21 Dicembre 2016

La reperibilità del lavoratore tra giurisprudenza e regolamentazione collettiva

di Salvatore Luca Lucarelli

L’istituto della reperibilità può costituire un importante strumento di flessibilità della prestazione lavorativa in presenza di esigenze variabili e non programmabili, ma necessita di un corretto approccio, soprattutto in ordine ai limiti e ai vincoli imposti dalla regolamentazione collettiva e dalla giurisprudenza, comunitaria e nazionale, che sovente si sofferma sulla tutela dei diritti in tema di riposi giornalieri e orario di lavoro.

 

La reperibilità: proposte definitorie

Nelle valutazioni organizzative in ordine al regime orario aziendale, soprattutto se articolato in turni, emerge la rilevanza di un corretto ed efficiente approccio all’istituto della reperibilità, quale strumento volto a garantire la prestazione di lavoro in situazioni non prevedibili attraverso il richiamo in servizio del lavoratore assente. In particolare, si rileva, ai fini di una corretta gestione dell’istituto, l’importanza dell’impianto definitorio fornito dalle normative comunitarie e nazionali, tra cui il D.Lgs. 66/2003, adottato in attuazione delle prescrizioni della Direttiva 93/104/CE in materia di orario di lavoro, il quale all’articolo 1 stabilisce che per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni“.

Pertanto, già dalla definizione proposta, limitandosi al mero dato testuale, la sola disponibilità del lavoratore allo svolgimento della prestazione non sarebbe, di per sé, sufficiente a costituire orario di lavoro. In particolare, se nei rapporti di lavoro subordinato ex articolo 2094 cod. civ., la “disponibilità” è elemento essenziale che implica, in generale, “la possibilità del richiamo in servizio del lavoratore subordinato durante le pause, ancorché obbligatorie e predeterminate, quando il richiamo stesso sia necessitato da esigenze indilazionabili dell’organizzazione aziendale, salvo, in ogni caso, il diritto, oltre che al compenso per la prestazione eccezionale, al recupero del riposo”, la “reperibilità” risulta una specificazione della “disponibilità“, che trova inquadramento “come espressione del potere direttivo dell’imprenditore, pattiziamente in un vincolo concreto, che assoggetta il lavoratore all’obbligo di rendersi reperibile, fuori dell’orario di lavoro, in vista di una prestazione eventuale, fornendo al datore di lavoro notizie atte a rintracciarlo, in qualsiasi momento”.

In linea generale, quindi, l’istituto della reperibilità si configura come “una prestazione strumentale ed accessoria, qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro, consistente nell’obbligo del lavoratore di porsi in condizioni di essere prontamente rintracciato, in determinati archi temporali, in vista di un’eventuale successiva prestazione, cui corrisponde l’obbligo del datore di lavoro di riconoscere uno specifico compenso aggiuntivo alla normale retribuzione”.

Pertanto, dalla giurisprudenza di legittimità emerge come la reperibilità viene considerata qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro e, per tale ragione, non risulta equivalente a un’effettiva prestazione lavorativa, ma comporta comunque, in linea generale, il diritto a un trattamento economico aggiuntivo.

Salvo un telegrafico riferimento normativo contenuto nell’articolo 7, D.Lgs. 66/2003, come modificato dall’articolo 41, comma 4, L. 133/2008, il servizio di reperibilità trova pressocché esclusiva regolamentazione nella contrattazione collettiva, la quale, in estrema sintesi, regola l’istituto stabilendo il diritto all’indennità di reperibilità nonché la possibilità di riposo compensativo. Pertanto l’istituto risulta disciplinato dalla contrattazione collettiva attraverso la previsione di limiti e di modalità attuative e, qualora la disciplina collettiva applicata nulla preveda al riguardo, risulta comunque possibile l’introduzione del regime di reperibilità mediante patto individuale tra il singolo dipendente e il datore di lavoro.

Tra le previsioni della regolamentazione collettiva, ad esempio, il Ccnl per i dipendenti da aziende del terziario di mercato, distribuzione e servizi stabilisce che: “l’obbligo a carico del lavoratore di rendersi reperibile anche al di fuori dell’orario di lavoro non può essere equiparato ad una vera e propria prestazione lavorativa bensì costituisce un mero obbligo accessorio rispetto allo svolgimento delle sue normali mansioni. Pertanto tale obbligo, se giustifica la previsione di un apposito emolumento retributivo che compensi il disagio che ne deriva al lavoratore, non può essere considerato alla stregua della prestazione di lavoro straordinario e non dà quindi diritto alla relativa maggiorazione”.

Mentre il Ccnl per i dipendenti dalle industrie metalmeccaniche private e dell’installazione di impianti chiarisce che: “il servizio di reperibilità sopperisce ad esigenze non prevedibili allo scopo di assicurare il ripristino e la continuità dei servizi, la funzionalità o la sicurezza degli impianti” e che “i turni di reperibilità sono definiti secondo una normale programmazione plurimensile, in tali organizzazioni i lavoratori – che non possono rifiutarsi, salvo giustificati motivi – sono inseriti con preavviso scritto di 7 giorni, salvo eventuali sostituzioni dovute a situazioni soggettive dei lavoratori coinvolti nei turni. Le ore di reperibilità non sono considerate ai fini del computo dell’orario legale e contrattuale”.

In riferimento ai settori dove è comune il ricorso a sistemi di turnazione e di “presenza passiva” la contrattazione collettiva ha previsto con maggiore dettaglio talune fattispecie che possono presentarsi, collegando inoltre l’istituto della reperibilità con l’effettuazione da parte del dipendente di presenze “in attesa” dove la prestazione di lavoro può risultare solo eventuale. Ad esempio, il Ccnl per i dipendenti dagli istituti operanti nel campo sociale, per attività educative, di assistenza e beneficenza, nonché di culto o religione dipendenti dell’autorità ecclesiastica (Agidae), stabilisce una distinzione tra disponibilità e reperibilità, nonché un’indennità per presenza notturna, in riferimento alla quale l’articolo 47 prevede che: “alle figure educative operanti in strutture socio-assistenziali per minori, al fine di garantire la continuità di presenza educante, al momento dell’assunzione può essere richiesta, previo accordo sottoscritto dalle parti, la presenza notturna per non più di 3 notti per settimana, assicurando un ambiente adeguato per il riposo. Per ogni notte di presenza sarà riconosciuta una indennità forfetaria lorda di € 25,00. Le ore di presenza notturna non saranno conteggiate come orario di lavoro. La richiesta dei gestori come l’adesione della lavoratrice e del lavoratore sono revocabili con due mesi di preavviso. L’istituto potrà anche assumere apposito personale con mansione di prestazione esclusivamente d’attesa notturna, inquadrato nella categoria B2 con retribuzione pari al 60% della paga conglobata di riferimento. La prestazione potrà essere compresa in una fascia oraria dalle ore 20.00 alle ore 8.00. A detto personale sarà garantito il riposo settimanale previsto dalla normativa”.

 

Le suggestioni della giurisprudenza comunitaria e nazionale

In assenza di chiare disposizioni normative, oltre che alla regolamentazione collettiva, risulta opportuno considerare i riferimenti giurisprudenziali, tra i quali si rilevano anche quelli delle sentenze della Corte di Giustizia UE, che hanno fornito elementi chiarificatori, ma soventemente determinano anche l’insorgenza di ambiguità interpretative. In particolare, talune sentenze, come la n. 151/2003, hanno operato una distinzione tra reperibilità esterna e reperibilità interna, collegando quest’ultima allo svolgimento del servizio di reperibilità direttamente sul luogo di lavoro. Con tale sentenza la Corte di Giustizia, in ordine al caso di un medico tedesco che prestava il turno di reperibilità all’interno di un istituto ospedaliero, ha affermato che non si ritiene corretto considerare “riposo” il tempo trascorso dal lavoratore in un luogo prescelto dal datore di lavoro, in quanto solo nell’ipotesi di “reperibilità esterna” il lavoratore sarebbe libero di gestire il proprio tempo libero, seppure con qualche vincolo derivante dalla necessità di rientrare al lavoro in caso di chiamata.

In particolare, la Corte ha posto l’accento sul dato della presenza fisica, sul luogo di lavoro indicato dal datore, richiesta al fine di poter fornire immediatamente la prestazione richiesta. In presenza di tale condizione, il periodo di reperibilità può integrare la nozione di orario di lavoro, posto che sarebbe impossibile per il lavoratore scegliere il luogo in cui trascorrere i periodi di attesa.

Il lavoratore chiamato a svolgere il turno di reperibilità sul luogo di lavoro, infatti, viene sottoposto a obblighi più onerosi rispetto al lavoratore in servizio di reperibilità esterna, che presuppone soltanto che quest’ultimo possa essere costantemente raggiunto in caso di necessità, senza imporre la sua presenza sul luogo di lavoro.

Non sempre i principi affermati dalla Corte di Giustizia trovano una diretta possibilità di applicazione nelle eterogenee organizzazioni di lavoro, le quali sovente rendono complicata un’univoca dicotomia e separazione tra “tempo di lavoro” e “tempo libero”.

A conferma della difficoltà di operare una tale netta distinzione, si rilevano sentenze di merito come quella del 21 aprile 2015 del Tribunale di Milano, il quale è stato chiamato a esaminare la domanda svolta da un lavoratore con mansioni di guardiano di una diga, che, richiamando i principi affermati dalla Corte di Giustizia, aveva chiesto di accertare che il servizio di reperibilità prestato in favore del datore di lavoro fosse considerato orario di lavoro.

Il Tribunale di Milano ha rilevato che, in linea generale, nella nozione di lavoro effettivo si possono ricomprendere anche periodi che, pur non essendo di attività in senso stretto, non consentano al dipendente un effettivo stacco dall’impegno lavorativo. Tanto premesso, il Tribunale ha correttamente rilevato la mancanza di una definizione per tutte quelle ipotesi, intermedie tra “riposi” e “attività svolta in orario di lavoro“, che non risultino ragionevolmente sussumibili per esclusione nell’una o nell’altra nozione. Pertanto, esaminate le modalità concrete osservate dal guardiano della diga nello svolgimento del servizio di reperibilità, il Tribunale di Milano ha accertato che tale reperibilità non può essere assimilata all’effettiva esecuzione della prestazione, che resta meramente eventuale e molto marginale, posto che il lavoratore non è sottoposto ad alcuna obbligazione suscettibile di impedirgli la gestione del proprio tempo e di realizzare i propri interessi, salvo riconoscersi allo stesso un limitato disagio nel riposo.

 

Reperibilità e diritto al riposo

Posto che il servizio di reperibilità si configura come una prestazione accessoria, strumentale e qualitativamente diversa dal lavoro effettivo e che può essere svolto, come sovente accade, in giorni festivi o di sospensione programmata, risulta opportuno coordinare l’utilizzo di tale istituto con il diritto al godimento del riposo. A tal proposito, emerge un consolidato orientamento giurisprudenziale volto a evidenziare la differente natura giuridica del servizio di reperibilità rispetto al lavoro effettivo. In particolare, con la sentenza di Cassazione n. 19936/2015, la Corte ha stabilito che tale diversità ontologica determina la non configurabilità di un danno in re ipsa nel caso di mancata fruizione del riposo compensativo previsto dalla disciplina regolamentare. Infatti, per la Corte, l’indennità di reperibilità contrattualmente prevista risulta essere destinata a remunerare la disponibilità del lavoratore e il parziale sacrificio del godimento dei periodi di riposo ed è pertanto distinta e autonoma rispetto al compenso del dipendente che svolga un’effettiva prestazione lavorativa durante il periodo di reperibilità.

Come emerge dalla sentenza richiamata, quindi, “il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, dal giudice nonché il diritto ad un giorno di riposo compensativo, che non è riconducibile, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, all’art. 36 Cost., ma la cui mancata concessione è idonea ad integrare un’ipotesi di danno non patrimoniale (per usura psico-fisica) da fatto illecito o da inadempimento contrattuale che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della specifica deduzione e della prova”.

Pertanto, i periodi in reperibilità non possono essere assimilabili ai periodi di mancato riposo e l’eventuale danno non patrimoniale per usura psico-fisica derivante dalla mancata fruizione del riposo compensativo può essere risarcito solo in caso di pregiudizio concreto, il cui onere probatorio grava sul lavoratore.

A fronte di talune incertezze è opportuno, in assenza di altri riferimenti, considerare la produzione normativa che detta i principi in ordine all’orario di lavoro, come la Direttiva 93/104/CE, la quale persegue l’obiettivo di garantire una migliore tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, facendo godere questi ultimi di periodi minimi di riposo, in particolare giornaliero e settimanale, e di periodi di pausa adeguati.

In tale ottica, un servizio di reperibilità svolto sul luogo di lavoro non appare di per sé pregiudizievole in ordine alla sicurezza e alla salute del lavoratore e, per tale ragione, è necessario valutare, caso per caso, le modalità con le quali si svolge il servizio di reperibilità interna, al fine di verificare se sia preclusa effettivamente al lavoratore la possibilità di fruire di un adeguato periodo di riposo e, quindi, debba essere eventualmente considerato come orario di lavoro, poiché non sembra coerente con le finalità della Direttiva assimilare la mera disponibilità del lavoratore al tempo di lavoro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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