27 Giugno 2024

Il recesso del dirigente, ovvero come gestire una libertà costretta

di Riccardo Girotto Scarica in PDF

Amo leggere i manuali di diritto del lavoro. Dovrei ammettere che sono obbligato a farlo, vista la professione che svolgo, eppure capita di farsi travolgere dalla quotidianità dell’adempimento, favorendo letture di aggiornamento a scapito del ritorno alle fonti istitutive, come trattate dall’esegesi più pura.

Ritengo necessario, ogni tanto, tornare ai manuali. Un aspetto che ritrovo con simpatia, ridondante, immutato, è la trattazione del licenziamento del dirigente, topograficamente assorbita dalle sezioni legate al licenziamento ad nutum.

Ricordo il me giovane studente, parte del nutrito gruppo dei dupondii[1], affascinato dalla libera recedibilità del dirigente, una figura prestigiosa in azienda, ma allo stesso tempo fragile al momento dell’esodo.

Più tardi, svolgendo la professione, la quotidiana trattazione della figura del dirigente e le criticità, anche solo economiche, di gestione del suo recesso, mi hanno più volte riportato alla mente quel “ad nutum” al quale ho affidato sempre meno credibilità.

Eppure, anche oggi, tornando ai manuali, posso agevolmente riscontrare pagine dedicate alla libera recedibilità del dirigente, magari con qualche riferimento mitigante; tant’è, pare che l’evolversi del diritto positivo e il macete della magistratura, non abbiano scomposto le voci più autorevoli del diritto del lavoro. Non credo si tratti di vezzo accademico, più semplicemente la tutela di un licenziamento come quello del dirigente è frutto di una stratificazione normativo-contrattuale, che negli anni ha privato il rapporto del vincolo che legava l’imprenditore al suo alter ego: il vincolo fiduciario. Sempre meno alter ego, sempre meno fiducia, sempre più dipendenza, sempre più subordinazione.

All’incipit del riferimento normativo principe, l’articolo 2118, cod. civ., “…ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto a tempo indeterminato…” sono seguite forme di contrazione di questo diritto che, in verità, in prima battuta hanno sorvolato il rapporto dirigenziale. Non così i contratti collettivi, che hanno tentato di supplire all’assenza di tutele, che in realtà era perfettamente aderente al principio dell’ad nutum, introducendo tanto le indennità supplementari, quanto l’obbligo di motivazione, ben consci però della dell’inesprimibile efficacia erga omnes.

Ecco che a tale ultimo ostacolo arriva a supplire una giurisprudenza preoccupata dell’effetto sociale producibile dai dirigenti disoccupati, tanto da coniare il simpatico requisito di “giustificatezza”[2] che deve assistere il recesso oggettivo del dirigente, istituzionalizzato l’indennità contrattuale come risarcimento dovuto.

Non da meno il riflesso soggettivo della questione; anche in questo caso è la giurisprudenza a ritenere estendibili le tutele procedurali previste per il recesso disciplinare del dipendente, considerando pienamente applicabile l’articolo 7, L. 300/1970 anche ai dirigenti[3]. Nulla quaestio, invece, sull’estensione della tutela nel caso di una forma recesso che sconta un onere della prova comunque rigoroso, quello discriminatorio[4].

Ma non finisce qui. Sì perché il dirigente potrebbe non essere tale. Avete capito bene, viene infatti coniato il termine di pseudo-dirigente, sempre in seno ai Tribunali, ca va sans dire. Questa determinante valutazione prodromica a ogni licenziamento obbliga l’imprenditore prima, il giudice poi, a un’indagine circa la reale portata dell’autonomia del dirigente, così da assimilare il soggetto privato della stessa, quindi pienamente vincolato alle caratterizzazioni della subordinazione, a ogni comune dipendente, con le tutele conseguenti e probabile esito nefasto per il recesso, magari esercitato ad nutum (perché così dice il manuale). Ne deriva che il recesso di un dirigente potrebbe essere pedissequamente trattato come il recesso del dipendente qualunque, in virtù della reale modalità di svolgimento del rapporto di lavoro, del resto nel diritto del lavoro, si sa, a guidare è la sostanza.

Arriva poi l’Europa che, stupendosi di come il licenziamento collettivo in Italia non investa degli obblighi di consultazione i dirigenti, regala un ottimo spunto per permettere al Legislatore di ergersi dalla propria tribuna e realizzare un impianto normativo ad hoc[5], che non si limita affatto a recepire l’assist unionale, bensì introduce una nuova forma di risarcimento per i licenziamenti collettivi illegittimi che coinvolgono i dirigenti[6].

Mi stava tornando la voglia di aprire un manuale, devo riprendere lo studio dei 7 anni Leopardiani e riprendermi da questa raffica di articolate tutele al recesso dirigenziale. Eppure, aperto il manuale, il recesso ad nutum è sempre lì, che mi attende al varco.

Sono confuso, ormai rintronato, credo di potermi aggrappare al manuale, ma arriva il colpo di grazia: La Cassazione investe la Corte Costituzionale della questione di legittimità circa il divieto di licenziamento circoscritto al periodo pandemico[7], ritenendo che l’esclusione dei dirigenti possa violare il principio di uguaglianza[8]. Credo di non avere grandi dubbi circa l’esito della questione.

Un colpo di grazia senza possibilità di appello, senza discussione, senza possibile ripensamento, per la sola volontà di Legislatore, parti sociali e magistratura. Ad nutum appunto.

 

[1] A.D. Manfredini “La volontà oltre la morte. Profili di diritto ereditario”, Giappichelli, Torino 1991.

[2] Tra le altre può tornare utile Cassazione n. 6230/2008.

[3] Cassazione n. 7880/2007.

[4] Articolo 3, L. 108/1990 e articolo 18, comma 1, L. 300/1970.

[5] Direttiva 98/59, disattesa, Corte di Giustizia UE 596/12 del 13 febbraio 2014.

[6] L. 161/2014.

[7] Articolo 46, D.L. 18/2020.

[8] Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge.

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