Il risarcimento del danno nel contratto a termine diventa discrezionale
di Evangelista Basile Scarica in PDFCon l’articolo 11 del D.L. 131 del 16 settembre 2024, cd. Decreto Salva infrazioni, ha modificato il comma 2 dell’articolo 28, D.Lgs. 81/2015, il quale stabiliva che, in caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a termine illegittimo, dovesse essere corrisposta al lavoratore per il periodo di “non lavoro” un’indennità risarcitoria onnicomprensiva e dunque “forfettaria”, il cui importo è compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità calcolate sull’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr. Tale indennità “ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, ivi comprese le conseguenze retributive e contributive”, per tutto il periodo compreso tra la risoluzione del precedente rapporto e la sentenza del giudice.
La nuova norma aggiunge, invece, il seguente periodo: “Resta ferma la possibilità per il giudice di stabilire l’indennità in misura superiore se il lavoratore dimostra di aver subito un maggior danno”.
Si tratta, quindi, di una nuova norma, che permette al giudice di uscire dal range indennitario previsto in caso di illegittimità dell’apposizione del termine al contratto e di aumentare la misura dell’indennità massima, finora prevista in 12 mensilità.
La soluzione adottata dal Legislatore del 2015 cercava di non far cadere il costo dei tempi del giudizio completamente sul datore di lavoro, proprio perché si era riscontrato che gran parte dei ritardi nelle decisioni non dipendevano dalla volontà dello stesso. Detta soluzione si basava sul fatto che il rimborso di natura forfettaria era stato riconosciuto dalla Consulta come costituzionale alla luce della sentenza n. 303/2011 e che l’importo tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità era stato ritenuto congruo e, comunque, dissuasivo rispetto a situazioni processuali dilatorie finalizzate a differire il momento della decisione giudiziale.
L’inserimento della nuova norma risponde, invece, a una procedura di infrazione avviata nei confronti dell’Italia dalla Commissione Europea per il recepimento non corretto nell’ordinamento nazionale della Direttiva 1999/70/CE del Consiglio, che vieta discriminazioni a danno dei lavoratori a tempo determinato e obbliga gli Stati membri a disporre misure atte a prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
La normativa italiana – secondo il comunicato della Commissione – non sanzionerebbe in misura sufficiente l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato per diverse categorie di lavoratori. Anche nel settore pubblico, infatti, considerando che non è prevista la sanzione della conversione a tempo indeterminato, l’articolo 12 del medesimo decreto ha previsto, all’articolo 36, comma 5, D.Lgs. 165/2001, il terzo, il quarto e il quinto periodo, che sono ora sostituiti dal seguente: “Nella specifica ipotesi di danno conseguente all’abuso nell’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, fatta salva la facoltà per il lavoratore di provare il maggior danno, il giudice stabilisce un’indennità nella misura compresa tra un minimo di quattro e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, avuto riguardo alla gravità della violazione anche in rapporto al numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti e alla durata complessiva del rapporto”.