Ruolo della contrattazione nella valutazione della motivazione del licenziamento
di Luca VannoniLa contrattazione collettiva fornisce una tipizzazione delle ipotesi di giusta causa (e giustificato motivo soggettivo) di licenziamento, che, al contrario delle sanzioni disciplinari conservative, ha valore esclusivamente esemplificativo e non tassativo: in assenza di deleghe espresse alla contrattazione collettiva, la valutazione giudiziale del concetto di giusta causa preserva quello spazio di autonomia per verificare, a prescindere dalla contrattazione collettiva (e dall’esplicita previsione nel codice disciplinare), la corrispondenza tra la motivazione addotta e la fattispecie normativa.
Introduzione: le norme di riferimento
Per ulteriormente puntellare il principio costituzionale della libertà imprenditoriale, per quanto riguarda le delicate aree di contatto con i rapporti di lavoro, il Legislatore ha introdotto, mediante l’articolo 30, comma 1, L. 183/2010, il principio per cui in tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nella materie del lavoro privato e pubblico “contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di …. recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”.
Con l’articolo 1, comma 43, L. 92/2012, si è aggiunto all’articolo 30 citato che: “l’inosservanza delle disposizioni di cui al precedente periodo, in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto“.
L’articolo 30, comma 3, prevede poi che: “Nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni. Nel definire le conseguenze da riconnettere al licenziamento ai sensi dell’articolo 8, L. 604/1966, e successive modificazioni, il giudice tiene egualmente conto di elementi e di parametri fissati dai predetti contratti e comunque considera le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore, nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento“.
In dottrina tali disposizioni legislative hanno avuto un riscontro assai tiepido, se non di aperta critica. Da una parte si ritiene che sia stata recepita in norma un’opinione diffusa e applicata in giurisprudenza circa il limite al sindacato giudiziale sulle scelte dell’impresa.
Dall’altra si evidenzia l’errore tecnico di aver utilizzato il termine “clausole generali”, categoria giuridica che si riferisce a norme, dal contenuto precettivo imperfetto, che richiedono l’integrazione necessaria mediante standard sociali (ad esempio la buona fede), mentre il gmo è considerato una norma dal carattere generale e aperto, sicuramente vivente, ma che trova al suo interno i propri capisaldi.
Le interpretazioni giurisprudenziali: il sindacato sulle valutazioni tecniche
In giurisprudenza, ultimamente, si registra un positivo richiamo all’articolo 30, comma 1, L. 183/2010, soprattutto a supporto di interpretazioni di legittimità volte a contrastare valutazioni troppo penetranti nelle ricostruzioni giudiziali di logiche esclusivamente imprenditoriali.
Nella Cassazione civile n. 25201/2016 si è infatti precisato, disattendendo i precedenti giudizi di merito che avevano ritenuto ingiustificato un licenziamento in quanto la scelta aziendale era legata a una riduzione dei costi, e quindi all’incremento del profitto, che: “considerato che la situazione sfavorevole di mercato non risulta iscritta nell’articolo 3, L. 604/1966, quale presupposto di legittimità del licenziamento, ogni valutazione del giudice che ad essa attribuisca rilievo, implicando, per le ragioni esposte, una estensione “al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”, è preclusa dall’articolo 30 citato e si traduce in una errata ricognizione del contenuto precettivo della fattispecie astratta mediante l’inserimento di un elemento non previsto, con conseguente censurabilità per violazione di norme di diritto a mente dell’articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c.“.
In riferimento all’articolo 30, comma 3, L. 183/2010, relativo alle tipizzazioni contrattuali, in giurisprudenza non si riscontra alcuna pronuncia in cui il giudice, facendo leva su tale disposizione, abbia ridotto al silenzio le proprie valutazioni sulla sussistenza della giusta causa, dando esclusivo valore alle disposizioni della contrattazione collettiva.
Il ruolo della contrattazione collettiva nella motivazione del licenziamento disciplinare
La contrattazione collettiva, in special modo di livello nazionale, gioca un ruolo fondamentale nella definizione delle motivazioni del licenziamento, in particolare per ragioni disciplinari.
Il codice disciplinare vigente nelle aziende, nella quasi totalità dei casi, non è null’altro che la trasposizione delle sanzioni, e dei relativi criteri di proporzionalità, applicabili sulla base degli inadempimenti contrattuali e dei fatti commessi dal lavoratore, con i necessari adeguamenti legati al contesto produttivo e aziendale.
I concetti di giusta causa e giustificato motivo, rappresentati dalle norme di riferimento in termini astratti, costituiscono “fattispecie aperte”, la cui effettiva precettività si determina dalla riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta delineata dalla norma.
Per giusta causa, l’articolo 2119 cod. civ. si riferisce a comportamenti o inadempimenti del lavoratore di tale gravità da far venir meno la fiducia posta alla base del rapporto, non consentendo la prosecuzione, neppure in via provvisoria, dello stesso, senza il rispetto del preavviso contrattualmente dovuto.
Nel delineare il potere disciplinare del datore di lavoro, oltre alle norme procedurali contenute nell’articolo 7 St. Lav., gli articoli 2104 e 2105 obbligano il lavoratore all’adempimento della prestazione richiesta secondo correttezza e buona fede e all’osservanza delle disposizioni di volta in volta impartite dal datore per l’esecuzione e la disciplina del lavoro, nonché l’obbligo di fedeltà.
La contrattazione collettiva, come anticipato, fornisce una tipizzazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento che, al contrario delle sanzioni disciplinari conservative, ha valore esclusivamente esemplificativo e non tassativo: in assenza di deleghe espresse alla contrattazione collettiva, la valutazione giudiziale del concetto di giusta causa preserva quello spazio di autonomia per verificare, a prescindere dalla contrattazione collettiva (e dall’esplicita previsione nel codice disciplinare), la corrispondenza tra la motivazione addotta e la fattispecie normativa.
Recentemente la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14321/2017, richiamando propri precedenti (Cass. n. 2830/2016; Cass. n. 9223/2015) ha ribadito come l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha, al contrario delle sanzioni disciplinari con effetto conservativo, valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento o di un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.
Infatti, la nozione di giusta causa è di matrice legale e il giudice non è vincolato alle previsioni integranti giusta causa contenute nei contratti collettivi; tuttavia ciò non esclude che ben possa il giudice fare riferimento ai contratti collettivi e alle valutazioni che le parti sociali compiono in ordine alla valutazione della gravità di determinati comportamenti rispondenti, in linea di principio, a canoni di normalità.
Il relativo accertamento va operato caso per caso, valutando la gravità in considerazione delle circostanze di fatto e prescindendo dalla tipologia determinata dai contratti collettivi, e il giudice può escludere che il comportamento costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato come tale dai contratti collettivi, solo in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato.
L’unico limite è costituito dal fatto che il datore di lavoro non può irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione a una determinata infrazione.
In quest’ipotesi, nel caso sia applicabile l’articolo 18 St. Lav., tale ipotesi di illegittimità determina la reintegrazione del lavoratore (+ 12 mensilità di risarcimento); nelle tutele crescenti, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, è prevista soltanto una tutela risarcitoria.
Onnicomprensività del codice disciplinare
Gli stessi principi si riverberano sul contenuto dei codici disciplinari. Pur avendo un ruolo fondamentale nel graduare le sanzioni, con un’ampia tipizzazione degli illeciti e delle consequenziali ricadute ai danni del datore di lavoro, non possono però mai individuare in modo esaustivo tutte le molteplici e differenziate condotte riscontrabili nella realtà, sia con riferimento all’entità dell’elemento soggettivo degli illeciti contestati, sia per la pericolosità anche potenziale di detti illeciti.
I contratti collettivi nazionali o in quelli aziendali e di prossimità spesso prevedono clausole di chiusura volte a disciplinare le indefinibili condotte illecite che si sottraggono, per la loro peculiarità, a una preventiva catalogazione.
Da tali considerazioni discende il principio secondo cui: “in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non è necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta” (Cass. n. 6763/2016 e Cass. n. 1926/2011).
La necessità della previa conoscenza degli illeciti disciplinari, come tipizzati dalla contrattazione collettiva, trova la sua ratio nell’esigenza di impedire che il lavoratore possa essere perseguito in relazione a condotte dallo stesso ritenute lecite, esigenza che certo non ricorre qualora il fatto addebitato sia di rilievo penale o contrasti in modo evidente con i doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro e sia tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario (si veda Cass. n. 22626/2013).
Sempre in tema di affissione del codice disciplinare, si è recentemente espressa la Cassazione, con sentenza n. 23409/2017. Il caso riguardava una guardia giurata particolare, che, durante il proprio turno, abbandonava il posto di lavoro per 15 minuti circa per recarsi ad acquistare una rivista.
In relazione a un adempimento essenziale dello specifico rapporto di lavoro, quale quello di custodia e vigilanza, incombente su una guardia giurata, la garanzia di pubblicità del codice disciplinare mediante affissione in luogo accessibile a tutti non si applica laddove il licenziamento faccia riferimento a situazioni concretanti violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro: il principio di tassatività degli illeciti non può essere inteso nel senso rigoroso, dovendosi, come detto, distinguere tra gli illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all’organizzazione aziendale, per lo più ignote alla collettività e quindi conoscibili solo se espressamente previste e inserite, perciò, nel c.d. codice disciplinare, da affiggere ai sensi dell’articolo 7, L. 300/1970, e quelli costituiti da comportamenti manifestamente contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, per i quali non è necessaria la specifica inclusione nello stesso codice disciplinare, poiché, in questi ultimi casi, che possono legittimare il recesso del datore di lavoro per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il potere sanzionatorio deriva direttamente dalla legge.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Contratti collettivi e tabelle“.