1 Marzo 2018

Requisiti di forma e procedure per il recesso dal contratto aziendale

di Luca Vannoni

La recente sentenza della Corte di Cassazione 2 febbraio 2018, n. 2600, affronta un tema non troppo battuto dalla giurisprudenza: il recesso dal contratto collettivo aziendale, in particolare quando è prevista dallo stesso accordo la possibilità di tacito rinnovo annuale, salva eventuale disdetta.

Nel caso di specie, un’azienda aveva introdotto un premio aziendale mediante accordi collettivi aziendali, caratterizzati da un meccanismo di tacito rinnovo annuale e con disdetta da manifestarsi entro una data determinata: per l’esercizio di quest’ultima facoltà, l’azienda aveva in primo luogo approfittato di un confronto sindacale e, soltanto a seguito di espressa richiesta dalla controparte sindacale, successivamente formalizzata per iscritto. La Corte di Cassazione ha stabilito, in assenza di norme specifiche sulla forma della contrattazione collettiva e in applicazione del principio della libertà di forma, che preclude eventuali interpretazioni analogiche da altri contratti o atti unilaterali in cui sono prescritte forme caratteristiche, che un accordo aziendale è valido anche in assenza di forma scritta e, conseguentemente, anche la disdetta non deve essere obbligatoriamente in forma scritta ai fini della sua validità.

Molte delle discipline e degli istituti del diritto del lavoro coinvolgono la contrattazione collettiva, anche aziendale, delegando regolamentazioni o prevedendo possibilità di deroghe, così da smussare eventuali ostacoli delle norme a carattere generale per la realizzazione di specifiche forme di organizzazione e di produzione aziendali.

A testimonianza di tale approccio legislativo, basti pensare al recente tema della detassazione dei premi di risultato, che, come noto, richiede la preventiva previsione da parte di un accordo aziendale (ovvero territoriale) del premio e dei relativi indici e parametri di computo, alla disciplina dei contratti di lavoro ex D.Lgs. 81/2015, dove, grazie alla previsione contenuta nell’articolo 51, ogni rinvio alla contrattazione collettiva comprende anche i contratti collettivi aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative ovvero dalle rappresentanze sindacali aziendali (Rsa o Rsu), alla materia dell’orario di lavoro, capillarmente percorsa da possibilità di deroghe da parte della contrattazione collettiva.

In assenza di specifiche disposizioni normative, alla materia della contrattazione collettiva risulta applicabile esclusivamente la disciplina generale sui contratti (articoli 1321 ss. cod. civ.). Si ricorda, infatti, che le disposizioni contenute negli articoli da 2067 a 2078 cod. civ. non risultano essere applicabili – con l’eccezione dell’articolo 2077 cod. civ. – in quanto relative ai contratti collettivi corporativi.

Pertanto, nell’ordinamento italiano i contratti collettivi sono definiti “di diritto comune”, sia per l’inattuazione del modello costituzionale di contrattazione collettiva erga omnes; sia per il necessario “ricorso agli schemi privatistici del contratto, del mandato e dalla rappresentanza, per spiegarne natura ed effetti”.

Tornando alla sentenza in commento, innanzitutto la Suprema Corte richiama i propri precedenti giurisprudenziali relativi al periodo post corporativo (che determina l’inapplicabilità della disciplina specifica, in questo caso contenuta nell’articolo 2072 cod. civ.), dove, dopo una prima fase in cui si è considerata necessaria la forma scritta ad substantiam, si è giunti alla pronuncia a SS.UU. n. 3318/1995 (confermata dalla successiva Cass. n. 11111/1997), in cui fu stabilito che, in assenza di norme specifiche sulla forma della contrattazione collettiva, in applicazione del principio della libertà di forma, che preclude eventuali interpretazioni analogiche da altri contratti o atti unilaterali in cui sono prescritte forme caratteristiche, un accordo aziendale è valido anche in assenza di forma scritta.

In altre parole, il principio di libertà della forma contrattuale, la regola generale contenuta nell’articolo 1325, n. 4, cod. civ., rende le norme che contengono obblighi di forme per determinati contratti, in quanto eccezioni, di stretta interpretazione.

Conseguentemente, lo stesso principio risulta applicabile anche in relazione agli atti risolutivi degli accordi aziendali, come il mutuo dissenso (articolo 1372, comma 1, cod. civ.) e il recesso unilaterale mediante disdetta (articolo 1373, comma 2, cod. civ.): il recesso è un negozio recettizio che, pur non richiedendo formule sacramentali, nondimeno resta assoggettato agli stessi vincoli formali eventualmente prescritti per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato.

Tornando al merito della decisione, la Cassazione inoltre esclude la configurabilità della forma ad probationem tantum, in quanto è necessaria la presenza di un’apposita disposizione, assente nel caso. Se vi fosse stata un’esplicita previsione nell’accordo aziendale, volto a ritenere valida la disdetta soltanto se esercitata in forma scritta – e non solo entro una determinata scadenza – allora la disdetta comunicata verbalmente non sarebbe stata considerata legittima. E la richiesta di successiva formalizzazione, come sopra specificato, non è in grado di far sorgere alcuna specifica obbligazione in capo all’azienda.

In conclusione, per evitare i costi e le lungaggini del contenzioso, o solo pretesti sindacali in contesti particolari, è comunque strettamente consigliabile prevedere negli stessi accordi meccanismi certi e formalizzati per recedere o dare disdetta, evitando così che strategie sindacali possano trovar materia per attaccare il venir meno di un trattamento premiale.

 

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