Il recesso ante tempus nel contratto a tempo determinato
di Roberto Lucarini Scarica in PDFConosciamo tutti piuttosto bene, giacché molto utilizzato nella pratica, la principale caratteristica che contraddistingue il contratto di lavoro subordinato a termine; la sua durata, infatti, viene predeterminata in sede di stipula, in via certa e puntuale ovvero, in talune casistiche, per relationem (ad esempio nel contratto per sostituzione di un lavoratore assente, laddove si mette in correlazione la scadenza del contratto stesso con la data di rientro del sostituito). Una forma contrattuale quindi che si smarca, pur con una sua specifica e puntuale regolamentazione ex D.Lgs. n. 81/2015, da quella che è ritenuta essere, nel nostro ordinamento, la forma contrattuale ordinaria nel lavoro di tipo subordinato: il contratto a tempo indeterminato.
Ai fini dell’argomento qui trattato risulta pertanto necessario precisare e distinguere, visti i due distinti tipi contrattuali, circa la possibilità di recesso di parte dal contratto di lavoro; recesso che, ricordo, assume la natura di atto unilaterale di tipo recettizio.
In caso di contratto a tempo indeterminato, stante l’inesistenza di una data preordinata per la cessazione degli effetti dell’atto stipulato, viene naturalmente sempre concessa la possibilità di un recesso di parte, del datore o del lavoratore, andando semmai la normativa a regolamentare i limiti di tale istituto, a maggior tutela della parte debole del rapporto stesso; il lavoratore. Ricordo, in massima sintesi, come il recesso datoriale legittimo sia operabile con preavviso ma solo ove assistito da un giustificato motivo, di tipo oggettivo o soggettivo, ovvero anche senza preavviso se sussistente una giusta causa. Per quanto concerne il recesso del lavoratore, vi è invece la semplice accortezza, da parte del dipendente stesso, di preavvisare il datore dalla volontà di far cessare gli effetti del contratto di lavoro, tenendo conto delle previsioni, in merito ai tempi, espresse dal CCNL applicato.
Tutto cambia, invece, allorché ci si trovi di fronte ad un contratto a tempo determinato, proprio perché le parti, nella sottoscrizione dell’atto, si sono reciprocamente impegnate tra loro per un certo periodo. Il nostro ordinamento, infatti, non prevede la possibilità di un recesso di parte anticipato, ossia ante tempus, rispetto alla data del termine contrattuale; rectius, ne prevede la fattibilità, ma solo nel caso di sussistenza di una giusta causa (ex art. 2119 c.c.).
Dato tutto questo, per sintetizzare in senso operativo, possono quindi verificarsi due distinte situazioni di recesso anticipato, da parte del datore o del lavoratore: 1. Con sussistenza di giusta causa, quindi con efficacia del tutto legittima; 2. Con insussistenza di giusta causa, da cui potrà derivare, da parte di chi il recesso lo subisce, una richiesta di risarcimento del danno.
Si nota subito come, per il caso di recesso ante tempus non assistito da giusta causa, non vi siano distinzioni tra datore e lavoratore in relazione all’illegittimità dell’atto; ciò che cambia, invece, sono le possibili conseguenze. Abbiamo detto che, in tale casistica, la parte receduta (che subisce quindi il recesso) può attivarsi verso la recedente per una richiesta di risarcimento del danno; in detta situazione, tuttavia, si è assistito nel tempo ad una differente sistemazione giurisprudenziale riguardo la prova e la quantificazione del danno subito, che diverge per i casi di richiesta da parte del lavoratore ovvero del datore di lavoro.
In linea generale la quantificazione di un simile danno dovrebbe sottostare ad una valutazione equitativa da parte del Giudice. Se ciò è vero, lo è anche il fatto che la giurisprudenza ha nel tempo provveduto a delineare una pratica valutativa, per il caso del danno richiesto dal lavoratore per recesso datoriale ante tempus, del tutto ragionevole: in sostanza il danno viene ordinariamente quantificato nell’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dalla data del recesso illegittimo fino alla scadenza del termine contrattualmente previsto.
Diverso il discorso nel caso di recesso anticipato del lavoratore non assistito da giusta causa. In tale situazione, lo abbiamo visto, il datore di lavoro potrà agire in giudizio con richiesta di risarcimento del danno, ma sarà onerato, anzitutto, dal provare la sussistenza del danno stesso; cosa questa che non viene richiesta al lavoratore in quanto la sussistenza del danno, per il suo caso, è implicita nella perdita delle retribuzioni.
Il datore dovrà quindi dimostrare, cosa non sempre semplice, l’effettività di un danno patito (ad esempio costi di formazione del lavoratore, oppure, per casi di alta specializzazione, un danno causato ad un cliente del datore dal recesso illegittimo del lavoratore), oltre ad andare a quantificare, con prove persuasive, l’ammontare del danno patito.
Nella pratica, quindi, si notano due cose. Riguardo l’effettiva richiesta di risarcimento del danno, la stessa si riscontra spesso attivata dal lavoratore contro il recesso illegittimo del datore; al contrario le casistiche sono molto minori. In tema di onerosità circa le prove riguardo la sussistenza e la quantificazione del danno, la posizione di un lavoratore, che ne richieda la liquidazione, è decisamente più agevole rispetto a quella di un datore di lavoro che abbia subito il recesso.
Meglio quindi, al momento della stipula di un contratto a termine, valutare con attenzione l’effettiva necessità temporale del lavoro richiesto, non dimenticando che, per i casi di maggior dubbio, esiste pur sempre l’istituto della proroga del termine contrattuale, con tutte le limitazioni che l’attuale normativa pone.
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