15 Marzo 2018

I rischi delle riduzioni non formalizzate dell’orario di lavoro per i part-time

di Luca Vannoni

L’adeguamento dell’orario di lavoro in base alle necessità produttive può portare il datore di lavoro a ridurre temporaneamente le prestazioni di lavoro: l’assenza di forma scritta nei necessari accordi con il lavoratore per la trasformazione rischia di aprire il fronte a successive richieste retributive, in riferimento a prestazioni non effettuate, qualora il contratto di lavoro sia a tempo parziale. La recente sentenza della Corte di Cassazione, sez. lav., n. 1375 del 19 gennaio 2018 evidenzia tali rischi.

La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi a seguito di un’azione promossa da una lavoratrice, volta al riconoscimento di differenze retributive a seguito di riduzioni di orario, in caso di mancanza di lavoro, non formalizzate nell’arco di un rapporto contrattuale ultratrentennale (dal 4 aprile 1973 al 24 ottobre 2007).

Durante il periodo di vigenza del vincolo contrattuale, il rapporto si era configurato in 2 modalità:

  1. a tempo pieno (dal 4 aprile 1973 all’8 febbraio 1984 e da maggio 1989 al 14 novembre 1993);
  2. a tempo parziale (dal 9 febbraio 1984 a fine aprile 1989, dal 15 novembre 1993 al 24 ottobre 2007).

La Suprema Corte sviluppa la propria sentenza su 2 distinte direttrici, con ragionamenti distinti per il periodo a tempo parziale rispetto a quello a tempo pieno.

Partendo dal primo, e richiamando i propri precedenti segmentandoli sulla base della disciplina vigente, la Cassazione, partendo dal presupposto normativo in base al quale la trasformazione del rapporto a tempo pieno in uno a tempo parziale non può avvenire a seguito di determinazione unilaterale del datore di lavoro, necessitando invece del consenso scritto del lavoratore , evidenzia che l’orario di lavoro è elemento qualificante della prestazione e, quindi, ogni variazione  in aumento o in diminuzione del monte ore pattuito costituisce una novazione oggettiva dell’intesa negoziale, che richiede una rinnovata manifestazione di volontà non desumibile per fatti concludenti dal comportamento tenuto dalle parti.

La prospettiva muta radicalmente per il datore di lavoro per le riduzioni quando il rapporto era a tempo pieno: pur essendo principio fondante del nostro ordinamento giuslavoristico, l’impossibilità per il datore di lavoro di ridurre unilateralmente o sospendere l’attività lavorativa e specularmente rifiutare di corrispondere la retribuzione, in quanto la corrispettività delle obbligazioni ha come conseguenza che il mancato pagamento della retribuzione possa essere opposto dal datore di lavoro soltanto se il lavoratore ometta di effettuare la prestazione da lui dovuta, ma non quando questa sia impedita dalla volontà datoriale unilaterale, vi sono 2 ipotesi che legittimano il venir meno dell’obbligazione del datore di lavoro, con prova a carico del medesimo: l’impossibilità sopravvenuta per forza maggiore e, per quello che interessa la fattispecie affrontata, la crisi aziendale accompagnata da un accordo tra le parti.

Quest’ultima fattispecie, pur non essendo stata affrontata dalla Cassazione, in quanto di fatto assorbita a monte dalla mancanza della forma scritta, apre poi ulteriori profili interpretativi: scaricare interamente i rischi imprenditoriali sui lavoratori potrebbe mettere in dubbio la presenza della crisi stessa, se i costi di fatto di essa vengono integralmente travasati sui lavoratori in modo perfettamente elastico.

In conclusione, se tale fattispecie viene letta, quindi, come sospensione parziale e temporanea della prestazione, senza modificarne la natura a tempo pieno, “il differente regime formale del rapporto a tempo pieno rispetto a quello a tempo parziale comporta una diversa e coerente modulazione dell’onere della prova”.

 

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