5 Novembre 2015

Prosecuzione dell’attività lavorativa fino a 70 anni e articolo 18

di Marco Frisoni

 

Il D.L. n.201/11 ha introdotto una complessa normativa in materia previdenziale all’interno della quale, all’art.24, vi è una disposizione, relativa alla prosecuzione dell’attività di lavoro, che, a fronte di una ratio intuibile (integrata dall’esigenza di stabilizzare il sistema pensionistico, prevedendo meccanismi di differimento di accesso al trattamento di quiescenza ed incentivi al trattenimento in servizio ai lavoratori), ha suscitato, sin dall’origine, un dibattito particolarmente acceso e con esiti disomogenei fra i commentatori, fomentando altresì un contenzioso giudiziario con esiti alterni.

In effetti, l’art.24, co.4 del Decreto stabilisce che, per i lavoratori e le lavoratrici la cui pensione è liquidata a carico dell’Assicurazione Generale Obbligatoria e delle forme esclusive e sostitutive delle medesime, la pensione di vecchiaia si può conseguire all’età in cui operano i relativi requisiti minimi. Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato, restando i limiti ordinamentali dei rispettivi settori di appartenenza, dall’operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita; per i lavoratori interessati, nell’ambito del predetto limite massimo di flessibilità, continuano a operare le tutele radicate nell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori (in luogo dell’eventuale recesso ad nutum esercitabile da soggetto datoriale).

Orbene, la norma in parola, confusamente redatta, variamente interpretata dai giudici del lavoro, sembrava consentire unilateralmente ai prestatori di lavoro di proseguire la propria attività lavorativa sino all’età di settant’anni (incrementata della speranza di vita), con garanzia del mantenimento della tutela reale (si noti che, per come scritta, la disposizione appariva estendere l’art.18 stesso a prescindere dal dimensionamento occupazionale del datore di lavoro), al fine di diluire temporalmente l’ingresso in pensione e, quindi, con minori uscite per la collettività e con continuità sul piano dei versamenti contributivi atti ad alimentare ulteriormente la cassa previdenziale di riferimento.

Al di là delle disputate vicende processuali, una siffatta decisione, da parte del Legislatore, manifestava l’impossibilità di garantire un adeguato ricambio generazionale; in altre parole, da una parte si auspicava un ingresso dei giovani nel mondo del lavoro (con diminuzione del drammatico tasso di disoccupazione nelle relative fasce di età), dall’altro versante, in antitesi, si incentivava il lavoratore “anziano” a rimanere in servizio, creando una situazione, nei fatti, paradossale (in un mercato del lavoro in affanno, in cui l’incremento netto occupazionale è marginale, solo il ricambio fra lavoratori uscenti e nuovi ingressi consente nuove assunzioni) e, quindi, ben differente dall’idea di staffetta generazionale che, anche in questi ultimi giorni, in vista degli interventi previsti della prossima Legge di Stabilità, appassiona l’opinione pubblica.

In considerazione della varietà delle decisioni nel tempo assunte dai vari Tribunali del Lavoro, è stata chiamata a pronunciarsi la Suprema Corte di Cassazione, a sezioni unite, che, con sentenza 4 settembre 2015, n.17589, potrebbero avere posto fine ai dubbi che hanno circondato l’art.24, co.4, D.L. n.201/11, ancorché la fattispecie si radichi nell’alveo Inpgi e, quindi, in ordine alla previdenza peculiare dei giornalisti.

In effetti, a conclusione di un percorso logico-giuridico non sempre convincente e, per taluni aspetti, forse più dedicato a concepire gli effetti della norma in un percorso di compatibilità con l’attuale tessuto economico italiano, i giudici di legittimità affermano che l’art.24, co.4, è ben lungi dall’attribuire al lavoratore il diritto potestativo di proseguire unilateralmente il rapporto di lavoro sino ai limiti ordinamentali, finalizzato tutt’al più alla creazione delle condizioni previdenziali che costituiscano incentivo alla prosecuzione del contratto di lavoro fino a settant’anni di età.

Di talché, si ricava il principio che, ai fini del perfezionamento della norma, è indispensabile il consenso del datore di lavoro e che le tutele contro il licenziamento rimangono quelle ordinariamente applicabili in funzione delle varie casistiche che si possono rappresentare (tutela reale, obbligatoria, libera recedibilità, etc.).

In un certo senso, in vista dell’imminente Legge di Stabilità per l’anno 2016, ecco un autorevole via libera alla c.d. staffetta generazionale.