Risarcimento per demansionamento o perdita di chance: il trattamento fiscale
di Roberto LucariniProsegue instancabile il flusso continuo di interventi, da parte dell’Agenzia delle entrate, circa alcuni aspetti problematici della definizione del reddito da lavoro dipendente. D’altra parte le molteplici distinzioni e peculiarità disposte dal nostro ordinamento fiscale non lasciano tregua ai poveri operatori.
È così, quindi, che, a seguito di istanza di interpello, l’Agenzia delle entrate ha proposto la risposta n. 185/E/2022, sul tema della qualificazione giuridica, su base tributaria, del risarcimento del danno da demansionamento. Una questione che mette in gioco molti aspetti, naturalmente fiscali, ma anche lavoristici e civilistici. Partendo da questi ultimi, occorre indicare che per demansionamento si intende l’adibizione di un lavoratore dipendente a mansioni che, secondo le declaratorie previste dal Ccnl applicato, rientrano in un livello di inquadramento inferiore rispetto a quello previsto nel contratto individuale di lavoro. Ciò crea al lavoratore un danno, che può qualificarsi, sul piano giuridico, come danno patrimoniale ovvero non patrimoniale, entrambi, tuttavia, quantitativamente valutabili.
Il tema, essendo tributario, si sposta, però, sulla ben nota distinzione tra “lucro cessante” e “danno emergente”: soggetto a imposta il primo, in quanto sostitutivo di redditività perduta; non soggetto a imposta il secondo, in quanto teso al semplice ristoro di una perdita patrimoniale causata, appunto, dal danno procurato.
Il caso esaminato si riferisce a un risarcimento, corrisposto a un lavoratore a causa di demansionamento, per la somma di 28.507,40 euro; ciò a seguito di una causa tesa alla richiesta di un ristoro del danno patrimoniale, biologico, morale nonché esistenziale. Il giudicante, invero, ha riconosciuto al ricorrente un danno alla professionalità, quale conseguenza del demansionamento, negandogli, invece, il riconoscimento del danno non patrimoniale, biologico, morale ed esistenziale.
La società istante, a seguito della citata decisione, ha corrisposto la somma stabilita assoggettandola, in via prudenziale, a ritenuta d’acconto ex articolo 23, D.P.R. 600/1973. Il dipendente, che ritiene la somma non tassabile, richiede alla ex datrice di lavoro la corresponsione di quanto trattenutogli a titolo di ritenuta Irpef.
Ci si domanda:
- la somma versata è da ricondurre all’ipotesi di “danno emergente”, dunque non imponibile, o, invece, a quella di “lucro cessante”?
- ove si trattasse di valore non imponibile, cosa deve fare la società per recuperare la ritenuta effettuata e versata all’erario?
L’Agenzia delle entrate risponde al primo quesito, che, secondo precedenti atti amministrativi delle Entrate, “devono essere ricondotte a tassazione le indennità corrisposte a titolo risarcitorio, sempreché le stesse abbiano una funzione sostitutiva o integrativa del reddito del percipiente; sono in sostanza imponibili le somme corrisposte al fine di sostituire mancati guadagni (cd. lucro cessante) sia presenti che futuri del soggetto che le percepisce”. Fin qui ordinaria amministrazione.
Citando una molteplicità di sentenze di legittimità, viene, inoltre, evidenziato come i Supremi giudici abbiano nel tempo ribadito che il danno da demansionamento possa riscontrarsi in un danno alla professionalità e in una perdita di chance, questioni che, se debitamente provate dal lavoratore, portano la somma erogata fuori dal mero ambito del lucro cessante, andandola, invece, a collocare nel campo del ristoro di un danno emergente: dunque estranee ad assoggettamento a imposta.
Uniformandosi a tale giurisprudenza, l’Agenzia delle entrate conclude per la non tassazione della somma erogata.
In relazione al secondo quesito, viene indicato che il recupero delle somme trattenute e versate all’Erario, dal datore di lavoro, potrà avvenire presentando una dichiarazione integrativa del modello 770 relativa all’anno d’imposta oggetto della controversia.
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