27 Marzo 2024

Retribuzione minima e valenza della contrattazione collettiva

di Francesco Natalini Scarica in PDF

La sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 960/2023, del 3 gennaio 2024, oggetto del presente commento, è sotto certi versi alquanto fuorviante, in quanto prima facie sembra concentrarsi sul diritto di un lavoratore dipendente di ITA Airways di percepire un superminimo legato alle funzioni svolte di capo cabina, spingendosi poi nel tortuoso ginepraio della derogabilità in pejus da parte della contrattazione collettiva posteriore, ma poi, quale terzo motivo di decisione, aggiunge un altro tassello a quel filone interpretativo, ormai in via di consolidamento, che vede tra i poteri del giudice anche quello di determinare la congruità della retribuzione ai fini del rispetto dell’articolo 36, Costituzione, anche disattendendo i parametri salariali fissati dalla contrattazione collettiva, qualora ritenuti inadeguati. È, però, intenzione proporre una disamina generale dei 3 temi affrontati nella sentenza della Corte milanese, che verranno quindi proposti in sequenza.

 

La disciplina del superminimo

Sulla questione del superminimo vengono in soccorso i principi sull’assorbibilità dello stesso in presenza di aumenti contrattuali, ivi compresi gli aumenti derivanti dal passaggio di livello[1].

A tal proposito, in giurisprudenza vige il principio generale dell’assorbimento, applicabile quindi anche in assenza di una precisa indicazione nella lettera di assunzione o di assegnazione[2], ma, qualora il contratto collettivo disponga che la natura di superminimo assorbibile debba essere espressa[3], la mancanza di indicazione conduce a ritenerlo immodificabile, cioè non assorbibile da futuri aumenti retributivi, sicché è sempre consigliabile esprimersi in modo netto, se si opta per tale ipotesi (l’assorbimento), onde evitare rischi ed equivoci di sorta.

La Corte d’Appello respinge, infatti, l’istanza del lavoratore a vedersi stabilizzato il superminimo proprio in ragione del fatto che, nella lettera di assunzione, era stato previsto l’assorbimento, sia in caso di trattamenti di origine pattizia sia di qualsiasi altro incremento di natura economica[4].

L’ipotesi della non assorbibilità può, invece, emergere o quando è stata espressamente prevista[5] ovvero anche da un comportamento concludente del datore di lavoro che – nonostante la mancanza di un’espressa previsione – abbia in occasione dei precedenti rinnovi contrattuali collettivi sempre adottato la regola del cumulo[6] e, infine, quando si evince che lo stesso è stato assegnato al lavoratore quale remunerazione ulteriore delle sue qualità (c.d. ad personam)[7].

Cosa diversa è, invece, la riduzione sic et simpliciter (o addirittura l’eliminazione) del superminimo, anche cioè in assenza di un contrapposto aumento retributivo, atteso che in tali casi è necessario il consenso personale del lavoratore (non sostituibile da un consenso ottenuto in sede pattizia), ancorché non sia necessaria la c.d. sede protetta (cioè una conciliazione nelle sedi ex articoli 410, 411, 180, c.p.c. e articolo 11, D.Lgs. 124/2004)[8], trattandosi di un diritto appartenente alla categoria di quelli considerati pienamente disponibili[9].

Un discorso a parte va fatto in relazione all’uso aziendale, quando riguarda il superminimo. Soccorre una recente sentenza della Corte di Cassazione, che, con l’ordinanza n. 20682/2023, accogliendo le domande dei dipendenti, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello argomentando che, secondo la costante giurisprudenza della stessa Corte di legittimità, la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti, che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi), integra, di per sé, gli estremi dell’uso aziendale, il quale, “in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali – tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda e che sono definite tali perché, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale”[10].

Da tale assunto consegue, aggiunge la Corte, che, ove la modifica in melius del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell’uso aziendale, “ad essa non si applica né l’art. 1340 cod. civ. – che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l’uso o di escluderlo – né, in generale, la disciplina civilistica sui contratti – con esclusione, quindi, di un’indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati – né, comunque, l’art. 2077, comma secondo, cod. civ.”, con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica in pejus del trattamento in tal modo attribuito (Cassazione, n. 8342/2010).

 

La derogabilità in pejus

Invece, per quanto concerne la problematica della derogabilità in pejus, a opera della contrattazione collettiva (realizzatasi, nel caso di specie, in sede di rinnovo del contratto di categoria, avvenuto con decorrenza 1° gennaio 2022), la Corte richiama la decisione del giudice di prime cure, che aveva introdotto un’interpretazione “originale” e, per quanto risulta, inedita, proponendo di fatto una distinzione tra voci retributive, alcune ritenute riducibili e altre no.

In pratica, secondo il Tribunale, la derogabilità in pejus, pur rappresentando un principio di carattere generale, non potrebbe incidere sulle “voci proprie ed intrinseche” del profilo lavorativo in questione (nel caso di specie, trattavasi del c.d. capo cabina), “ritenendo pertanto illegittima la decurtazione operata e riconoscendo il diritto del ricorrente [il lavoratore, ndA] a percepire, anche dopo il 31 dicembre 2021 [data di scadenza del contratto collettivo, poi rinnovato in pejus, ndA], la retribuzione concordata nella lettera di assunzione per le voci relative alla retribuzione ordinaria e l’indennità di volo garantita, nonché il pagamento dell’indennità di volo variabile con la quota oraria riconosciuta fino al 31 dicembre 2021, il tutto oltre interessi e rivalutazione”.

Tale interpretazione è stata censurata dalla società appellante, in quanto ritenuta in violazione dell’invocata teoria del “conglobamento” (che contrappone solo elementi omogenei del contratto collettivo)[11], atteso che, “la rinnovata contrattazione collettiva ha previsto, complessivamente in una prospettiva dinamica, un trattamento più favorevole rispetto al precedente regolamento aziendale del 20 settembre 2021”.

 

La retribuzione equa e sufficiente ex articolo 36, Costituzione

Sul terzo punto, come si diceva in premessa, la Corte prende in esame la retribuzione riconosciuta al lavoratore per effetto del contratto collettivo applicato, valutandone la conformità e l’adeguatezza rispetto ai principi dell’articolo 36, Costituzione.

Ed è su questo terzo tema che, cavalcando un filone interpretativo ormai consolidatosi nel corso dell’anno 2023, con le sentenze n. 27711/2023[12] e n. 28230/2023[13] (quest’ultima citata anche in sentenza), che si introduce il principio della piena sindacabilità del giudice rispetto all’adeguatezza costituzionale della retribuzione assegnata al lavoratore, anche laddove la stessa discenda dalla contrattazione collettiva c.d. leader, cioè sottoscritta dalle OO.SS. più rappresentative.

Si ricorderà che le precedenti (richiamate) pronunce riguardavano il noto Ccnl dei servizi di vigilanza privata e dei servizi fiduciari, ormai destinato a essere al centro dell’attenzione a causa delle sue retribuzioni ritenute inadeguate ed eccessivamente “contenute”, rispetto a quelle previste in settori contigui[14], che hanno suscitato clamore anche a livello politico e mediatico, tant’è che da taluni le sentenze citate sono state addirittura ritenute anticipatrici del salario minimo.

La sentenza della Corte d’Appello, confermando le recenti e richiamate pronunce di legittimità, si sofferma sul concetto di “equità”, o, per meglio dire, sui 2 concetti di “proporzionalità” e “sufficienza” della retribuzione, espressioni con cui si esprime l’articolo 36, Costituzione, che vanno rispettate entrambe (e sui quali si è soffermata in modo attento e rigoroso, rimarcandone la distinzione, la pronuncia in commento), nel momento in cui “l’uno stabilisce un criterio positivo di carattere generale, l’altro un limite negativo, invalicabile in assoluto”.

Ed è proprio “la sufficienza” della retribuzione ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” che permette al giudice (di merito) di poter individuare un parametro di commisurazione anche esterno rispetto a quello contrattual-collettivo (ad esempio, livello Istat di povertà assoluta, importo Cig, NASpI, etc.), con buona pace di quei datori di lavoro che pensavano di “stare tranquilli”, applicando le retribuzioni di un contratto collettivo leader. Peraltro, trattandosi di concetti indefiniti, è inevitabile che si continuerà a essere in balia della giurisprudenza, che potrà dare sfogo alla sua creatività, in barba alle parti sociali firmatarie del Ccnl[15].

Ricordiamo che in passato, in giurisprudenza[16] era invalsa la tesi della “presunzione di adeguatezza” delle retribuzioni qualora scaturenti da un CC rappresentativo, affermando che:

“Nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione prevista dal contratto collettivo acquista, pur solo in via generale, una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza”[17]ma, evidentemente, tale principio ormai è stato abbandonato in nome di una valutazione di congruità che prescinde dal “peso” della fonte pattizia, anche se nella stessa sentenza n. 27771/2023 si afferma che: “Resta, peraltro, sempre valido il monito formulato dalla giurisprudenza di questa Corte (tra le altre, Cassazione, n. 2245/2006 e n. 546/2021) con cui si invita il giudice che si discosti da quanto previsto dai contratti collettivi ad usare la massima prudenza e adeguata motivazione giacché difficilmente [il giudice, ndA] è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali”, aggiungendo che, qualora il giudice decida di discostarsi dalla retribuzione contrattuale, deve farlo “con grande prudenza e rispetto, attesa la naturale attitudine degli agenti collettivi alla gestione della materia salariale, un principio garantito dalla Costituzione e anche dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (si veda Corte EDU, Demir e Baykara c. Turchia (GC), n. 34503/97, 12 novembre 2008)”.

Insomma, tutto e il contrario di tutto, con tanti saluti alla certezza del diritto.

[1] Cassazione, n. 26017/2018.

[2] Ex multis, Cassazione, n. 24643/2015, n. 7685/2013, n. 14689/2012 e n. 10561/2020 confermano tale principio, ma ammettono la prova contraria.

[3] Cassazione, n. 20008/2008, n. 12788/2004 e n. 8498/1999.

[4] L’assorbimento era previsto anche nell’accordo con le parti sociali del 2 dicembre 2021.

[5] Cassazione, n. 8711/1993.

[6] Cassazione, n. 14689/2012 e n. 1899/1994.

[7] Cassazione, n. 12788/2004 e n. 8498/1999.

[8] In realtà, parlando di conciliazione in sede giudiziale, si ritiene più corretto l’articolo 420, c.p.c.. Anche in sede di Commissione di certificazione si possono praticare conciliazioni ex articolo 410, c.p.c..

[9] Appartiene a tale tipologia di diritti che consente la piena disponibilità del lavoratore, ad esempio, anche la possibilità di rinunciare a impugnare un licenziamento.

[10] Cassazione, n. 31204/2021, n. 3296/2016, n. 5882/2010.

[11] Ad esempio: retribuzioni con indennità comunque di carattere economico, impedendo, invece, la comparazione tra retribuzioni e trattamenti normativi (ad esempio, maggior periodo di comporto).

[12] Per un primo commento alla sentenza n. 27771/2023 cfr. G. Bulgarini d’Elci, “Cassazione: va garantito un salario minimo costituzionale”, in www.ilsole24ore.com del 3 ottobre 2023.

[13] Che richiama un principio già presente in Cassazione, n. 24449/2016.

[14] Con riferimento alle sentenze citate si permetta il rinvio a F. Natalini, “Al vaglio della Cassazione la retribuzione prevista dal Ccnl servizi fiduciari”, in Il Corriere delle paghe – Il Sole 24 ore, n. 11, novembre 2023.

[15] Sempre F. Natalini, op. ult. cit..

[16] Cfr. Cassazione, n. 25889/2008.

[17] Cfr. in senso conforme, anche TAR Lombardia n. 02046/2023.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

Laboratorio Contratti di lavoro