Riordino dei contratti nel D.Lgs. n.81/15: uno sguardo d’insieme
di Riccardo Del Punta
Se il D.Lgs. n.23/15, sul c.d. contratto a tutele crescenti, merita certamente la palma del provvedimento più clamoroso e discusso dell’intero Jobs Act (la cui attuazione normativa è stata completata con la pubblicazione degli ultimi quattro decreti legislativi), il D.Lgs. n.81/15, in vigore dal 25 giugno 2015, è probabilmente quello più importante dal punto di vista sistematico, per le novità che introduce in snodi cruciali del sistema del diritto del lavoro.
Esso è presentato, spesso (vedremo se questa denominazione si consoliderà), come “Codice dei contratti”, e ciò a buon titolo, visto che contiene una riscrittura completa della disciplina dei contratti di lavoro c.d. non standard, cioè diversi dal contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato.
Ma si farebbe torto all’importanza del decreto se lo si riducesse alle norme sui contratti, che pure ne occupano, di gran lunga, la maggior parte (gli articoli da 4 a 50, su un totale di 57).
I primi tre articoli del testo, infatti, si misurano con questioni di assoluta centralità, che riguardano tutti i contratti di lavoro, standard e non: l’art.2, addirittura, costituisce la prima norma che, a più di settant’anni dal codice civile, osa spingersi in qualche modo sino alle sorgenti del diritto del lavoro, vale a dire nelle infide terre della subordinazione ex art.2094 cod.civ.. Quanto all’art.3, esso riscrive la disciplina di una materia non proprio secondaria, come quella delle mansioni del lavoratore subordinato, prevista dall’art.2103 cod.civ., e intonsa sin dall’epoca dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
Dal momento che queste ultime norme incidono, rispettivamente, sulla fattispecie base e sulla struttura obbligatoria fondamentale del rapporto di lavoro, è da esse che è opportuno che parta l’illustrazione delle principali novità del decreto, e della filosofia che, nel quadro generale del Jobs Act, le ispira.
Il decreto esordisce, all’art.1, con una norma che in verità già esisteva nella normativa precedente, ma nella disciplina del contratto di lavoro a termine. Il fatto che sia stata estrapolata da lì, e posta in evidenza all’inizio di un provvedimento che si occupa, tra l’altro, di collaborazioni e di contratti di lavoro, è di notevole rilievo sistematico, perché esemplifica una delle cifre fondamentali di tutto il Jobs Act (come può desumersi, in particolare, dalla già menzionata revisione del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo e dall’imponente operazione di esonero contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato effettuate nel 2015), vale a dire il rilancio in grande stile del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, proposto come tipologia contrattuale dominante (la “forma comune di rapporto di lavoro”, per dirla con l’art.1) e come tale attrattiva.
Tale capacità attrattiva culmina proprio nell’art.2, che deve essere letto, peraltro, in combinato con l’art.52. Quest’ultimo, infatti, ha soppresso di netto, con decorrenza immediata, l’istituto della collaborazione a progetto, che il Decreto Biagi del 2003 aveva ideato in un tentativo, non privo di una certa saggezza pratica, per quanto criticato esso sia stato in punto di teoria, per cercare di impedire le co.co.co. fasulle. Un tentativo alla resa dei conti non riuscito, anche se di fastidi alle imprese, in sede giudiziaria, ne ha arrecati parecchi.
È facile comprendere, d’altronde, come l’eliminazione pura e semplice del requisito del progetto, e di tutto quel che vi si accompagnava, rischiava di avere un effetto diametralmente opposto a quello che, anche sulla scorta di dichiarazioni pubbliche del Presidente del Consiglio, era nei voti del Governo, vale a dire il riassorbimento delle forme di collaborazione precaria.
La co.co.co., infatti, è molto più agevole da mettere in piedi e da gestire dell’ormai superata co.co.pro., perché è esentata non soltanto dal progetto, ma anche dalla previsione di un termine finale di scadenza. Tant’è che la maggioranza dei contratti di co.co.co. viene stipulata a tempo indeterminato, in ragione della facilità di recesso del committente, che tale forma implica.
Per cui, onde evitare che l’operazione si risolvesse in un semplice e precarizzante ritorno al passato pre-Decreto Biagi, l’art.2, D.Lgs. n.81/15, ha introdotto una norma che incide, in senso espansivo, quantomeno sull’ambito della disciplina del lavoro subordinato, e forse (il punto è discusso) sulla stessa “storica” fattispecie di cui all’art.2094 cod.civ..
L’art.2, in particolare, prevede che a far data dal 1° gennaio 2016 (la norma, dunque, non è ancora operativa) alle collaborazioni esclusivamente personali, continuative e – ecco il passaggio cruciale – “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, trova applicazione la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, da intendersi sia legale che collettiva. Fa così ingresso nell’ordinamento la figura della collaborazione eterorganizzata, che finisce attratta dalla calamita della subordinazione.
Già adesso, in verità, il fatto che la prestazione lavorativa sia stabilmente inserita nell’organizzazione del committente è considerato dalla giurisprudenza un indice sintomatico della subordinazione. Ma quel che allo stato è giurisprudenziale diverrà, tra qualche mese, un dato normativo, col risultato che avremo una subordinazione tuttora incentrata, come da sempre, sull’elemento dell’eterodirezione, ma nella quale confluiranno, tramite una sorta di scivolo, anche le collaborazioni semplicemente eterorganizzate.
E che ciò configuri un’espansione dell’ambito del diritto del lavoro dovrebbe essere indiscutibile, dal momento che ciò che è eterodiretto è necessariamente anche eterorganizzato, ma ciò che è eterorganizzato non è necessariamente eterodiretto.
Per converso, ciò non dovrebbe implicare, se non in virtù di una lettura estremistica della norma, che qualunque collaborazione personale e continuativa che comporti contatti, e dunque un coordinamento, con l’organizzazione del committente, si debba considerare eterorganizzata.
È un dato altrettanto certo, infatti, che la co.co.co. tuttora esiste, se non fosse perché l’art.409, n.3 c.p.c., è stato fatto salvo, a scanso di equivoci, dall’art.52, co.2, per cui l’interprete deve assegnare ad essa uno spazio normativo e concettuale distinto da quello della collaborazione eterorganizzata.
L’operatività di quella che potremmo atecnicamente definire, tutto sommato, presunzione assoluta di subordinazione, di cui all’art.2 in commento, ha tuttavia delle eccezioni, la più importante delle quali è quella delle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi di livello nazionale stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive e organizzative del relativo settore.
La norma manda, in tal modo, un importante input all’autonomia collettiva, che, se vorrà e potrà intervenire stabilendo uno status minimale delle collaborazioni, farà sì che esse vengano valutate soltanto in relazione alla fattispecie base di cui all’art.2094, e non anche al meccanismo integrativo di cui all’art.2.
In generale, una norma come questa è la prova più eloquente di quanto il Legislatore delegato abbia preso sul serio l’impegno di semplificazione delle forme contrattuali operanti nel mercato del lavoro, e di rilancio della fattispecie della subordinazione.
Un’ultima parola sull’art.53 del decreto, che, pagando pegno all’obiettivo dello sfoltimento delle forme contrattuali (che non sono mai state, comunque, 46 o giù di lì, come voleva una leggenda metropolitana), ha abrogato l’istituto dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro.
Con l’art. 3, contenente la nuova disciplina delle mansioni, entriamo in un ordine di idee abbastanza diverso, e comunque anch’esso riconducibile a una delle linee di riforma del Jobs Act, vale a dire quella dell’incremento della flessibilità nella gestione del rapporto di lavoro.
Il nuovo regime comporta infatti, per più aspetti, un ampliamento dell’ambito di esercizio dello ius variandi del datore di lavoro.
È ridefinito, anzitutto, il regime della mobilità orizzontale, ossia dell’assegnazione al lavoratore di mansioni di identico valore professionale rispetto alle ultime effettivamente svolte. La disciplina precedente, come è noto, utilizzava il concetto di “equivalenza”, che lasciava ai giudici, peraltro, una qualche discrezionalità valutativa, in particolare per la possibilità di ritenere non equivalenti, in ragione dell’impatto sul percorso professionale del singolo lavoratore, mansioni appartenenti al medesimo livello o alla medesima area di inquadramento contrattuale.
Col nuovo art.2103, co.1, il mutamento di mansioni è legittimo sol che le nuove mansioni siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento contrattuale di quelle precedenti. Per cui, ad esempio, se un Ccnl effettua un’operazione di accorpamento delle mansioni in ampie aree contrattuali, quelle mansioni dovranno essere ritenute tutte fungibili e dunque legittimamente assegnabili al lavoratore.
È richiesta, però, a tale fine, anche un’altra condizione, ossia che le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale (operaio, impiegato, quadro, dirigente) di quelle precedenti. Non sono possibili, insomma, spostamenti da mansioni impiegatizie a operaie etc..
La seconda novità (art.2103, co.2) è che è ammessa, per la prima volta, la possibilità di quello che nel gergo si è soliti definire demansionamento, ossia l’assegnazione di mansioni riconducibili al livello di inquadramento contrattuale immediatamente inferiore (non più di uno), purché sempre rimanendo, anche in questo caso, all’interno della medesima categoria legale.
L’assegnazione in discorso è consentita, con comunicazione per iscritto a pena di nullità (art.2103, co.3), nell’ipotesi che sia stata adottata dal datore di lavoro “una modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”, cioè una riorganizzazione, di respiro più o meno ampio, dalla quale discenda causalmente il suddetto demansionamento.
Sono fatti salvi, peraltro, il livello di inquadramento e il trattamento economico acquisiti dal lavoratore, fatta eccezione (come già prevede la giurisprudenza sul vecchio art.2103) per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
Ulteriori ipotesi di demansionamento, a parità di categoria legale, possono essere previste dai contratti collettivi, anche aziendali (art.2103, co.4).
Il mutamento di mansioni, sia in orizzontale che in peius, deve essere accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo di formare il lavoratore in vista delle nuove mansioni (art.2103, co.3). È la prima volta che una norma lavoristica riconosce il diritto del lavoratore alla formazione, sia pure con un caveat (“ove necessario”). È precisato, tuttavia, che il mancato assolvimento di tale obbligo, sebbene costituisca un inadempimento passibile di conseguenze risarcitorie, non si ripercuote sulla validità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni.
La terza novità è rintracciabile nell’art.2103, co.6, il quale, consolidando normativamente una possibilità già emersa, a certe condizioni, nella giurisprudenza, ha previsto che possono essere conclusi accordi individuali comportanti la modifica, dunque anche la riduzione, di mansioni, categoria, livello contrattuale e relativa retribuzione, purché tali patti siano stipulati in vista di un qualificato interesse del lavoratore, in particolare alla conservazione dell’occupazione (ad esempio per evitare un licenziamento economico), e purché, soprattutto, siano formalizzati nelle sedi di autonomia assistita.
Si tratta di un’apertura, significativa perché inconsueta per il diritto del lavoro, all’autonomia individuale non soltanto per i riflessi sul pregresso del rapporto, ma anche pro futuro.
Infine, anche il meccanismo di promozione automatica in ragione dell’esercizio di fatto di mansioni superiori è stato reso più flessibile (art.2103, co.7), in quanto il termine oltre il quale scatta l’acquisizione del livello superiore non è più inderogabilmente di tre mesi, bensì è lasciato ai contratti collettivi. Soltanto in mancanza di questi, e pertanto in via suppletiva, interviene la norma legale, che si è posizionata su sei mesi continuativi.
Quella dei contratti di lavoro (e cioè del contratto a tempo parziale, del contratto di lavoro intermittente, del contratto a termine, del contratto di lavoro somministrato e dell’apprendistato, come forme contrattuali subordinate, più la figura spaiata del lavoro accessorio) è una nuova “disciplina organica”, nel senso che essa si accompagna all’abrogazione esplicita di tutte le norme precedentemente regolanti la materia, sì che gli interpreti e gli operatori possono essere certi che la normativa rilevante, d’ora in poi, è tutta lì.
Ed è, inoltre, una disciplina semplificata, sia pure non nel senso estremo (e a mio giudizio eccessivo) del codice semplificato proposto da Pietro Ichino.
Una disciplina, cioè, che si è riproposta di riscrivere e riorganizzare in modo ordinato le norme in questione, spesso provenienti (come nel caso del contratto a termine) da interventi normativi che si erano sovrapposti in modo confuso nel corso degli anni. Ma non si è trattato soltanto di un mero riordino, essendo stata operata anche una razionalizzazione delle norme, con eliminazione di ripetizioni, sfrondamento di ridondanze etc..
Che l’istanza di semplificazione, nel senso proprio del termine, sia stata quella che più di ogni altra ha ispirato il provvedimento, non significa che esso, che pure per molti aspetti ha riprodotto le discipline già acquisite, non contenga anche rilevanti novità di contenuto, la maggioranza delle quali (ma non tutte) di marca liberalizzante nella gestione di questi contratti.
Non essendo qui il caso di scendere nei dettagli, che sono molti e sparsi nei risvolti della nuova normativa, basterà ricordare le novità più significative.
Per il lavoro a tempo parziale, la facoltà di ricorrere al part-time elastico (che include, oggi, anche il precedente part-time flessibile) anche nel caso che esso non sia disciplinato dai contratti collettivi, con accordi avanti le commissioni di certificazione, entro un limite quantitativo e con una maggiorazione fissati dalla stessa legge, e il diritto a passare temporaneamente al part-time in luogo del congedo parentale.
Per il contratto a termine, la conferma delle novità già portate dal Decreto Poletti del 2014, prima fra tutte il superamento del requisito della causale giustificatrice, e il chiarimento sul fatto che la violazione del tetto del 20% dei contratti a termine sul totale della manodopera non dà luogo a conversione, ma soltanto all’applicazione della sanzione amministrativa all’uopo prevista.
Per il lavoro somministrato, l’estensione della regola dell’acausalità anche alla somministrazione a tempo indeterminato, peraltro effettuabile soltanto attraverso lavoratori assunti dall’agenzia a tempo indeterminato.
Per l’apprendistato, il tentativo di rilancio dell’apprendistato per la qualifica e il diploma professionale o altri titoli equivalenti, in una logica sempre più protesa verso l’alternanza scuola-lavoro.
Per il lavoro accessorio, l’incremento del limite di compenso valevole per il singolo lavoratore, e un obbligo di comunicazione rivolto a consentire la tracciabilità di questa forma di lavoro che, nata per riassorbire lavoro nero, spesso e volentieri si presta anche a coprirlo.
Nell’insieme, le prime reazioni sembrano confermare che la nuova disciplina ha realizzato un progresso in termini di chiarezza e leggibilità, il che potrebbe costituire un buon precedente per ulteriori operazioni di semplificazione.
Infine, last but not least, il D.Lgs. n.81/15 contiene una norma, quella di cui all’art.51, che riveste una certa importanza di sistema nella tormentata materia delle regole della contrattazione collettiva.
Essa prevede, infatti, che a tutti i fini di cui al decreto (e dunque essenzialmente con riguardo alle norme sui contratti di lavoro come a quella sulle mansioni), e salvo che sia diversamente disposto, le norme di rinvio ai contratti collettivi debbono essere lette come riferite ai contratti di qualunque livello, purché stipulati, i contratti nazionali territoriali o aziendali, da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, e quelli aziendali anche dalle Rsu o dalle Rsa riconducibili alle predette associazioni sindacali.
La norma è importante, oltre che per la conferma dei requisiti di rappresentatività che debbono avere le associazioni sindacali o gli organismi di rappresentanza dei lavoratori per poter aspirare ad attuare i rinvii legislativi (che spesso, oltretutto, includono una facoltà di deroga anche in peius al trattamento di fonte legale), per l’equiparazione integrale, ai fini dei medesimi rinvii, della contrattazione territoriale e soprattutto aziendale a quella nazionale. Il che consolida le tendenze al decentramento dei poteri normativi demandati alla contrattazione collettiva, già emerse nella legislazione di ultima generazione (v. in particolare l’art.8, L. n.148/11).
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro”.