20 Giugno 2018

Proporzionalità del licenziamento disciplinare per giusta causa e contrattazione collettiva

di Luciana D'Andretta

Con ordinanza n. 6606/2018, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha rimarcato, in linea con il pregresso consolidato orientamento, come sia compito dell’organo giudicante, a prescindere da un’espressa censura del lavoratore in primo grado, valutare la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto alla condotta addebitata e alle previsioni della contrattazione collettiva. A tale proposito, i casi enumerati nel Ccnl hanno valore meramente esemplificativo, giustificandosi il licenziamento disciplinare ogniqualvolta si sia verificata una causa che abbia irrimediabilmente compromesso il vincolo fiduciario, non consentendo più la prosecuzione del rapporto di lavoro.

 

Il caso oggetto della pronuncia

La vicenda oggetto di decisione da parte della Suprema Corte riguarda un dipendente di Trenitalia Spa, in servizio di scorta ai treni in partenza, licenziato per giusta causa dalla datrice di lavoro, per avere agito in spregio alla regolamentazione vigente e alle norme disciplinari previste dalla contrattazione collettiva.

In particolare, secondo l’addebito imputatogli, il lavoratore, invece di attendere alle sue attività di assistenza a clientela e di controlleria, contravvenendo alle disposizioni in essere, si era trattenuto in cabina guida, dalla quale, in mancanza dei presupposti per emettere un tale comando, aveva ordinato la partenza al macchinista in turno di condotta. In aggiunta, in 2 dei 3 episodi contestati, egli non aveva ottemperato all’ordine di farsi sostituire. Il suo comportamento aveva turbato la regolarità della circolazione e provocato disservizio alla clientela, con conseguente danno all’immagine aziendale, essendo Trenitalia stata costretta a sopprimere parzialmente il treno.

Avverso il licenziamento il lavoratore aveva proposto ricorso, prima, avanti al giudice di prime cure e, poi, in appello. In entrambi i gradi l’impugnativa era stata respinta.

In particolare, l’organo giudicante osservava che, secondo le disposizioni normative e contrattuali, il capotreno, nei treni affidati a un solo agente di condotta, doveva occuparsi in via esclusiva del servizio di controllo biglietti e dell’assistenza alla clientela all’interno del convoglio. Solo su richiesta del macchinista, in caso di guasti o anomalie del sottosistema di bordo, il dipendente poteva prendere posto in cabina come secondo agente. Inoltre, esclusivamente per i locomotori che fossero sprovvisti di un sistema di chiusura delle porte azionabile dai vagoni (ma non era questo il caso dei convogli su cui viaggiava il lavoratore), era possibile la chiusura con ordine al macchinista.

Essendo stata provata la violazione di tale disciplina da parte del dipendente, il licenziamento risultava pienamente legittimo.

La Corte d’Appello precisava, inoltre, che la mancanza di proporzionalità eccepita dal lavoratore rispetto all’articolo 59, Ccnl Attività ferroviarie (contenente le condotte sanzionabili con il licenziamento senza preavviso) era stata invocata tardivamente per la prima volta in appello e, sulla base di tale assunto, ometteva di pronunciarsi in merito a tale censura sollevata dal lavoratore.

A questo punto, il dipendente proponeva ricorso in Cassazione sulla base di 4 diversi motivi. Tra questi egli lamentava: “la violazione e falsa interpretazione dell’art. 2106 c.c. e dell’art. 416 c.p.c. in ordine alla presunta tardività della doglianza con cui si evidenziava la sproporzione tra infrazione e sanzione disciplinare espulsiva, rilevandosi che la questione sia qualificabile come mera difesa non soggetta a limiti temporali quanto a relativa deduzione”.

A suo parere, dunque, essendo compito del giudice esaminare la proporzionalità della sanzione comminata, a prescindere da un’esplicita richiesta in tal senso fin dal primo grado – egli non sarebbe incorso in alcuna decadenza. La Corte d’Appello avrebbe dovuto prendere posizione circa la congruità del recesso rispetto alle condotte contestate, valutando se, alla luce della vicenda complessiva, dei precedenti disciplinari, del ruolo affidatogli, del profilo soggettivo, il vincolo fiduciario fosse stato effettivamente e definitivamente compromesso.

La Corte di Cassazione, rigettati tutti gli altri motivi, ha ritenuto accoglibile tale doglianza, sostenendo quanto segue: “fondato deve ritenersi, invece, il terzo motivo, sia in relazione alla condivisibilità in diritto dell’assunto secondo cui i rilievi sulla sproporzione tra infrazione e sanzione disciplinare espulsiva sono da qualificare come mere difese, liberamente deducibili in quanto non incidenti nel senso di una diversa qualificazione ai fini della causa petendi e come tali non soggetti a limiti temporali, sia in relazione alla sostanza della critica rivolta alla sentenza impugnata quanto alla omessa disamina della proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione contestata”.

Tanto premesso, con ordinanza n. 6606/2018, la Suprema Corte si è così pronunciata: “con riferimento al caso esaminato, essendo stata omessa tale valutazione, pur sollecitata nei motivi sottoposti al giudice del gravame, la sentenza merita di essere cassata in parte qua, e la causa va rimessa al giudice del rinvio designato in dispositivo – che provvederà anche a determinare le spese del presente giudizio di legittimità – per nuovo esame alla luce dei principi sopra richiamati”.

 

Le motivazioni della Corte di Cassazione

Con l’ordinanza in parola, la Suprema Corte ripercorre in modo lineare principi consolidati in molteplici precedenti sentenze circa la proporzionalità del licenziamento rispetto alla violazione contestata. La Cassazione, più precisamente, statuisce che:

  1. l’eccezione concernente l’incongruità della sanzione costituisce deduzione difensiva sollevabile, per la prima volta, anche in sede di gravame;
  2. il licenziamento integra provvedimento proporzionato qualora il comportamento del lavoratore abbia leso irrimediabilmente il rapporto fiduciario, a prescindere da un’esplicita indicazione della condotta integrata tra quelle espressamente punibili con sanzione espulsiva nel Ccnl applicato.

Quanto al primo punto, la Corte, riportandosi al contenuto di una propria anteriore pronuncia (Cassazione n. 15950/2004), evidenzia che l’allegazione, da parte del lavoratore, di circostanze atte a dimostrare la carenza del potere disciplinare integra una mera argomentazione difensiva, non una diversa causa petendi e, come tale, può essere sviluppata anche solo nel giudizio di appello, al fine di sollecitare il giudice alla verifica delle condizioni di legittimità del licenziamento per giusta causa.

In altri termini, allorquando il lavoratore impugni un provvedimento disciplinare, escludendo la sussistenza di una sua responsabilità così grave da giustificarlo, il giudice è tenuto a procedere all’accertamento della complessa fattispecie sotto il profilo della proporzionalità della sanzione, tenendo a mente che:

  • grava sul datore di lavoro l’onere di provare gli elementi costitutivi dell’addebito, dai quali sia possibile inferire la sussistenza o meno della responsabilità disciplinare del lavoratore e il suo grado, a livello oggettivo e soggettivo;
  • spetta all’organo giudicante – a prescindere da un’esplicita richiesta del lavoratore – valutare la proporzionalità e congruità dei suddetti elementi rispetto alla sanzione espulsiva;
  • tale apprezzamento del giudice ha valore di fatto e, come tale, se adeguatamente motivato, non è sindacabile in sede di legittimità.

Sotto il secondo profilo, si legge sia nella sentenza de qua sia nell’ordinanza in esame come il lavoratore abbia ripetutamente sottolineato il carattere contraddittorio delle norme disciplinanti i doveri del capotreno e la tenuità del suo comportamento. Tanto, secondo la Cassazione, induce a ritenere ragionevolmente che l’ex dipendente, proprio sostenendo di non meritare una sanzione tanto severa, avrebbe indirettamente lamentato la sproporzione del provvedimento disciplinare irrogato rispetto alla condotta posta in essere.

Aggiunge, inoltre, il Supremo Consesso, ricordando il proprio unanime orientamento, che le ipotesi di giusta causa enumerate nell’articolo 59, Ccnl, applicato nella fattispecie sono riportate a titolo di esempio e non includono tutti i casi di condotta tali da integrare il recesso senza preavviso.

A tale proposito, preme osservare come il suddetto articolo reciti espressamente che “si incorre nella sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso per ogni mancanza che lede irreparabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda”; elenchi poi 11 tipologie di condotte, tutte dal contenuto generico; e in chiusura precisi, comunque, che il licenziamento in tronco opera “in genere per fatti o atti dolosi, commessi in occasione del rapporto di lavoro anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”.

Questi, per punti, sono i dettami enunciati dalla Corte di Cassazione.

La giusta causa di licenziamento è nozione legale e il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo.

Da un lato, dunque, può sussistere una giusta causa di licenziamento, anche in assenza di una specifica indicazione nel Ccnl, ogniqualvolta vi sia un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore, contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile, tale da fare venire meno il rapporto fiduciario.

Dall’altro, il giudice può escludere che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato, ovvero laddove lo stesso sia di esiguità tale da essere in aperto contrasto a quanto previsto dagli articoli 2106 e 2119 cod. civ., nonché dagli articoli 1 e 3, L. 604/1966.

In breve, è sempre consentito il vaglio di compatibilità con l’inderogabile principio di proporzionalità sancito dall’articolo 2106 cod. civ., nonché con il modello legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo di cui all’articolo 2119 cod. civ. e agli articoli 1 e 3, L. 604/1966. Alla stregua di tali disposizioni, l’inosservanza degli obblighi di diligenza e fedeltà dà luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione (articolo 2016 cod. civ.), e il datore di lavoro può recedere per giusta causa, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro (articolo 1, L. 604/1966 e articolo 2119 cod. civ.), ovvero per giustificato motivo soggettivo, con preavviso, in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (articolo 1, L. 604/1966).

Ciò posto, “il catalogo contrattuale” dei casi elencati come integranti giusta causa, o giustificato motivo soggettivo, può essere esteso (qualora si verifichi una causa che menoma in radice e senza rimedio il rapporto di fiducia), ovvero ridotto (se tra le esemplificazioni contrattuali ve ne sono alcune non rispondenti ai succitati articoli di legge). In tale secondo caso, la clausola del Ccnl è nulla per violazione di norma imperativa di legge.

Diversamente, sempre secondo l’ordinanza in parola, condotte pur astrattamente ed eventualmente suscettibili di integrare giusta causa o giustificato motivo soggettivo ai sensi di legge non possono rientrare nel relativo novero, se l’autonomia collettiva le ha espressamente escluse, prevedendo per esse sanzioni meramente conservative. Opera, infatti, il generale principio secondo cui la normativa contrattuale può derogare alla regola superiore gerarchica di legge, se e solo se si tratta di una modifica in melius.

Alla luce di quanto sopra, la Cassazione ha, quindi rinviato, l’esame della proporzionalità della sanzione espulsiva alla Corte d’Appello, reputando fondato, per i profili evidenziati, il motivo di censura sollevato dal lavoratore.

 

Uno sguardo d’insieme: la giurisprudenza e i molteplici interventi normativi con riguardo alle fattispecie tipizzate dalla contrattazione collettiva

Il giudizio di adeguatezza della sanzione assume profili particolarmente delicati, allorché l’illecito disciplinare sia stato tipizzato dalla contrattazione collettiva. In questo caso, come evidenziato nei paragrafi che precedono, si pone il problema se, e fino a che punto, il sindacato del giudice ne sia vincolato.

La contrattazione collettiva costituisce lo strumento privilegiato attraverso il quale, tramite l’individuazione delle specifiche condotte sanzionate, è possibile qualificare l’esatto adempimento della prestazione lavorativa e del vincolo di fiducia sotteso al rapporto di lavoro. Tuttavia, tali comportamenti non possano essere considerati tassativi, e quindi vincolanti per il giudice, il quale ha il compito di decidere sulla base dei principi generali che concorrono a qualificare la nozione normativa di giusta causa, anche facendo ricorso a valori etici, ovvero a quei canoni invalsi nella coscienza sociale, che considerano sanzionabili anche i comportamenti connotati da particolare gravità in relazione ai fondamentali doveri di civiltà e correttezza.

Di recente, ad esempio, la Cassazione ha ritenuto che fosse passibile di licenziamento l’avere proferito espressioni ingiuriose nei confronti della dirigenza aziendale, sebbene il Ccnl di categoria elencasse come giusta causa di recesso datoriale solo la condotta insubordinata caratterizzata da aggressione fisica.

Secondo tale pronuncia, le ipotesi di giusta causa di licenziamento contenute nei contratti collettivi, al contrario di quanto vale per le sanzioni disciplinari conservative, hanno valenza meramente esemplificativa e non escludono, perciò, la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme di comune vivere civile, se ciò comunque ha fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

Peraltro, essendo concretamente impossibile che i codici disciplinari possano prevedere una tipizzazione specifica e particolareggiata di tutte le fattispecie punibili, è frequente l’uso di clausole di chiusura, ovvero il richiamo di fattispecie piuttosto generiche, spesso neppure accompagnate dalla necessaria esemplificazione, ovvero ancora il ricorso a classificazioni di comportamenti diversificati soltanto in base alla loro gravità (si pensi, ad esempio, al caso della insubordinazione del dipendente, in relazione alla quale molti contratti collettivi prevedono la sanzione del licenziamento quando la stessa si presenti grave).

E, ancora, in giurisprudenza è stato affermato che neppure l’esistenza della clausola di un contratto collettivo che preveda un certo fatto quale giusta causa di licenziamento esime il giudice dalla valutazione di proporzionalità fra il provvedimento espulsivo adottato dal datore di lavoro e la gravità del fatto addebitato all’incolpato.

A titolo esemplificativo, si riporta la vicenda di un lavoratore licenziato per avere installato il programma per scaricare musica sul computer aziendale. La Cassazione ha ritenuto che tale condotta non meritasse di per sé, e tenuto conto delle circostanze del caso concreto, il licenziamento, evidenziando come, in presenza di clausole della contrattazione collettiva che prevedano genericamente tra i casi in cui è possibile adottare la sanzione espulsiva la violazione delle norme di policy aziendale, il giudice sia tenuto ad accertare in concreto la reale gravità delle infrazioni addebitate, nonché il rapporto di proporzionalità tra esse e la sanzione irrogata.

Si ricorda, infine, che numerosi sono stati gli interventi normativi volti a regolare le conseguenze sanzionatorie derivanti dalla violazione delle norme della contrattazione collettiva.

Dapprima, il Legislatore ha previsto l’articolo 30, L. 183/2010, prescrivendo che “nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l’assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione”.

La norma si è limitata a confermare, in linea con la giurisprudenza, che le disposizioni contrattuali si configurano quali standard sociali di riferimento che il giudice deve tenere in considerazione per riempire concretamente di significato le clausole generali di giusta causa e giustificato motivo, potendosene tuttavia discostare, ove lo ritenga opportuno (e dandone ovviamente congrua motivazione).

Un limite rilevante all’attività ermeneutica del giudice, anche in punto di proporzionalità del licenziamento, è stato invece posto dalla successiva L. 92/2012 (Legge Fornero), laddove, nel testo novellato dell’articolo 18, comma 4, St. Lav., sono stati previsti l’annullamento del licenziamento e l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata (i.e. con conseguenze risarcitorie contenute nel limite delle 12 mensilità), nel caso in cui il giudice accerti che il fatto, pur sussistente, rientri tra le condotte che i codici disciplinari puniscono con la sola sanzione conservativa.

Infine, con riguardo ai licenziamenti irrogati ai lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, l’articolo 3, D.Lgs. 23/2015 (oltre ad avere ridotto l’entità dell’indennità risarcitoria spettante al lavoratore, allorché risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo o giusta causa) ha anche ristretto ulteriormente l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria, stabilendo espressamente che il giudice possa annullare il licenziamento solo quando sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, con l’ulteriore precisazione che resta estranea a tale giudizio ogni valutazione circa la proporzionalità del provvedimento espulsivo. Dalla valutazione del giudice circa la possibile applicazione della tutela reale è, inoltre, scomparso qualsiasi riferimento alle fattispecie disciplinari tipizzate dalla contrattazione collettiva.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.

 

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