Rappresentatività e responsabilità: il diritto sindacale che travolge il diritto del lavoro
di Riccardo GirottoUn tempo, non troppo lontano, si discuteva sull’ipotesi che accordi sottoscritti da organizzazioni sindacali e datoriali potessero estendere i propri effetti ai soggetti non iscritti.
Se da parte datoriale l’attacco violento all’articolo 39, Costituzione, aveva imposto da tempo profili di chiara soggezione ad accordi sottoscritti in assenza di mandato, dall’interpretazione giurisprudenziale dell’articolo 36, Costituzione[1], al crescente impatto degli aspetti contrattuali nel Durc, per contro, la libertà concessa al contraente debole continuava a rappresentare un paradigma inviolabile.
Eppure, negli ultimi 2 anni, complice un andamento fortemente imprevedibile dei fenomeni occupazionali, il Legislatore ha spinto veemente verso la pratica delle relazioni sindacali: da un lato, conferendo addirittura forza di legge ad accordi sottoscritti da precipue sigle, senza peraltro svelarne i requisiti di investitura[2], dall’altro, inserendo in ogni novella procedure sindacali a presidio dei terreni orfani di confronto obbligatorio.
La tendenza normativa è diventata, quindi, quella di imporre il passaggio concertativo ogniqualvolta l’azienda operi coinvolgendo i lavoratori, sancendo di fatto la diluizione dei tempi esecutivi connessi a ogni valutazione strategica. Alle note procedure consolidate, di per sé già sufficienti a imbrigliare i più, nel corso del periodo emergenziale sono state affiancate:
- la previsione dell’articolo 1, comma 2, lettera l), D.L. 23/2020 (D.L. Liquidità), che impone alle aziende che hanno goduto della garanzia Sace la gestione “dei livelli occupazionali attraverso accordi sindacali” lungo tutto il periodo utile al rientro. Tale previsione appare talmente generica da offrire uno scenario applicativo tutt’altro che compiuto;
- la nuova procedura sindacale supplettiva prevista, in caso di composizione negoziata, dall’articolo 4, comma 8, D.L 118/2021: “Ove non siano previste, dalla legge o dai contratti collettivi di cui all’articolo 2, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 25, diverse procedure di informazione e consultazione, se nel corso della composizione negoziata sono assunte rilevanti determinazioni che incidono sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori, anche solo per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro o le modalità di svolgimento delle prestazioni, il datore di lavoro che occupa complessivamente più di quindici dipendenti”. Trattasi di procedura che assorbe praticamente ogni valutazione in ambito lavoristico, peraltro, come ogni passaggio sindacale, a parere di chi scrive si palesa inconciliabile con l’obbligo di riservatezza richiesto dall’articolo 4, comma 7, D.L 118/2021;
- la procedura introdotta dall’articolo 1, comma 224, L. 234/2021, come anticamera dei licenziamenti collettivi programmati dalle aziende che, nell’anno precedente, abbiano occupato almeno 250 lavoratori “Al fine di garantire la salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo, il datore di lavoro in possesso dei requisiti dimensionali di cui al comma 225 che intenda procedere alla chiusura di una sede, di uno stabilimento, di una filiale, o di un ufficio o reparto autonomo situato nel territorio nazionale, con cessazione definitiva della relativa attività e con licenziamento di un numero di lavoratori non inferiore a 50”; superfluo sottolineare come detta previsione contribuisca a ingessare le procedure di esodo, e forse il fine è proprio questo, rischiando di fungere da deterrente agli investimenti nel nostro Paese.
Di fronte a questa totalizzazione del confronto sindacale obbligatorio dai limiti impalpabili, emerge un Legislatore che rinuncia alla definizione di norme specifiche a presidio delle diverse casistiche, virando per l’intervento aperto delle parti sociali, quale diga verso lo sfruttamento e, contemporaneamente, chiaro attrito alla fluida applicazione delle strategie aziendali. Un coacervo di infiltrazioni nella debolissima guaina che riveste l’articolo 41, Costituzione.
Ne esce sconfitto l’organo giudicante che, a fronte delle diverse decisioni aziendali, su istanza della parte debole del rapporto sinallagmatico, in passato si dedicava a sancire la violazione o meno di norme del diritto del lavoro. Ora è il diritto sindacale a dominare le dinamiche aziendali e il lavoratore è proprio lì dentro che deve ricercare la tutela della propria posizione. A conferma di questo new deal delle relazioni sindacali, l’articolo 1, comma 227, Legge di Bilancio 2022: “licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi intimati in mancanza della comunicazione o prima dello scadere del termine di novanta giorni sono nulli”. Nessuna valutazione di merito da parte dell’organo giudicante è richiesta.
Questo tipo affidamento cieco alle parti sociali si traduce in una rappresentatività vincolata; aziende e lavoratori, pur in assenza di adesione implicita o espressamente dissenzienti, incontreranno serie difficoltà nel sottrarsi alle determinazioni delle parti sociali, grazie a un sistema che, in un solo colpo, scansa Legislatore e giudice e conferisce valore costitutivo alle intese delegate dalla norma di volta in volta applicata.
Un nuovo ruolo che va a definirsi a rimorchio di un percorso iniziato già nel 2011, quando una nota sentenza, figlia di un periodo molto caldo per la magistratura del lavoro in merito al vituperato articolo 39, Costituzione, ci informava che: “pur nella persistente inattuazione della sua seconda parte, abbia nei fatti trovato un suo radicamento, che ha consentito, nel corso del tempo, di attribuire al Contratto Collettivo la posizione di reale fonte del diritto”[1].
Ma alla luce di tutto questo potere che investe le parti sociali, è legittimo chiedersi se i soggetti protagonisti saranno pronti per guidare con continuità la vita di ogni azienda. Una prima risposta interessante arriva dal documento a firma Federmeccanica, Cgil Cisl e Uil sulle politiche industriali nel settore automotive in periodo di transizione ecologica, dove le parti sociali si sono trasformate da controparti a parte unica, con una condotta più “chiusa a riccio” che disponibile “a libro aperto”. Forse un’occasione sprecata o, forse, un’anticipazione dei tempi che verranno, certo non possiamo dire “buona la prima”.
Con l’investimento imperituro delle parti sociali si è andati ben oltre la legge sulla rappresentatività, resta da capire se in questo caso il potere logora chi ce l’ha.
[1] A fondare tale convinzione vi sono 2 principi: il principio di effettività e il principio dell’autonomia dell’ordinamento sindacale rispetto all’ordinamento statale, si veda E. Peruzzi, Contratto collettivo, fonti del diritto extra ordinem e principio di effettività: (ri)tornando sul caso FIAT, in “Bollettino Adapt” n 4/2022.
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