Il rider troppo subordinato per essere vero (collaboratore autonomo)
di Evangelista BasileCon la sentenza n. 3570 dello scorso 24 novembre 2020, il Tribunale di Palermo è tornato sulla vexata quaestio dell’inquadramento giuridico dei c.d. riders.
La vicenda nasce da uno degli ormai famosi fattorini, il quale – dopo aver preso attivamente parte a proteste sindacali contro Glovo, datrice di lavoro – si è visto “sospendere” il proprio account e, quindi, è stato di fatto privato della possibilità di lavorare.
Il giudice di Palermo, con una sentenza diffusamente motivata, ha ripercorso un po’ tutti i precedenti giurisprudenziali sui lavoratori della gig economy, passando dalla Corte di Giustizia (il famoso caso Uber sui drivers), alla Corte d’Appello di Parigi e alla Corte di Cassazione spagnola, fino a giungere anche alla recente sentenza della Corte Costituzionale nostrana.
Insomma, in estrema sintesi, a dire del Tribunale, il concetto di subordinazione deve essere riletto in chiave moderna e concreta, dovendo dunque, nel caso specifico, valutare se il lavoratore abbia goduto di una vera autonomia o se, invece, quest’ultima sia stata solo fittizia e apparente, non potendosi relegare il giudizio alla sola formalità del rapporto.
Nel caso di specie, secondo il Tribunale, il rider è un lavoratore subordinato a tutti gli effetti (badate bene, non un lavoratore parasubordinato “eterorganizzato” a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato ex articolo 2, D.Lgs. 81/2015).
Perché?
Per la motivazione più vecchia del mondo: è stato assoggettato concretamente al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.
Secondo il giudice palermitano, infatti, da una parte, il funzionamento dell’algoritmo (che la società convenuta si è rifiutata di esibire), di fatto, fa sì che il lavoratore sia solo teoricamente libero di scegliere l’an e il quando della propria prestazione, dall’altra, tale possibilità di “scelta” (obbligata) varia in base al punteggio attributo dall’algoritmo stesso al lavoratore, che in buona sostanza è soggetto a continua valutazione da parte del datore di lavoro.
Ma vi è di più, poiché nel caso affrontato a Palermo, il potere disciplinare si è estrinsecato anche nella sospensione dell’account del lavoratore, in seguito a sue imprecisate condotte (questa l’allegazione della società convenuta!): non scorgervi una sanzione disciplinare atipica è, in effetti, parecchio difficile.
Così la committente Glovo – divenuta datrice di lavoro perr effetto della sentenza in commento – è stata condannata a reintegrare il lavoratore (che aveva qualificato il blocco dell’account come vero e proprio licenziamento, al fine di farne accertare la natura ritorsiva e orale e la conseguente riammissione in servizio) e a pagargli tutte le retribuzioni medio tempore maturate, nonché le differenze retributive sui periodi precedenti (in verità, sul punto non vi era contestazione della società), sulla base del Ccnl Terziario, con inquadramento al VI livello.
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