratto collettivo prevalente si applicano per le organizzazioni dei lavoratori i criteri associativo ed elettorale di cui al Testo Unico della Rappresentanza, recato dall’accordo del 10 gennaio 2014 tra Confindustria, CGIL, CISL e UIL, e per le organizzazioni dei datori di lavoro i criteri del numero di imprese associate in relazione al numero complessivo di imprese associate e del numero di dipendenti delle imprese medesime in relazione al numero complessivo di lavoratori impiegati nelle stesse”.

Il riferimento all’accordo interconfederale del 2014 è, però, elemento di valutazione della rappresentatività, oltre che di difficile interpretazione, anche rischioso, poiché privo di rilievo strettamente “normativo”.

Spariscono, infine, nel DdL 658/2018, le sanzioni in capo al datore di lavoro che violi il salario minimo, previste – invece – dal primo DdL.

In conclusione, ancora una volta, dunque, l’anello mancante è la certezza nella definizione della rappresentatività, che difficilmente potrà essere risolta con la mera autoregolamentazione di cui si sono dotate la Triplice e Confindustria e che – beffa del destino – potrebbe porre qualche dubbio di costituzionalità della proposta proprio per quell’articolo 39, Costituzione, rimasto più o meno consapevolmente ancora inattuato.

 

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