19 Aprile 2017

La rinuncia all’impugnazione del licenziamento

di Salvatore Luca Lucarelli

 

La fase successiva al recesso datoriale dal rapporto di lavoro ricopre una primaria rilevanza, sia in ordine alle conseguenze personali per il lavoratore subordinato sia in merito ai profili giuridici dei diversi esiti che il licenziamento può far emergere dal punto di vista vertenziale e sanzionatorio.

A tale passaggio, infatti, è dedicato soventemente il dibattito politico e sindacale e, soprattutto in tempi recenti, l’attenzione del Legislatore, la cui attività non è stata orientata esclusivamente alla cristallizzazione dell’apparato sanzionatorio quale regime di tutela contro i licenziamenti illegittimi, ma si è dedicata anche all’offerta di strumenti deflattivi del contenzioso, stabilendo anche i principi finalizzati a una corretta espressione della rinuncia alle impugnazioni da parte dei lavoratori.

 

L’impugnazione del licenziamento

L’articolo 6, L. 604/1966, così come modificato dall’articolo 32, comma 1, L. 183/2010, dispone che “il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso”.

L’impugnazione, pertanto, dovendo giungere a conoscenza del datore di lavoro per dispiegare i propri effetti, si configura come negozio giuridico unilaterale dispositivo ricettizio, declinato fattivamente in un qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a manifestare al datore di lavoro la volontà del lavoratore di contestare la validità e l’efficacia del licenziamento.

Il secondo comma dell’articolo 6, L. 604/1966, dispone che “l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione del giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato”.

Dal momento della ricezione della comunicazione del licenziamento, decorrono i 60 giorni per proporre l’impugnazione stragiudiziale e, dal momento in cui questa viene proposta, viene imposto l’onere di depositare il ricorso entro il termine successivo di 180 giorni, salvo, naturalmente, che si sia preferito dar corso nei 60 giorni all’impugnazione giudiziale.

Nel decorso dei 180 giorni il lavoratore licenziato può avvalersi delle procedure di conciliazione e arbitrato e, in tal caso, se le procedure non trovano positivo riscontro, il deposito del ricorso deve comunque avvenire, sempre a pena di decadenza, entro l’ulteriore termine di 60 giorni.

 

Principi in materia di rinunce e transazioni

Nell’ambito della regolamentazione giuslavoristica, emerge il ruolo centrale dell’articolo 2113 cod. civ., riferimento normativo generale in tema di rinunzie e transazioni. In particolare, l’articolo 2113 stabilisce, nell’attuale versione introdotta dall’articolo 6, L. 533/1973, al comma 1, che “le rinunzie e transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide”.

La riforma del 1973 ha esteso l’applicabilità della disposizione anche ai rapporti di lavoro non subordinati e richiamati appunto dall’articolo 409 c.p.c., come i rapporti riferibili alla parasubordinazione o ai contratti di agenzia, nella logica di attrazione di quei rapporti di lavoro nel cui ambito il prestatore, anche se non subordinato, risulti collocato in una condizione di debolezza strutturale.

Limitandosi a un approccio definitorio, in dottrina è emerso l’orientamento secondo il quale l’espressione “rinunce e transazioni” costituisce un’endiadi, non ritenendo pertanto necessario una reale distinzione tra i due negozi. In realtà, con il supporto di altra parte della dottrina e della giurisprudenza, emergono distinzioni rilevanti tra la nozione di rinuncia e quella di transazione.

La prima rientra tra gli atti abdicativi e si sostanzia in una dichiarazione unilaterale di volontà, portata a conoscenza dell’altra parte, con la quale un soggetto decide di non esercitare più un proprio diritto certo, determinato o determinabile. In tal senso, è necessario che il lavoratore abbia contezza dei diritti di sua spettanza e che volontariamente intenda privarsi, integralmente o parzialmente, delle sue ragioni creditorie, determinate o determinabili, a vantaggio del datore di lavoro.

Con l’espressione “transazione”, invece, rifacendosi all’articolo 1965 cod. civ., ci si riferisce a un contratto con il quale le parti, in presenza di reciproche concessioni, pongono fine a una lite già insorta o prevengono una lite che stia per sorgere.

La transazione presuppone, quindi, anche la possibilità di incertezza in ordine alla spettanza o meno dei diritti oggetto della transazione, costituendo un atto bilaterale che comporta reciproche concessioni.

Connessa alle rinunce e transazioni è la nozione di conciliazione, in linea generale caratterizzata dall’intervento di un terzo soggetto finalizzato a supportare le parti nella composizione della lite e che, nei casi previsti dalla norma, ricoprono il ruolo di garante e di assistenza al lavoratore quale parte debole del rapporto.

A norma dell’articolo 2113 cod. civ., quindi, le rinunce e le transazioni che hanno ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratto sono invalide, tranne che nell’eventualità in cui siano intervenute in una conciliazione raggiunta in una delle sedi “protette” previste, ossia in sede giudiziale, presso l’Ispettorato territoriale del lavoro competente, in sede sindacale o in sede arbitrale, anche irrituale.

 

Rinuncia all’impugnazione ex articolo 6, D.Lgs. 23/2015

Il 7 marzo 2015, il giorno successivo alla pubblicazione in G.U. è entrato in vigore il D.Lgs. 23/2015, attuativo della L. 183/2014, atto genetico dell’apparato di riforme denominato Jobs Act, che ha introdotto il c.d. contratto a tutele crescenti e che ha posto, all’articolo 6, le disposizioni in ordine alla possibilità per il datore di lavoro di presentare offerta di conciliazione.

Nello specifico, la disposizione ha introdotto un istituto conciliativo nuovo, finalizzato alla risoluzione extragiudiziale delle controversie sui licenziamenti e che consente al datore di lavoro di offrire al lavoratore una somma predeterminata in modo certo, in cambio della rinuncia all’impugnazione del licenziamento.

In particolare, al primo comma viene previsto che “in caso di licenziamento (…) al fine di evitare il giudizio e ferma restando la possibilità per le parti di addivenire a ogni altra modalità di conciliazione prevista dalla legge, il datore di lavoro può offrire al lavoratore, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi di cui all’articolo 2113, quarto comma, del codice civile, e all’articolo 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, un importo che non costituisce reddito imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale, di ammontare pari a una mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a diciotto mensilità, mediante consegna al lavoratore di un assegno circolare”.

Tale norma si applica ai lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato dal 7 marzo 2015 o, interessati, successivamente alla medesima data, a trasformazione del contratto a termine a indeterminato e agli apprendisti confermati in servizio e ai lavoratori, assunti precedentemente in aziende che, dopo l’entrata in vigore del decreto in parola, integrino il requisito occupazionale di cui all’articolo 18, comma 8 e 9, L. 300/1970. La conciliazione deve avvenire in una delle sedi assistite di cui all’articolo 2113 cod. civ. o presso le commissioni di certificazioni ex articolo 81, D.Lgs. 276/2003. Successivamente all’offerta di conciliazione, in base al secondo comma, “l’accettazione dell’assegno (…) da parte del lavoratore comporta l’estinzione del rapporto alla data del licenziamento e la rinuncia alla impugnazione del licenziamento anche qualora il lavoratore l’abbia già proposta”.

Il ricorso a tale strumento conciliativo comporta l’obbligo di comunicazione, al fine del monitoraggio disposto al comma 3, attraverso l’integrazione dell’ordinaria comunicazione obbligatoria telematica di cessazione del rapporto di cui all’articolo 4-bis, D.Lgs. 181/2000, con un’ulteriore comunicazione che il datore di lavoro deve effettuare entro 65 giorni dalla cessazione del rapporto, nella quale deve essere indicata l’avvenuta ovvero la non avvenuta conciliazione.

 

Procedura ex articolo 7, L. 604/1966, e rinuncia all’impugnazione

A seguito delle modifiche introdotte dalla L. 92/2012 all’articolo 7, L. 604/1966, è previsto che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora disposto da un datore di lavoro avente i requisiti dimensionali ex articolo 18, comma 8, St.Lav., deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla Direzione territoriale del lavoro competente e trasmessa per conoscenza al lavoratore. In tale comunicazione, il datore di lavoro deve dichiarare l’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, indicando anche i motivi del licenziamento medesimo nonché le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato. A seguito di tale comunicazione, la Direzione territoriale convoca le parti dinanzi la commissione provinciale di conciliazione, di cui all’articolo 410 c.p.c., al fine di esperire il tentativo di conciliazione. Se quest’ultimo risulta fallimentare, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.

Successivamente all’introduzione della procedura conciliativa in parola, è sorta la problematica inerente alla validità di conciliazioni concluse in sede sindacale nella quale il lavoratore rinunci al diritto a impugnare il licenziamento, anche nell’ipotesi in cui lo stesso sia effettuato senza l’osservanza della procedura ex articolo 7.

A tal proposito, il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha chiarito, anche attraverso risposta a interpello n. 1/2014, che l’introduzione della procedura conciliativa ex articolo 7, L. 604/1966, lascia inalterata la disciplina e gli effetti ex articolo 2113 cod. civ. e, pertanto, non si ritiene che un vizio di natura procedimentale possa inficiare la validità degli atti transattivi conclusi nelle sedi stabilite da tale norma civilistica.

 

La rinuncia all’impugnazione del licenziamento

In riferimento agli atti di rinuncia e transazione si rende indispensabile connettere il diritto interessato con quanto disposto dall’articolo 2113 cod. civ. e dalle norme a protezione del lavoratore in generale. Se, da una parte, emerge centrale il ruolo dell’articolo 2113 in relazione a diritti inderogabili e, posta l’esistenza di diritti indisponibili, si rileva una categoria di diritti che invece vengono ritenuti pienamente rientranti nella disponibilità del lavoratore e che risultano quindi esclusi dalla disciplina limitativa delle rinunce e delle transazioni.

La giurisprudenza si è più volte espressa in maniera conforme, ritenendo che quello alla reintegrazione nel posto di lavoro sia un diritto disponibile escluso dalla previsione dell’articolo 2113 cod. civ., analogamente al principio per cui è pacifica la disponibilità del diritto del lavoratore ad accettare il licenziamento ovvero a rinunciare all’impugnazione dello stesso. Tra le molte, emerge la sentenza n. 22105/2009, con la quale Corte di Cassazione ha sottolineato che “il lavoratore può liberamente disporre del diritto di impugnare il licenziamento, facendone oggetto di rinunce o transazioni, che sono sottratte alla disciplina dell’articolo 2113 c.c. che considera invalidi e perciò impugnabili i soli atti abdicativi di diritti del prestatore di lavoro derivanti da prestazioni inderogabili di legge o dei contratti collettivi o accordi collettivi”, rientrando, infatti, l’interesse del lavoratore alla prosecuzione del rapporto di lavoro nell’area della libera disponibilità, come emerge anche dalla facoltà di recesso ad nutum, di cui il lavoratore dispone dall’ammissibilità di risoluzioni consensuali del contratto di lavoro e dalla possibilità di consolidamento degli effetti del licenziamento illegittimo per mancanza di una tempestiva impugnazione.

Nella stessa sentenza la Corte, rifacendosi in particolare alla precedente sentenza n. 4780/2003 specifica anche che “la rinunzia o la transazione conclusa tra dipendente e datore di lavoro, avente ad oggetto la risoluzione del rapporto di lavoro, non rientra nell’applicazione dell’articolo 2113 c.c. in quanto, anche quando tale è garantita la disponibilità del posto di lavoro, tale garanzia dipende da leggi o da disposizioni collettive, mentre l’ordinamento riconosce al lavoratore il diritto potestativo di disporre negozialmente e definitivamente del posto di lavoro stesso, in base all’articolo 2118 c.c.“.

Risulta opportuno segnalare che l’accordo avente ad oggetto la rinuncia all’impugnazione del licenziamento, o anche una transazione relativa alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, potrebbe comunque risultare soggetto all’impugnativa ex articolo 2113 cod. civ. se legato inscindibilmente all’abdicazione di altri diritti indisponibili, costituendo quindi solo una clausola all’interno di un più complesso assetto negoziale.

Pertanto, la rinuncia all’impugnazione del licenziamento potrà declinarsi anche in un accordo, sotto forma di scrittura privata, con la previsione della rinuncia da parte del lavoratore di impugnare il licenziamento, o di far decadere l’impugnazione già avvenuta, ma non potrà sostanziarsi in una rinuncia ad altri diritti indisponibili, poiché, in tal caso, non risulterà valida nemmeno la sola rinuncia all’impugnazione del recesso datoriale.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

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