I rischi connessi al licenziamento per gmo ai tempi del coronavirus
di Giuseppe PirinuCon la sentenza del Tribunale di Mantova n. 112/2020 – sia pur di primo grado – la giurisprudenza affronta fin da subito la problematica connessa alle conseguenze pregiudizievoli per il datore di lavoro incurante del divieto di licenziamento, che, fatte salve alcune eccezioni, come vedremo, è per sua natura “assoluto” ai tempi del coronavirus.
Il giudice di prime cure ha inteso, così, prendere posizione e ha chiarito, a scanso di equivoci, i rischi cui sono sottoposti gli “incuranti del blocco”, che, sprezzanti del pericolo, si sono imbarcati in una situazione, per usare un eufemismo, quanto meno “imbarazzante”. La sentenza riecheggia, in termini più generali, la “vexata quaestio” delle conseguenze, verosimilmente sottovalutate, della declaratoria di nullità del licenziamento cui possono incappare datori di lavoro, anche con un solo dipendente, che violano il divieto. Ma andiamo con ordine.
Il quadro normativo emergenziale
Con l’articolo 46, D.L. 18/2020, veniva inserito un divieto assoluto di licenziamento, per giustificato motivo oggettivo, per 2 mesi, dalla data della sua entrata in vigore (17 marzo 2020). Con l’articolo 80, D.L. 34/2020 (Decreto Rilancio), si è esteso il periodo sino a complessivi 5 mesi, portandolo al 17 agosto 2020. L’articolo 14, D.L. 104/2020 (Decreto Agosto), ha poi prorogato ulteriormente le disposizioni in materia introdotte con il D.L. Cura Italia, prevedendo, in ordine alla durata del divieto, un espresso rimando all’articolo 1, che introduce nuovi periodi di cassa integrazione per un totale di 18 settimane, da utilizzare entro il 31 dicembre 2020, e all’articolo 3, che ascrive – in alternativa – ai datori di lavoro che abbiano già fruito nei mesi di maggio e giugno 2020 dell’ammortizzatore sociale, e non lo richiedano sino alla fine dell’anno, la possibilità di un esonero contributivo pari ai contributi a carico del datore di lavoro calcolati sulla retribuzione equivalente al doppio delle ore di cassa utilizzate nei predetti 2 mesi. Da quanto argomentato si evince che, con le modifiche apportate, il “termine”, prima fisso e valido per tutti, aveva, per effetto del nuovo Decreto, una nuova scadenza, determinata dall’esigenza di individuare la fine del divieto, in alternativa:
- al momento in cui il datore di lavoro avrebbe beneficiato integralmente delle 18 settimane di cassa integrazione;
- al momento della scadenza del termine di fruizione dell’esonero alternativo della durata massima di 4 mesi.
Questo divieto “condizionato”, tipico del Decreto Agosto, è rimasto in auge fino a quando l’articolo 12, D.L. 137/2020, lo ha procrastinato “incondizionatamente” fino al 31 gennaio 2021. La decisione di volersi riferire nuovamente a una data fissa ha sgombrato, in parte, i dubbi connessi al fatto che la norma precedente aveva previsto un termine “mobile” legato o alla fine del godimento degli ammortizzatori sociali o all’alternativa fruizione dell’esonero contributivo. Questo ritorno al passato trae verosimilmente la sua ratio dal fatto che un datore di lavoro che avesse goduto ininterrottamente degli ammortizzatori sociali COVID-19 avrebbe terminato le 18 settimane il 15 novembre, con la conseguenza che, dopo quella data, avrebbe potuto licenziare. Inoltre, ove lo sgravio alternativo avesse avuto una durata limitata nel tempo per effetto del limitato ricorso alla cassa integrazione nei mesi di maggio e giugno scorsi, si sarebbe, anche in questo caso, ottenuto l’effetto di poter licenziare prima della fine dell’anno. Il divieto, pertanto, era tornato fisso e assoluto, salvo le eccezioni che vedremo più avanti. Però non basta.
L’articolo 1, commi 310-311, Legge di Bilancio 2021, ferme restando tutte le altre condizioni, estende il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a tutto il 31 marzo 2021 e, da fonti autorevoli, si deduce la volontà politica di operare un’ulteriore proroga al 30 giugno 2021.
Deroghe al blocco dei licenziamenti
Ma vediamo quali sono le deroghe al blocco dei licenziamenti secondo l’attuale contesto normativo. Sono quelle introdotte con il Decreto Agosto, confermate con il D.L. Ristori e adesso con la Legge di Bilancio 2021. Nel merito, si evidenzia che il divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo non si applica nelle ipotesi di:
- cessazione definitiva dell’attività d’impresa: si realizza quale conseguenza alla messa in liquidazione della società senza continuazione, anche parziale, dell’attività. Qualora nel corso della liquidazione dovesse configurarsi la cessione di un complesso di beni o dell’attività che determini un trasferimento dell’azienda, e con questo naturalmente anche i lavoratori ivi impegnati, il licenziamento di questi non è possibile, stante l’obbligo di passaggio da un soggetto cedente a un altro cessionario dei lavoratori, senza soluzione di continuità. La cessazione definitiva dell’attività d’impresa deve essere regolarmente comunicata alla CCIAA. Nonostante il tenore letterale della norma, che fa riferimento all’“impresa”, si ritiene – anche alla luce delle recenti disposizioni Comunitarie – che la fattispecie sia estendibile anche ai soggetti non imprenditori (professionisti, associazioni, etc.). Si ritengono compresi anche i soggetti “ditta individuale” che cessano le loro attività senza passare (in quanto non tenuti) attraverso le dette procedure di liquidazione. Una soluzione contraria potrebbe portare a pensare che solo una società (in quanto soggetta alle procedure di liquidazione) che cessa sarebbe legittimata a licenziare senza incorrere nel divieto, e non anche una ditta individuale. Questo sarebbe contrario a ogni principio di Legge. Sull’argomento, comunque, non guasterebbe un intervento ministeriale;
- accordo collettivo aziendale: si realizza attraverso un accordo sindacale stipulato tra l’azienda e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. L’atto è preordinato alla risoluzione consensuale incentivata del rapporto di lavoro. I lavoratori devono, in un secondo momento, aderire espressamente all’accordo. Così facendo, maturano il diritto alla NASpI, che, diversamente (risoluzione consensuale attuata in sede non “protetta”), non gli sarebbe spettata;
- fallimento: quando non sia previsto l’esercizio provvisorio dell’impresa ovvero ne sia disposta la cessazione. Ove l’esercizio provvisorio sia disposto, il divieto permane in favore dei lavoratori che continuano a prestare la loro opera.
Licenziamenti esclusi
Ma non tutti i licenziamenti si riconducono nell’alveo del giustificato motivo oggettivo e, per l’effetto, sono da considerarsi “vietati”.
Non vengono intaccati, infatti, dalla sospensione e, pertanto, sono possibili i licenziamenti:
- per giusta causa senza preavviso: sono principalmente quelli che rientrano nella fattispecie dei licenziamenti disciplinari (ad esempio, assenze ingiustificate, furto, risse sul luogo di lavoro, etc.), obbligando il datore di lavoro alle procedure di garanzia previste dallo Statuto dei Lavoratori;
- per giustificato motivo soggettivo: intimati per ragioni che implicano comportamenti del lavoratore (di rilevanza disciplinare) meno gravi rispetto a quelli collocati nella fattispecie della giusta causa, ma sempre tali, comunque, da legittimare il ricorso al licenziamento (in questo caso con preavviso). Si devono sempre applicare le garanzie previste dallo Statuto dei Lavoratori;
- per superamento del periodo di comporto: quantunque la procedura sia analoga a quella prevista per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (con esclusione dell’obbligo di tentativo di conciliazione ex articolo 7, L. 604/1966), essi costituiscono in dottrina un tertium genus e, pertanto, non sono riconducibili a tale fattispecie;
- del lavoratore in prova: durante o alla fine del periodo di prova le parti possono recedere liberamente dal contratto senza obbligo di preavviso;
- per raggiunti limiti di età: si attuano quando il lavoratore ha i requisiti per la pensione di vecchiaia;
- dei lavoratori domestici. il recesso, in questo caso, avviene ad nutum;
- dei dirigenti: attesa la particolare peculiarità del rapporto;
- dei lavoratori dello spettacolo: ipotesi che si realizza raramente, poiché l’assunzione normalmente è a tempo determinato;
- per risoluzione alla fine del periodo formativo nel rapporto di apprendistato: non si parla, in questo caso, di gmo, poiché fin dall’inizio del rapporto si chiarisce che alla fine del periodo formativo le parti possono recedere liberamente.
Da questa elencazione si ritiene, per prudenza, di lasciar fuori il licenziamento per “sopravvenuta inidoneità psico-fisica”. In dottrina, infatti, è prevalente l’orientamento secondo cui questo genere di licenziamento sia riconducibile al gmo. Anche in prassi, l’INL, con nota n. 298/2020, con specifico riferimento alla materia che stiamo trattando, è andato in questa direzione, sostenendo che questa ipotesi “deve essere ascritta alla fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, atteso che l’inidoneità sopravvenuta alla mansione impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori”.
L’Ispettorato continua sostenendo che “l’obbligo di repêchage rende, pertanto, la fattispecie in esame del tutto assimilabile alle altre ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Per onestà e completezza di informazione occorre precisare che la tesi ministeriale, in questo caso, non trova piena condivisione in dottrina.
I dubbi di legittimità costituzionale della norma
Il Legislatore emergenziale ha voluto creare un argine alla crisi, ponendo, tra le altre misure, un divieto di licenziamento che implica – per la tecnica legislativa con la quale è stato costruito – qualche dubbio di legittimità costituzionale. Siamo, in effetti, di fronte a una situazione eccezionale, che ha avuto come conseguenza l’adozione di misure altrettanto eccezionali. Questo è vero. Anche la Corte Costituzionale ha sancito che questi interventi, che inibiscono alle aziende la possibilità di assumere decisioni organizzative, con ricadute occupazionali, possano essere legittime, sempreché la loro temporaneità sia giustificata dall’emergenza in atto. E fin qui, nulla quaestio. Però, la tutela dell’occupazione andrebbe vista sotto un altro profilo, costituzionalmente rilevante, che non è tanto l’ormai annuale (o forse più) divieto pressoché assoluto di licenziamento, quanto la funzione di questa norma, che sarebbe “mirata” a tutelare l’occupazione dei lavoratori. È questo il punto che va approfondito e analizzato.
Questo divieto potrebbe essere funzionale alla tutela dell’occupazione?
La risposta parrebbe essere sì, atteso che i lavoratori che potrebbero essere licenziati mantengono la loro occupazione. Ma è una visione parziale del problema, perché una misura di tal specie (tenere forzosamente in essere rapporti di lavoro) impedisce all’imprenditore quegli aggiustamenti organizzativi necessari ad affrontare la crisi.
Così, non consentendo all’impresa di riorganizzarsi nel mercato, si corre il rischio di non metterla nelle condizioni di rimanere nel mercato stesso, mandandola incontro a una diminuzione e non a un aumento della sua capacità di creare occupazione.
Così come dire che si opera una salvaguardia dei posti di lavoro garantendo l’ammortizzatore sociale fino a quando il mercato non si riprenderà pare un discorso compatibile con i dubbi argomentati nel presente paragrafo. Infatti, non è lo Stato che può decidere quando la crisi finirà e, per l’effetto, quando poter (solo a quel punto) liberamente licenziare, ma è l’imprenditore che, conoscendo le dinamiche del mercato, può operare la scelta migliore, evidentemente anche in un’ottica di salvaguardia e aumento dei livelli occupazionali. La norma, sotto questo aspetto, appalesa un’incontrovertibile violazione dell’articolo 41, Costituzione, che, non a caso, è rubricato “L’iniziativa economica privata è libera”.
Sotto altro profilo si può osservare che il Legislatore, andando anche oltre qualche indicazione comunitaria, protegge solo i lavoratori a tempo indeterminato. Infatti, le aziende, di fronte alla crisi dilagante, hanno tagliato solo là dove potevano, lasciando a casa lavoratori somministrati, a termine e collaboratori. Si sono persi, così, secondo i dati Istat, oltre 900.000 posti di lavoro temporanei, implicando, con ciò (la mancanza di eguali tutele per tutti), una questione che non può non avere un rilievo costituzionale. Ultimo aspetto degno di menzione è il raccordo tra divieto di licenziamento e conseguente obbligo di porre in cassa integrazione il lavoratore, laddove l’intervento dello Stato non copra interamente i costi salariali e, di conseguenza, il potere di acquisto dell’assegno che perviene al lavoratore in misura significativamente inferiore al normale stipendio, implicando con ciò un ennesimo problema di rilevanza costituzionale.
Alcuni spunti di riflessione sulle possibilità di impugnativa del licenziamento
Una domanda che sorge spontanea di questi tempi, e che viene fatta spesso ai professionisti che trattano la materia del lavoro, è quella di sapere se il licenziamento intimato in violazione del divieto sia impugnabile a pena di decadenza nei 60 giorni. In altre parole, l’imprenditore incurante del divieto per varie ragioni si chiede se, trascorso questo lasso temporale, l’assenza di uno specifico atto di impugnazione da parte del lavoratore possa impedire a questi future rivendicazioni in ordine alla legittimità del licenziamento.
La risposta a questa domanda certamente è piuttosto complessa e ha generato in dottrina e giurisprudenza posizioni tutt’altro che definite. Due sono le linee interpretative sull’argomento:
- una sostiene che la norma disciplinante il termine decadenziale dei 60 giorni non è applicabile, neanche in via analogica, alle ipotesi di “nullità” del licenziamento, quale è appunto quello intimato nel periodo di divieto, poiché dovrebbero essere applicati i principi generali civilistici sulle azioni di nullità;
- l’altra, rifacendosi alle modifiche introdotte con il Collegato Lavoro, ritiene che il termine decadenziale di 60 giorni per l’impugnativa del licenziamento sia applicabile a tutti i casi di “invalidità” dello stesso ricomprendendovi anche quelli affetti da “nullità”.
La tesi della “non applicabilità” del termine decadenziale dei 60 giorni per l’impugnativa
Non in pochi sostengono che la disposizione di cui all’articolo 6, L. 604/1966, secondo cui “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro 60 giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta”, è da considerarsi di carattere “eccezionale” e, per l’effetto, non estendibile – neanche in via analogica – a ipotesi di nullità del licenziamento, quale è quella caratterizzante il divieto in ambito COVID-19. Secondo questa tesi, poiché la nullità rende il licenziamento improduttivo di effetti, con la conseguenza che il rapporto deve ritenersi giuridicamente pendente, non può avere significato un termine decadenziale riferito a un rapporto che continua la sua esistenza. Ne consegue, sempre secondo questa interpretazione, che al caso di specie siano applicabili i principi generali desumibili dagli articoli 1421 e 1422, cod. civ., secondo i quali l’azione di nullità dell’atto non è soggetta, per la sua dichiarazione, ad alcun termine prescrizionale, con ciò naturalmente dando a intendere che non esiste alcun termine decadenziale per l’impugnativa del licenziamento. In altri termini, seguendo questa linea di pensiero, il lavoratore avrebbe tutta la vita per esperire un’azione giudiziaria a danno del suo datore di lavoro, con le nefaste conseguenze – di cui parleremo commentando la sentenza del Tribunale di Mantova – che a questi deriverebbero.
La tesi dell’“applicabilità” del termine decadenziale di 60 giorni per l’impugnativa
Altri autori, invece, sostengono che proprio per evitare effetti devastanti sulle aziende è intervenuto il Collegato Lavoro, che, con lo scopo precipuo di definire le controversie e soddisfare la certezza dei rapporti giuridici (principio fondamentale dell’ordinamento), ha innovato profondamente la disciplina delle decadenze in ordine all’impugnativa del licenziamento. È stato previsto, infatti, che l’onere dell’impugnazione a pena di decadenza nel termine di 60 giorni si applica a tutte le ipotesi di invalidità di licenziamento (ricomprendendo nel concetto di invalidità anche quello di nullità). Secondo questa linea interpretativa l’unica eccezione riguarderebbe il licenziamento orale, poiché inefficace (tamquam non esset), e, per l’effetto, non produttivo di effetti giuridici, al punto che non potrebbe esistere, neanche volendo, un termine decadenziale per la sua impugnativa, data l’impossibilità di riferirsi ad alcun atto del datore di lavoro. C’è da considerare che, nel regime ante Collegato Lavoro, il termine per proporre ricorso al giudice per le azioni di annullamento era quinquennale o, addirittura, imprescrittibile quando si parlava di nullità del licenziamento: questo determinava situazioni di incertezza, ora in parte chiarite, e di irragionevole durata, con conseguenze immaginabili a danno dei datori di lavoro.
La sentenza del Tribunale di Mantova
Con sentenza del Tribunale di Mantova n. 112/2020, il giudice ha dichiarato nullo il licenziamento per gmo di un’apprendista, in quanto intimato in palese violazione del divieto imposto dalla normativa emergenziale COVID-19 e, segnatamente, dall’articolo 46, D.L. 18/2020, convertito in L. 27/2020.
Ma veniamo alla vicenda. Con ricorso depositato presso il predetto Tribunale, l’apprendista conveniva in giudizio il datore di lavoro per sentire accogliere le sue richieste, esponendo di essere stata assunta con contratto di apprendistato professionalizzante, mansioni di aiuto commessa al 6° livello del Ccnl Terziario. Precisava che, nel mese di marzo 2020, e fino alla fine del mese di maggio, veniva collocata in cassa integrazione in conseguenza della grave crisi pandemica generata dal virus COVID-19. Continuava riferendo che, per tutto il mese di giugno, veniva collocata in ferie e, con lettera del 9 giugno 2020, il suo datore di lavoro le comunicava il licenziamento, con effetto dal 30 giugno 2020, per giustificato motivo oggettivo, causa la chiusura della sede operativa ove svolgeva lavoro e successiva cessazione dell’attività dell’azienda.
Nel corso del processo veniva accertato che la società datrice di lavoro non solo non ha cessato l’attività, ma ha tenuto aperto lo stesso punto vendita ove prestava opera l’apprendista e altri dislocati in diverse Province. In conseguenza di ciò, si eccepiva la nullità del licenziamento per violazione dell’articolo 46, D.L. 18/2020, evidenziando che l’atto veniva formulato in maniera generica, ribadendo che l’attività non era stata chiusa e che non era stato rispettato l’obbligo di repêchage.
Il datore di lavoro non si costituiva e, per l’effetto, veniva dichiarato contumace. La causa, pertanto, verificata la regolarità della notifica dell’atto introduttivo, veniva discussa e decisa.
Il giudice ha stabilito che il divieto di licenziamento in ambito COVID-19 è una tutela temporanea della stabilità dei rapporti, atta a salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico, aggiungendo che trattasi di una misura di politica attiva del mercato del lavoro e di politica economica collegata a esigenze di ordine pubblico. Da questi ultimi aspetti, prosegue il giudice nella sua sentenza, discende la nullità di licenziamenti adottati in contrasto con norme di Legge e, pertanto, puniti con la sanzione ripristinatoria ex articolo 18, comma 1, L. 300/1970, e ex articolo 2, D.Lgs. 23/2015, derivando la nullità espressamente richiamata dall’articolo 1418, cod. civ.. Ricorda, poi, che la disciplina del licenziamento vale anche nel caso di contratto di apprendistato, essendo questo assimilato a un ordinario rapporto di lavoro, con la conseguenza che la lavoratrice dovrà essere reintegrata nel suo posto di lavoro e il suo datore condannato al pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento fino alla riammissione in servizio, fermo restando, per la lavoratrice, di optare per l’indennità sostitutiva della reintegra.
Conseguenze sui datori di lavoro anche in caso di inerzia del dipendente
Ci sono, comunque, conseguenze a carico dei datori di lavoro anche ove, a seguito di licenziamento per gmo, il lavoratore non promuova alcuna azione giudiziale e/o stragiudiziale. Possiamo così sintetizzarle:
- impossibilità di beneficiare dell’esonero contributivo alternativo alla cassa integrazione: l’articolo 3, comma 3, D.L. 104/2020, prevede che, in caso di violazione delle disposizioni attinenti il divieto di licenziamento, non sarà possibile beneficiare dello sgravio alternativo previsto dal comma 1 dello stesso articolo;
- impossibilità di ricorrere alla cassa integrazione: secondo i canoni dello stesso articolo 3, comma 3, D.L. 104/2020, in caso di forzatura del blocco dei licenziamenti il datore di lavoro non potrà collocare personale in cassa integrazione per la durata prevista dal Decreto;
- diniego della NASpI a opera di alcune sedi Inps: alcune sedi dell’Istituto, in palese violazione delle indicazioni ministeriali e di quelle emanate dall’Istituto stesso, hanno negato il diritto della NASpI al lavoratore, chiedendo – al fine della liquidazione – copia dell’accordo aziendale sindacale che dovrebbe essere propedeutico, secondo quanto da loro riportato, al licenziamento per gmo. Si dissente totalmente da questa posizione, in quanto l’accordo sindacale è preordinato a una risoluzione consensuale incentivata del rapporto di lavoro[1], e comunque la NASpI – fermo restando le altre condizioni – va liquidata in ogni caso ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione;
- possibile applicazione di sanzioni ad opera degli ispettori del lavoro: il personale ispettivo, avvalendosi del potere discrezionale previsto dal riformato articolo 14, D.Lgs. 124/2004, può emettere una disposizione invitando il datore di lavoro a revocare il provvedimento di licenziamento. A questa facoltà può accedere l’ispettore ogniqualvolta accerti un illecito, come nel caso di specie, non soggetto ad alcuna sanzione amministrativa o penale. In caso di emissione del predetto provvedimento di disposizione, e inottemperanza, da parte del datore di lavoro, è prevista una sanzione, non diffidabile, da 1.000 a 3.000 euro. L’INL è già intervenuto sull’argomento con 2 provvedimenti[2] atti a fornire le prime indicazioni operative ai propri ispettori.
Conclusioni
È di tutta evidenza che “forzare il blocco” potrebbe implicare conseguenze nefaste per i datori di lavoro, anche con pochi dipendenti. Tanto più gravi ove dovessimo trovarci di fronte a licenziamenti contestati anche dopo lunghi periodi, nel caso dovesse trovare accoglimento la tesi della non necessaria impugnazione stragiudiziale nel termine di 60 giorni e dell’imprescrittibilità dell’azione giudiziaria secondo i canoni civilistici applicabili anche al caso di specie.
Un buon viatico e una soluzione ragionevole appare, tutto sommato, essere la stipula del previsto accordo sindacale preordinato alla risoluzione consensuale incentivata del rapporto di lavoro. Questo è l’unico vero scudo di cui si può servire il datore di lavoro per evitare le conseguenze di cui si è detto.
Bisogna ammettere, comunque, che la normativa emergenziale ha introdotto per un anno (e forse anche oltre) un divieto, di dubbia legittimità costituzionale, che nella storia della nazione ha avuto un solo precedente nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, con il D.Lgs. 523/1945. Poteva probabilmente avere senso un provvedimento di tal fatta nella drammaticità del momento, conseguenza del più grave evento bellico di tutti i tempi, ma meno opportuno appare nel contesto attuale. Non si ritiene necessario sindacare sulle ragioni sociali politiche ed economiche che hanno ispirato il Legislatore emergenziale, che potrebbero portarci lontano dalle riflessioni oggetto del presente approfondimento. Ma si evidenzia, piuttosto, che soluzioni meno penalizzanti per datori di lavoro e lavoratori potevano essere assunte, ad esempio, nell’ambito delle politiche attive del lavoro, che però, purtroppo, già soffrono nello schema “ordinario”, figuriamoci in quello COVID-19. Poteva essere una soluzione alternativa a divieti imposti da norme cogenti e, verosimilmente, avulse dai necessari elementi di legittimità costituzionale, nonché forieri di rischi inimmaginabili per le aziende.
[1] Inps, circolare n. 111/2020 e messaggio n. 4464/2020.
[2] INL, circolare n. 5/2020 e nota n. 4539/2020.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.
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