20 Maggio 2020

Piattaforme digitali: per la Cassazione francese i tassisti Uber (e i riders) sono lavoratori subordinati

di Nicola Ghirardi

Anche in Francia, negli ultimi anni, il dibattitto attorno alle piattaforme digitali si è fatto sempre più vivace, con l’aumento dei soggetti che prestano attività lavorativa grazie alle applicazioni informatiche fornite dalle grandi piattaforme che operano nei vari settori del mercato, da quello del trasporto di persone a quello delle consegne a domicilio di cibo e altri beni. Con l’aumento dell’uso delle piattaforme è aumentato anche il contenzioso, relativo in particolare alla natura subordinata del rapporto di lavoro (formalmente inquadrato come autonomo). La Cassazione francese, con due recenti sentenze, ha ritenuto che i tassisti di Uber e di riders della piattaforma “Take eat easy” (in molto simile a “Foodora”) debbano essere qualificati come dipendenti a tutti gli effetti di Legge.

 

Premessa

Il fenomeno delle piattaforme digitali ha, da anni, apportato sostanziose novità al mercato del lavoro più o meno in tutti i Paesi europei e non. L’uso sempre più generalizzato delle c.d. App dei telefoni cellulari per richiedere servizi quali la consegna a domicilio di merce varia e del trasporto di persone (taxi) ha avuto per conseguenza l’aumento esponenziale di lavoratori impiegati in questi settori, secondo le prassi e le modalità previste dalle piattaforme stesse.

Formalmente inquadrati quali collaboratori autonomi, i soggetti che prestano servizio in questo ambito non sempre hanno ritenuto corretto il suddetto inquadramento, ritenendo che, nei fatti, il rapporto implichi la sottoposizione al potere direttivo e sanzionatorio del datore di lavoro (rappresentato dalla la piattaforma stessa, in sostanza).

Qui di seguito vediamo come ha reagito la giurisprudenza francese in merito alla questione, con 2 sentenze molto recenti della Suprema Corte transalpina, che sono destinate, nel bene o nel male, a restare nella storia del diritto del lavoro francese.

 

La Legge El-Khomri del 2016

Nel 2016, la L. 2016 – 1088 (Loi El – Khomri), di riforma del mercato del lavoro francese, ha introdotto alcuni articoli nel Code du travail francese a proposito dei lavoratori che prestavano servizio attraverso le piattaforme elettroniche (articoli 7341-1/7341-6): si tratta di previsioni che si applicano esclusivamente ai lavoratori autonomi, e che prevedono, in particolare, l’obbligo per la piattaforma di farsi carico di un’assicurazione in caso di infortunio, il diritto alla formazione per il lavoratore (sempre a carico della piattaforma) e il diritto di costituire delle rappresentanze sindacali. Previsioni importanti, ma tutto sommato poca cosa se comparate alle tutele previste per i lavoratori subordinati. Le riforma del 2016, in questo senso, nulla ha detto in relazione allo status giuridico dei lavoratori che prestano servizio per le piattaforme elettroniche, lasciando quindi il quadro normativo inalterato sul punto.

Come vedremo meglio oltre, anche in Francia la giurisprudenza ha sempre affermato che il lavoratore subordinato si distingue da quello autonomo in quanto è soggetto alle direttive e agli ordini del datore di lavoro, che ha anche il potere di sanzionarlo quando commetta delle mancanze.

La tipologia contrattuale scelta dalle parti per regolamentare il proprio rapporto è irrilevante ai fini della qualificazione giuridica, rilevando esclusivamente la maniera con cui il rapporto di lavoro si sia svolto in concreto. L’unica previsione che, come vedremo, fa espresso riferimento ad alcune categorie di lavoratori che si presumono autonomi (l’articolo 1882-6, Code du travail), fa salva l’ipotesi che il rapporto si sia svolto secondo i canoni della subordinazione.

 

La sentenza “Uber” del 2020

La sentenza in commento (Cass. Soc. n. 2020 – 374 del 4 marzo 2020) è la seconda decisione emessa dalla Corte di Cassazione francese per quanto riguarda i lavoratori delle piattaforme (la prima riguardava il caso “Take Eat Easy”, che vedremo oltre)[1].

Come noto, la società Uber BV, che offre un servizio di trasporto di persone su vettura in molti Stati, utilizza una piattaforma digitale e un’applicazione che stabilisce contatti tra clienti e guidatori, qualificando questi ultimi come appaltatori indipendenti di mezzi di trasporto.

A metà del 2016 un soggetto si registrava sulla piattaforma Uber, sottoscrivendo un apposito formulario, noleggiando un’autovettura da una società partner di Uber per effettuare il servizio di taxi.

Dopo che l’account di un conducente veniva definitivamente chiuso da Uber BV per non aver risposto a un certo numero di corse consecutive, l’autista faceva ricorso a un Tribunale chiedendo l’accertamento della natura subordinata del rapporto intercorso con la società proprietaria della piattaforma e la conseguente illegittimità del licenziamento intimato (costituito, a suo vedere, nella chiusura definitiva dell’account del conduttore).

La Corte d’Appello di Parigi, con la sentenza del 19 gennaio 2019, annullava la decisione di primo grado, stabilendo che il contratto di collaborazione (“contrat de partenaiatr”) sottoscritto tra l’autista e Uber BV celava in realtà un rapporto di lavoro subordinato.

In punto di fatto, la Corte d’Appello parigina osservava:

  • che il conducente, per poter sottoscrivere il contratto di adesione alla piattaforma digitale e accedere al relativo servizio che consente di ricevere chiamate dai clienti, era obbligato a iscriversi al “Répertoire des Métiers” (una sorta di registro pubblico delle imprese artigiane);
  • che il guidatore offriva un servizio consistente nel trasporto di persone creato e interamente organizzato dalla società e che esiste solo grazie alla piattaforma; i tassisti non acquisiscono alcun cliente al di fuori di quelli che utilizzano la relativa applicazione, e non impostano liberamente prezzi o condizioni di esercizio del servizio di trasporto; che ai conducenti viene imposto un itinerario specifico che non sono liberi di scegliere e che se il conducente non segue tale itinerario vengono applicate delle modifiche tariffarie (peggiorative per l’autista);
  • che la destinazione finale della corsa a volte non è nota al taxista, che non può scegliere liberamente, come farebbe un autista indipendente, se gli conviene accettare o meno la corsa;
  • che al conducente è fatto divieto di contattare nuovamente i clienti dopo la fine della corsa, se non con l’espresso consenso degli stessi (impedendo così di poterli “recuperare” come clienti, senza passare nuovamente attraverso la piattaforma e i relativi costi); che al tassista è fatto divieto, quando ha accettato una corsa grazie alla piattaforma Uber, di prendere a bordo altri clienti durante il percorso;
  • che la società ha la possibilità di disconnettere temporaneamente il conducente dalla sua applicazione dopo 3 rifiuti di effettuare corse e che il conducente può perdere l’accesso al suo account se annulla una determinata percentuale di corse oppure a causa un certo numero di segnalazioni da parte dei passeggeri relativi a “comportamenti problematici” dell’autista.

Sulla base di tali elementi, la Corte d’Appello di Parigi ha dedotto che la prestazione lavorativa dell’autista si fosse svolta sotto la direzione della società convenuta, la quale aveva il potere di impartire ordini e direttive, nonché controllare l’esecuzione della prestazione e sanzionare le eventuali violazioni di condotta dell’autista: il rapporto di lavoro andava, quindi. qualificato come subordinato, e la causa rinviata a un Tribunale di prima istanza per decidere nel merito delle altre richieste dell’autista, tutte legate in via preliminare all’accertamento della natura subordinata del rapporto.

Uber ricorreva quindi in Cassazione contro la sentenza sfavorevole con una lunga e articolata serie di motivi, rilevando che:

  • il soggetto che sottoscrive il contratto di collaborazione per svolgere attività di tassista per Uber non ha alcun obbligo di tenersi a disposizione della piattaforma, né di svolgere attività esclusivamente per tale società;
  • l’autista è libero di rispondere o meno alle proposte di effettuare corse che la piattaforma gli invaia;
  • se è vero che dopo 3 rifiuti delle corse proposte l’applicazione disconnette temporaneamente l’autista dal sistema, è vero che lo stesso può connettersi nuovamente senza alcun effetto sul rapporto contrattuale in essere;
  • la remunerazione dell’autista è basata esclusivamente su quanto pagato dai clienti per le corse effettuate;
  • il tassista può utilizzare contemporaneamente altre piattaforme concorrenti per procacciarsi corse da effettuare, senza vincolo di esclusività con Uber;
  • l’autista può comunque anche crearsi una propria clientela al di fuori di quella raccolta con l’applicazione, fornendo servizio di trasporto senza passare attraverso l’applicazione Uber;
  • l’articolo 1882-6, Code du travail francese, prevede una presunzione per cui non sono lavoratori subordinati alcune tipologie di soggetti (in particolare, quelli iscritti al Répertoire des Métiers, una sorta di Registro delle imprese artigiane, cui i soggetti devono iscriversi prima di registrarsi sul portale di Uber), salvo che venga dimostrato che il rapporto di lavoro si è svolto secondo le regole della subordinazione (ipotesi da escludersi, secondo la società, in relazione al caso dei tassisti Uber, per le ragioni indicate ai punti precedenti);
  • la possibilità per la piattaforma di disconnettere l’autista dopo un certo numero di corse rifiutate non costituisce una sanzione, ma semplicemente un modo per rendere più affidabile e fluido l’incontro tra domanda e offerta del servizio di trasporto;
  • gli autisti non ricevono alcun ordine o direttiva da parte della società, e le uniche regole che derivano dal regolamento contrattuale sottoscritto rappresentano semplicemente delle norme di cortesia, buon senso, di rispetto delle regole e della sicurezza delle persone a bordo;
  • la possibilità di recedere dal contratto commerciale in caso di violazione di tali regole non costituisce potere disciplinare, ma semplicemente la normale facoltà di risolvere il contratto riconosciuta a qualunque contraente, quando l’altra parte non rispetti le regole previste dal contratto;
  • il divieto, previsto dal contratto sottoscritto tra società e autista, di entrare in contatto con i clienti dopo l’effettuazione della corsa senza l’espresso consenso di questi ultimi, risponde esclusivamente a necessità di sicurezza e riservatezza degli utenti stessi, e non è, invece, un divieto finalizzato a impedire all’autista di effettuare corse per gli stessi clienti ma senza passare attraverso la piattaforma; comunque, l’autista è libero di lasciare il proprio recapito al cliente e di farsi ricontattare anche per effettuare delle corse senza passare attraverso la piattaforma, essendogli impedito solamente di contattarlo direttamente (senza il consenso del cliente);
  • il sistema di geolocalizzazione utilizzato dalla piattaforma non serve a monitorare l’attività lavorativa degli autisti, ma semplicemente a mettere in contatto l’autista e il passeggero più vicini al momento della richiesta del servizio;
  • neppure il fatto che la tariffa del servizio sia stabilita a priori dalla piattaforma in maniera automatica costituisce un indice di subordinazione, rispondendo unicamente alla necessità di stabilire prima della corsa il costo della stessa (ed essendo il costo stesso determinato unicamente sulla base del percorso individuato dal sistema della piattaforma stessa).

La Suprema Corte francese, però, rigettava il ricorso proposto dalla società, confermando la sentenza di secondo grado.

La giurisprudenza francese, in maniera non dissimile da quella italiana, ritiene innanzitutto che il vincolo di subordinazione sussista laddove la prestazione lavorativa si svolga “sotto l’autorità del datore di lavoro” (“sous l’autorité d’un employeur”), che ha il potere di dare ordini e direttive, di controllarne l’esecuzione e di irrogare sanzioni in caso di mancanze da parte del lavoratore[2]. In questo senso, può costituire un indice di subordinazione il prestare lavoro nell’ambito di un servizio quando il datore di lavoro ne determini unilateralmente le condizioni di esecuzione.

Nel caso del tassista Uber, afferma la Cassazione francese, il soggetto è stato costretto a iscriversi in via preliminare (prima cioè di poter aver accesso alla piattaforma) al Registre des Métiers – cui dovrebbero di norma iscriversi gli artigiani che svolgano un’attività lavorativa autonoma –, ma senza poi avere la possibilità di organizzare liberamente la sua attività lavorativa, cercarsi una clientela per conto proprio o scegliere i propri fornitori; al contrario, il servizio era interamente gestito dalla società Uber, attraverso la relativa piattaforma, senza che fosse permesso agli autisti di cercare clienti propri né di stabilire liberamente le tariffe per le corse.

Secondo la Suprema Corte, il fatto che i conducenti possano scegliere quando connettersi e quando no, non implica di per sé l’assenza di un vincolo di subordinazione col gestore della piattaforma.

In relazione alle tariffe applicate per il servizio, l’autista aveva fatto rilevare in giudizio che Uber aveva “ritoccato” più di qualche volta i compensi riconosciutigli, in quanto avrebbe seguito degli “itinerari inefficaci” rispetto a quelli suggeriti dagli algoritmi dell’applicazione. Secondo la Corte, anche questo sarebbe un indice rivelatore di un vincolo di subordinazione e di controllo da parte della società che gestisce la piattaforma.

Si è visto, poi, come in caso di 3 rifiuti successivi di accettare le corse proposte dalla piattaforma, l’autista fosse stato disconnesso dall’applicazione, con impossibilità di ricevere ulteriori richieste fino a che, almeno, non facesse nuova richiesta di ammissione. Anche questo rappresenta, secondo i giudici, un indice di subordinazione, poiché il meccanismo della disconnessione ha l’effetto di incentivare l’autista stesso a stare a costantemente a disposizione di eventuali chiamate inviate dalla piattaforma anche per lunghi periodi di tempo (seppur sempre all’interno delle fasce orarie scelte), al fine di non essere escluso dal servizio, senza poter realmente scegliere, come farebbe un autista autonomo, che corse accettare e quali no.

Ancora, l’autista spesso non è in grado di conoscere la destinazione della corsa richiesta (e ha comunque un tempo estremamente breve, circa 8 secondi, per decidere se accettarla o no), per cui non è in grado di valutare la convenienza di effettuare la corsa o meno (come accadrebbe, invece, se la corsa è di molti chilometri oppure molto breve): anche questo elemento riduce di molto la reale autonomia nello svolgimento del lavoro del soggetto.

I giudici, infine, sottolineavano come la possibilità prevista dal contratto di disconnettere, temporaneamente o definitivamente, gli autisti dal servizio per comportamenti ritenuti dai passeggeri inopportuni o anche solo poco cordiali (senza possibilità, peraltro, per l’autista, di difendersi), costituisca una forma di potere sanzionatorio, incompatibile con la forma autonoma di svolgimento della prestazione.

La Cassazione transalpina confermava, quindi, la decisione della Corte d’Appello di Parigi, ritenendo che nel caso in esame tra le parti si fosse instaurato un rapporto di lavoro subordinato. La causa è stata quindi rimessa ai giudici di merito per la decisione sulle altre domande presentate dal lavoratore, in particolare sull’indennità di licenziamento e sulle differenze salariali: sarà interessante vedere cosa decideranno i giudici di merito in concreto, soprattutto relativamente all’orario di lavoro effettivamente svolto dal lavoratore (in particolare, se verranno considerati anche i periodi di mera attesa delle chiamate).

 

La sentenza “Take eat easy” del 2018

Come detto, la sentenza qui in commento è la seconda della Haute juridiction francese (la giurisprudenza di legittimità) in merito alla questione giuridica della qualificazione del rapporto di lavoro con le piattaforme elettroniche.

Con la sentenza n. 17-20.079 del 28 novembre 2018 la Cassazione aveva, infatti, esaminato il caso di una compagnia che gestiva un’altra piattaforma (“Take eat easy”, appunto) la quale offriva un servizio di c.d. food delivery, mettendo in contatto ristoratori, clienti e soggetti che si occupavano della consegna a domicilio delle pietanze. In questo caso la decisione delle Suprema Corte era giunta in maniera più inaspettata, in quanto le domande del lavoratore, un giovane che effettuava le consegne a bordo di una bicicletta, erano state respinte sia in primo che in secondo grado dai giudici di merito.

In questo caso, era previsto un sistema a punti di premi e penalità: i bonus erano legati ai tempi d’attesa presso il ristorante (“Time bank”, maggiore l’attesa, maggiore il bonus) e alla media di chilometri percorsa per le consegne (“KM bonus”, calcolato sulla media degli altri riders); penalità erano, invece, previste in caso di mancanze da parte del rider legate al ritardo nella risposta alla chiamate per le consegne, ma anche, più semplicemente, per la mancata risposta a domande dei clienti o dei ristoratori, per il mancato uso del casco o, ancora, in caso di comportamenti offensivi nei confronti dei ristoratori o dei clienti finali. A seconda del numero di “strike” (penalità), il rider perdeva il diritto ai bonus eventualmente acquisiti e, alla terza “infrazione”, veniva convocato presso la sede centrale dell’azienda per discutere della cosa, potendo poi essere estromesso dalla piattaforma, temporaneamente o definitivamente (a seconda della gravità dell’infrazione).

La Corte osservava che, inoltre, la società convenuta era in grado di controllare, attraverso un sistema di geolocalizzazione collegato all’applicazione utilizzata da clienti e riders, di conoscere in ogni momento la posizione del soggetto e di contabilizzare, a fine giornata, il numero di chilometri percorsi dallo stesso.

Ciò premesso, riteneva errata in diritto la decisione della Corte d’Appello di Parigi del 20 aprile 2017, in quanto, posta l’esistenza di un potere di controllo costante da parte del datore di lavoro sulla prestazione lavorativa del rider e, nondimeno, un potere sanzionatorio in capo alla società, doveva ritenersi la sussistenza di un vincolo di subordinazione, rinviando la causa per la decisione sulle altre domande del lavoratore legate alla natura subordinata del rapporto a una corte di merito.

 

Il caso italiano: la sentenza della Cassazione n. 1663/2020

È appena il caso di ricordare qui, rinviando ad altri interventi per un esame più approfondito della complessa vicenda giudiziaria, che anche la Cassazione italiana si è recentemente interessata del caso del lavoro a favore di piattaforme digitali e in particolare dei riders (ciclofattorini), con la sentenza n. 1663/2020, con cui la Suprema Corte ha affermato che: “Ai fattorini che effettuano consegna dei pasti a domicilio a seguito di un contratto di collaborazione stipulato con un’impresa che ne gestisce il rapporto attraverso una piattaforma digitale può trovare applicazione l’art. 2, comma 1, D.Lgs. n. 81/2015, laddove l’eterorganizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente. L’art. 2 rappresenta infatti non un tertium genus compreso tra subordinazione e autonomia, ma una norma di disciplina volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato”.

In relazione al citato articolo 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015, la Corte affermava che il Legislatore si sarebbe limitato a “valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta” e più che “in una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perché ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina[3].

In un quadro legislativo già di per sé piuttosto complicato, si è aggiunto il c.d. Decreto Crisi (D.L. 101/2019), il quale ha modificato, tra l’altro, l’articolo 2, D.Lgs. 81/2015, il quale prevede ora che: “A far data dal 1° gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

Vedremo se la novella condurrà a delle modifiche nell’orientamento dei Tribunali in relazione alla questione che qui si è discussa.

 

Conclusioni

L’esame delle recenti sentenze della giurisprudenza di legittimità francese, insieme alla recente pronuncia della Cassazione italiana, in materia di qualificazione del rapporto di lavoro prestato attraverso le piattaforme elettroniche, fa ritenere che i giudici, indipendentemente dal quadro legislativo di riferimento (comunque piuttosto simile), propendano maggioritariamente per il riconoscimento della natura subordinata del rapporto di lavoro delle varie figure professionali che operano in questo particolare mercato.

Le motivazioni dei giudizi d‘oltralpe potrebbero, peraltro, essere accolte senza particolari difficoltà anche nel caso italiano, nonostante il quadro legislativo frastagliato e complesso.

Il “labirinto” normativo italiano venutosi a creare negli ultimi anni sembra una “coperta troppo corta” per risolvere il problema e non si può escludere che possa essere semplicemente “spazzato via” con il riconoscimento della subordinazione piena dei lavoratori, sul modello di quanto successo in Francia.

Si riuscirà in futuro a trovare una regolamentazione che contemperi equamente, da una parte, le giuste tutele ai lavoratori impiegati in questi settori e, dall’altra, flessibilità e regolarità nell’impiego della prestazione lavorativa, certamente necessarie per garantire un servizio efficiente e puntuale agli utenti finali?

 

[1] Soc., 28 novembre 2018, Appello n. 17-20.079.
[2] Cass. Soc., 13 novembre 1996, n° 94-13187.
[3] Sulla citata sentenza si legga E. Basile, I riders al vaglio della Corte di Cassazione: una pronuncia che non risolve il problema, in “Il giurista del lavoro” n. 2/2020; E. Basile, I riders e la disfatta dei co.co.co., in “Il giurista del lavoro” n. 12/2019.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.

 

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