18 Ottobre 2017

Prestazione di lavoro resa all’estero: quale modalità scegliere?

di Michele Donati

Nel corso dell’articolo andremo ad esaminare quali modalità operative, a seconda della fattispecie concreta, possono meglio descrivere e normare situazioni connesse a esigenze aziendali di vedere resa all’estero la prestazione di taluni lavoratori. In particolare andremo a esaminare implicazioni di partenza, e annessi riflessi, circa il mantenimento (o meno) del legame diretto con i lavoratori interessati.

 

Legislazione del lavoro e prestazioni rese in altri Stati: origine e cause di un profilo normativo complesso

Instaurare rapporti commerciali e/o di lavoro con realtà situate al di fuori dei confini nazionali, rappresenta spesso per un’azienda l’ingresso in un sistema normativo più vasto e complesso.

La complessità nasce principalmente da due fattori:

  1. la tipologia di relazioni con realtà straniere può manifestarsi in forme molteplici e, spesso, piccole differenze fattuali possono riverberarsi in importanti distinzioni sotto il profilo normativo;
  2. normare rapporti che toccano e si manifestano in più Stati, implica il coordinamento delle varie fonti di diritto nazionale, e soprattutto un sistema sovraordinato che riesca a tutelare i diritti delle parti in causa, senza intaccare la sovranità normativa dei Paesi stessi coinvolti.

Bastano probabilmente questi elementi per dare una prima idea di quanto possa essere complesso inquadrare la corretta disciplina da applicare ai rapporti di lavoro che incarnano situazioni di internazionalità.

Prima di entrare nel vivo della disamina, quindi, è utile analizzare le implicazioni legate ai 2 punti sopra esposti, in quanto, come si vedrà in maniera più diffusa nel corso della trattazione, costituiscono e danno la stura a importanti implicazioni in merito all’argomento in questione.

Relativamente al primo aspetto, si può prendere come punto di partenza quanto già può configurarsi entro i confini nazionali, per estenderlo e ampliarlo oltre essi: ogniqualvolta vengono a crearsi presupposti (strategie commerciali, nuovi rapporti con altre realtà imprenditoriali, acquisizione appalti, solo per citarne alcuni) che implicano per i prestatori una variazione della sede ordinaria (e originaria) di lavoro, e l’annesso coinvolgimento di altre entità imprenditoriali, sorge la necessità di definire in maniera nitida e inequivocabile il profilo normativo di riferimento.

Tale esigenza trova sovente difficoltà importanti, che promanano dalla complessità stessa della fattispecie che concretamente viene a manifestarsi.

Quanto appena detto trova per esempio indiretta conferma nel dato che il nostro ordinamento prevede molteplici istituti per andare a descrivere, sotto il profilo normativo, situazioni che di fatto sono attigue; si pensi, ad esempio, a trasferta, distacco e appalto, ai quali spesso si ricorre per fattispecie non troppo dissimili tra loro. Le differenze chiaramente ci sono, specie per ciò che concerne la sfera squisitamente normativa, ma accade ad esempio che esse si attenuino da un punto di vista sostanziale.

Queste considerazioni, che sono di carattere generale, assumono una rilevanza e uno spessore ancora maggiori nel momento in cui ci si pone in un’ottica sovranazionale di rapporto di lavoro; in un quadro come questo, infatti, entrano in gioco fattori quali la distanza tra l’originario datore di lavoro (con annessi riflessi sulla possibilità di esercitare il potere direttivo), la durata e la strutturazione delle prestazioni da rendere in uno Stato diverso da quello di appartenenza e, quindi, le conseguenze legate all’interazione con un sistema giuridico differente, che finiscono per amplificare le considerazioni fatte in precedenza.

Per quanto riguarda, invece, il secondo aspetto, esso rappresenta, potremmo dire, la diretta conseguenza di quanto appena esaminato, calato in un contesto di internazionalità.

Nel momento in cui, a vario titolo, la prestazione lavorativa dello stesso lavoratore va a interessare più Stati, si pone la questione di trovare un coordinamento tra i rispettivi sistemi giuridici.

Ovviamente tale esigenza è tanto maggiore quanto più tangibile risulta essere l’internazionalità del rapporto: laddove il legame con l’originario datore di lavoro risulta permanere più forte e nitido, non si registreranno sostanziali modifiche alla normativa da applicare (che poi è quella dello Stato di appartenenza del datore di lavoro); al contrario, laddove la variazione geografica risulta più strutturata, possono aumentare le deroghe all’impianto normativo di riferimento.

Deroghe, poi, che altro non sono se non la manifestazione dell’esigenza, naturale, di trovare (come accennato in precedenza) una normativa di riferimento che sia sovraordinata e che permetta di descrivere in maniera veritiera, e non lesiva delle parti coinvolte, quelle fattispecie che incarnano appunto elementi di internazionalità.

Come si vedrà più diffusamente in seguito, andando ad ipotizzare fattispecie specifiche e concrete, quello che ha fatto il Legislatore internazionale altro non è stato che una sapiente opera di coordinamento: allorquando vengono a concretizzarsi elementi di internazionalità nella gestione di un rapporto di lavoro, diventa fondamentale trovare non tanto nuove regole, ma un sistema che consenta di rispettare congiuntamente i principi di quelle già esistenti.

Naturalmente resta imprescindibile la valutazione dell’istituto normativo che deve essere previsto a monte quale più aderente alla concreta tipologia di rapporto che va a configurarsi.

Da quest’ultima e fondamentale considerazione partiamo per analizzare le possibili soluzioni che ha a disposizione un’azienda che intende (o si trova nella condizione di dover) far svolgere al di fuori dei confini nazionali le prestazioni di alcuni dei propri lavoratori. Tale analisi non può che partire da un dato oggettivo: sono 2 le potenziali scelte che il datore di lavoro può fare a monte in queste ipotesi: mantenere il legame originario con il lavoratore ovvero (in una logica ad esempio di gruppo) cessare il rapporto in maniera funzionale all’instaurazione di un nuovo e distinto rapporto con un’azienda estera.

 

Il principio di territorialità (lex loci laboris)

Per completare il quadro introduttivo, e poter quindi approfondire la trattazione, è bene chiudere il cerchio introducendo un concetto assoluto e generale, salve ovviamente le eccezioni di singole fattispecie: il principio del lex loci laboris, secondo il quale la legislazione di riferimento da applicare ad ogni singolo rapporto di lavoro è quella prevista (tanto per la sfera previdenziale, tanto per quella contrattuale) dallo Stato ove la prestazione stessa viene resa.

Come anticipato appena in precedenza, le deroghe previste dal Legislatore sovranazionale in materia di principio del lex loci laboris disegnano indirettamente il quadro normativo previsto in ipotesi di rapporti di lavoro caratterizzati da elementi transnazionali.

 

Permanenza del rapporto di lavoro in capo all’originario datore di lavoro

Iniziamo ora ad approfondire le singole fattispecie, che saranno distinte in primis in relazione alla permanenza o meno del rapporto di lavoro in capo al datore originario di lavoro e, quindi, in merito ai riflessi contributivi e contrattuali previsti in ipotesi di rapporto di lavoro transnazionale.

Come anticipato in precedenza, è evidente che la scelta del miglior “vestito giuridico” da fare al rapporto di lavoro “transnazionale” spetta al datore di lavoro (nella figura verosimilmente del consulente che lo assiste in materia), in relazione alle caratteristiche che esso andrà ad assumere.

Andando a passare in rassegna gli istituti ai quali si può far ricorso in caso di variazione della sede di lavoro e contestuale permanenza in capo all’originario datore di lavoro del legame con il lavoratore, si può partire, in una scala di crescente strutturazione della “distanza” geografica e giuridica tra le parti, dalla trasferta.

Analizziamo l’istituto in oggetto, in quanto è sicuramente il più immediato allorquando si parla di differimento geografico della prestazione; tale caratteristica a volte ha probabilmente portato a un utilizzo che, se non può essere definito abusato, sicuramente potrebbe essere rubricato come eccessivamente esteso e “benevolo” in relazione alla durata dell’invio all’estero.

Non è in realtà prevista una definizione precisa e cristallina di trasferta, in relazione alla distinzione con altre forme di invio del lavoratore; proviamo quindi a tracciarne i confini e i contenuti in base alle varie disposizioni presenti nel nostro ordinamento.

La trasferta si configura come lo strumento giuridico utilizzato per quelle prestazioni di durata estremamente breve e legata per lo più a singole lavorazioni.

In caso di trasferta il rapporto di lavoro non subisce di fatto alcuna mutazione ovvero influenza dal carattere di transnazionalità, se non per ciò che riguarda la corresponsione della relativa indennità; nessun riflesso ovviamente per ciò che riguarda la sfera contrattuale e previdenziale, così come, naturalmente, sotto il profilo disciplinare e gerarchico.

Nel momento in cui l’invio all’estero di lavoratori, pur registrandosi la permanenza del legame tra lavoratore e originario datore di lavoro, si fa più strutturato, si ricorre al distacco.

In merito all’istituto in questione vanno fatte importanti precisazioni.

La prima è di ordine generale: il concetto di distacco previsto dal Legislatore italiano non è coincidente con quanto previsto dal Legislatore comunitario, in particolare, e più in generale transnazionale.

Nel nostro ordinamento, infatti, il distacco si colloca come uno degli strumenti per normare e descrivere giuridicamente l’invio presso un luogo (non solo geografico, ma anche imprenditoriale) differente rispetto a quello ove ordinariamente svolge la propria prestazione.

Tale posizionamento è direttamente discendente dal fatto che il nostro Legislatore ha inteso giusto prevedere e distinguere forme differenti di invio di personale presso altra azienda, ovvero, più in generale, ha scelto di tenere separate le possibili e molteplici forme attraverso le quali un lavoratore può effettuare la propria prestazione lavorativa presso un datore diverso da quello con il quale intercorre l’originario rapporto e che, quindi, verosimilmente esercita il potere direttivo (o comunque ne detiene una parte considerevole).

Tale distinzione non trova un’identica trasposizione in ambito transnazionale, ove (specie per ciò che riguarda il distacco comunitario) è conferito un significato diverso e decisamente più ampio all’istituto.

Altra specificazione importante, di natura contenutistica, è legata al distacco comunitario, istituto che è stato profondamente normato con la Direttiva 2014/67/UE, recepita nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 136/2016.

Per ciò che riguarda le fonti appena citate (Direttiva 2014/67/UE e D.Lgs. 136/2016), in questa sede è sufficiente ricordare che si tratta dell’intervento (da parte del Legislatore comunitario, e quindi a cascata da quelli dei Paesi membri, tra cui ovviamente l’Italia), che ha introdotto importanti misure normative (“correttive” rispetto alla precedente disciplina sancita dalla Direttiva 96/71/CE), volte a evitare utilizzi distorti dell’istituto del distacco comunitario, e annessi effetti di dumping sociale.

La presenza di un distacco si configura come un primo motivo di eccezione al principio del lex loci laboris, specie in merito alla sfera fiscale: non scatta l’obbligazione contributiva nel Paese dove la prestazione ha effettivo e temporaneo svolgimento in caso di lavoratore distaccato in uno Stato differente rispetto a quello ove ha sede il datore di lavoro nei confronti del quale intercorre l’originario rapporto.

Il fondamento di tale impostazione è rinvenibile nella volontà del Legislatore transnazionale di evitare una frammentazione dei versamenti contributivi per lavoratori distaccati durante la propria carriera professionale (quindi senza che ciò avvenga peraltro per loro volontà) e annesse e conseguenti potenziali criticità a fini pensionistici.

Vediamo ora come opera il meccanismo previdenziale appena citato:

  • in ambito comunitario (e più in generale nei Paesi dell’area denominata Spazio economico europeo) l’impianto sopra esposto si realizza attraverso il rilascio dei formulari A1, documenti portabili il cui possesso da parte del lavoratore indica il diritto a restare iscritti presso l’Ente previdenziale del proprio Paese di appartenenza (ovvero di quello presso cui si risulta iscritti per via del rapporto di lavoro in essere con la distaccante). Tale modello, relativamente ad aziende italiane, può essere richiesto alla sede Inps competente per territorio, e per un periodo complessivo di 24 mesi continuativi, fatte salve le proroghe che possono essere concesse dall’Istituto;
  • in ambito extracomunitario si deve distinguere tra Paesi nei confronti dei quali l’Italia ha accordi bilaterali di sicurezza sociale e Stati ove tali negozi non sono presenti. Gli accordi citati si sostanziano in atti che hanno la funzione di evitare pregiudizi di natura previdenziale (derivanti dalla frammentazione dei versamenti contributivi in periodi differenti) a quei lavoratori distaccati, ovvero che, più in generale, vantano prestazioni lavorative prestate in più Paesi. In ipotesi di distacco in Stati nei confronti dei quali intercorrono i suddetti accordi, in buona sostanza si applica una disciplina analoga a quella che in ambito comunitario è prevista in automatico (e si concretizza con il rilascio dei formulari A1); in questo caso non è l’appartenenza alla Comunità Europea, ma la presenza di accordi previsti all’uopo, a giustificare la deroga del principio del lex loci laboris. In realtà, se la deroga prevista in ambito comunitario è di fatto totale e abbraccia la totalità delle assicurazioni sociali, in ipotesi di accordi bilaterali di sicurezza sociale accade sovente che essi contengano solo alcune (e non tutte) le coperture previste dal nostro ordinamento previdenziale. In Paesi nei confronti dei quali non sono previsti i suddetti accordi, ovvero in quelli ove presenti ma relativamente alle assicurazioni sociali non coperte, non è possibile derogare al principio di territorialità, per cui l’impresa che distacca deve dotarsi di un’ulteriore posizione presso il Paese di destinazione, e contestualmente versare la contribuzione dovuta in Italia, utilizzando apposite tabelle retributive annualmente previste tramite D.M.. A tale risultato si è giunti dopo il 1987, quando la L. 398 (recepimento del D.L. 314/1987) ha dato attuazione a un vuoto normativo che era stato ritenuto incostituzionale.

 

Variazione datoriale: modifica del datore di lavoro originario e nuovo rapporto con il soggetto straniero

Nelle ipotesi in cui il legame con l’originario datore di lavoro si affievolisca in maniera sostanziale, e a ciò fa da contraltare un uguale e contrario inserimento nella struttura aziendale dell’azienda (straniera) ove la prestazione ha effettivamente manifestazione, si delinea l’esigenza di variare il legame datoriale. Ciò può avvenire sia attraverso il trasferimento da un datore all’altro sia mediante la cessazione di un rapporto e la costituzione di uno nuovo e distinto. In entrambi i casi il lavoratore risulta, relativamente al nuovo rapporto, formalmente assunto presso un’azienda di un differente Stato, ed è soggetto quindi alla normativa in esso vigente e prevista.

Sotto il profilo previdenziale, quindi, non è prevista alcuna deroga al principio di territorialità e l’azienda è tenuta al versamento dei contributi presso il proprio Ente.

Quali strumenti normativi ha il lavoratore per ridurre gli eventuali pregiudizi derivanti dalla frammentazione dei versamenti in più periodi e più Stati?

In ambito comunitario opera l’istituto della totalizzazione, strumento mediante il quale, al raggiungimento (presso lo stato di appartenenza) dei requisiti pensionistici, vengono raggruppati tutti i versamenti effettuati nei singoli Stati membri (indipendentemente dal raggiungimento in ciascuno di essi del periodo minimo di contribuzione) ai fini della determinazione del trattamento spettante; l’Ente previdenziale dello Stato di appartenenza si accollerà l’intero onere, per poi rivalersi su ciascuno degli Istituti degli altri Paesi coinvolti, in misura proporzionale proprio ai versamenti stessi.

Analogo sistema, laddove previsto, viene utilizzato in presenza di accordi bilaterali di sicurezza sociale. Tale meccanismo non opera invece in ipotesi di periodi di lavoro presso Stati extracomunitari non convenzionati; in tali ipotesi una delle strade percorribili è il versamento di una contribuzione volontaria da parte dei lavoratori medesimi.

 

Il contenuto di un contratto di lavoro caratterizzato da “transnazionalità”: quali requisiti?

Da ultimo è bene esaminare un aspetto delicato e, al tempo stesso, estremamente complesso in materia di rapporti caratterizzati da elementi di internazionalità, e cioè la stesura del contratto di lavoro. La delicatezza e la complessità sopra richiamate derivano dalla contestuale confluenza di più aspetti nella fase di determinazione del contenuto contrattuale.

Il principio di coordinamento richiamato all’inizio dell’articolo trova qui piena manifestazione; da un lato deve essere garantito il rispetto di diritti imprescindibili delle parti contrattuali (tutela delle garanzie spettanti ai lavoratori e contestualmente alla libertà imprenditoriale del datore di lavoro), dall’altro deve essere realizzato il principio di coordinamento più volte richiamato, tenendo comunque presente che il Legislatore sovranazionale non più operare un’inerenza troppo penetrante nei sistemi giuridici dei singoli Stati coinvolti.

I testi di riferimento in materia sono il Trattato di Roma (ratificato con la L. 975/1984) e il Regolamento CE 593/2008, che ha novellato l’appena citata fonte per ciò che riguarda l’ambito Comunitario (riprendendone e affinandone comunque i principi).

Prima di esaminare quelli che sono i criteri stabiliti dalla normativa vigente in materia, è bene definire il concetto stesso di internazionalità: con questo termine si vanno a descrivere tutte quelle situazioni nelle quali l’esecuzione di un rapporto di lavoro coinvolga, quali centri di interesse economico, uno o più Stati, rispetto a quello ove la prestazione lavorativa ha concreta manifestazione. Non solo quindi il distacco, ma anzi (soprattutto?) quelle fattispecie nelle quali, anche in presenza di trasferimento, o addirittura di distinto rapporto di lavoro, l’appartenenza datoriale a un gruppo aziendale, coniugata con la nazionalità del lavoratore (e quindi l’annessa “storia” professionale), fanno sì che il carattere appena definito trovi manifestazione. In queste ipotesi, è previsto un iter multilivello, che consente di stabilire quali siano le regole e quali i paletti da rispettare.

Il principio di partenza è, strano a dirsi, la libertà contrattuale delle parti, che possono quindi stabilire autonomamente il contenuto del contratto stesso.

Tale principio viene via via temperato da alcuni “paletti”.

In primo luogo interviene la normativa vigente nel Paese ove la prestazione ha effettivamente e concretamente realizzazione.

Subentrano poi 2 istituti centrali e che consentono appieno di realizzare la tutela transnazionale delle parti, andando ad ampliare il quadro normativo con talune disposizioni cruciali e centrali anche per i sistemi normativi degli altri Paesi coinvolti nel rapporto. Si tratta, in particolare, delle Norme di applicazione necessaria (Nan) e delle Norme di ordine pubblico.

In relazione alle prime, il Regolamento CE 593/2008 ha fornito la seguente definizione: “Le Norme di Applicazione Necessaria sono disposizioni il cui rispetto è ritenuto cruciale da un paese, per la salvaguardia dei suoi interessi pubblici, quali la sua organizzazione politica, sociale ed economica, al punto da esigerne l’applicazione, qualunque sia la Legge applicabile al contratto”.

In maniera speculare e complementare, quasi a voler colmare le eventuali e residue lacune normative, si pongono le Norme di ordine pubblico.

In questo senso, nel corso degli anni la giurisprudenza ha evidenziato come il concetto di ordine pubblico, calato in questo contesto, non deve avere una portata oltremodo ampia, per non finire di ingessare l’attività negoziale e la libertà contrattuale delle parti.

Nel corso degli anni, dottrina e giurisprudenza hanno tentato di dare una fisionomia concreta alle Norme di ordine pubblico vincolanti in materia di contratti di lavoro transnazionali ed è stato delineato un quadro che appare ricomprendere:

  • tutela della maternità;
  • godimento delle ferie e rispetto dei riposi dal lavoro;
  • divieti di discriminazione uomo/donna;
  • libertà e dignità dei lavoratori;
  • tutela della professionalità;
  • tutele in fattispecie connesse al trasferimento d’azienda.

Tra gli istituti che sembrano non aver ricevuto le medesime tutele spiccano:

  • collocamento del riposo settimanale;
  • modalità di corresponsione della retribuzione;
  • maturazione del trattamento di fine rapporto e delle mensilità aggiuntive.

Argomento assai delicato appare quello connesso alle tutele previste in ipotesi di licenziamento; pur non figurando tra gli istituti sopra elencati, si invita a un’approfondita analisi in fase di stesura di contratti caratterizzati da tratti di internazionalità.

Specie in ipotesi di trasferimento, ovvero di assunzione diretta, in azienda straniera ma rientrante in un gruppo più ampio, si consiglia di mantenere inalterate le tutele previste dal nostro ordinamento, anche alla luce di una pronuncia della Suprema Corte (la n. 15822/2002), che in materia ha tracciato un solco importante.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.

 

Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia:

Strumenti giuridici per l’invio e la gestione dei lavoratori all’estero