Personale direttivo e compenso per lavoro straordinario: quando è dovuto
di Edoardo FrigerioÈ notorio che il personale direttivo non sia sottoposto ai limiti di Legge relativi all’orario di lavoro, stabiliti per le altre categorie di lavoratori, in ragione dell’elevato grado di autonomia nella gestione della propria attività lavorativa, anche in relazione ai tempi della stessa. Così, tale personale non ha di norma diritto, in caso di prestazione di lavoro straordinario, al relativo compenso. Tale principio incontra, però, 2 eccezioni: la prima ricorre nel caso in cui la disciplina collettiva delimiti anche per il personale direttivo l’orario normale e tale orario venga in concreto superato; la seconda eccezione si verifica quando la durata della prestazione supera il limite della ragionevolezza. In tali casi anche il dirigente o il funzionario direttivo può pretendere il pagamento del compenso per lavoro straordinario prestato. La recente ordinanza di Cassazione n. 7678/2021 affronta la questione.
Il personale direttivo può pretendere il pagamento del lavoro straordinario prestato?
È tradizionalmente noto come il lavoro straordinario, ovvero l’attività lavorativa oltre l’orario normale di lavoro, eventualmente prestato sia da dirigenti sia da quadri e impiegati con funzioni direttive (il c.d. personale direttivo “minore”), non sia retribuito, essendo il personale direttivo, in base all’articolo 1, R.D.L. 692/1923, e all’articolo 17, D.Lgs. 66/2003, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro – salvo il rispetto dei principi generali di protezione della sicurezza e salute dei lavoratori – propria delle altre categorie di lavoratori e, quindi, non sia soggetto all’osservanza dell’articolo 5, D.Lgs. 66/2003, che fornisce la regola per le prestazioni di lavoro straordinario.
Infatti, la non applicabilità della disciplina generale del lavoro straordinario, nei confronti degli impiegati e quadri con funzioni direttive e dei dirigenti, deriva dalla natura della loro prestazione lavorativa, orientata alle esigenze della struttura che devono dirigere e all’espletamento dell’incarico affidato in funzione degli obiettivi e dei programmi da realizzare.
Così, per tali ragioni, il personale direttivo non è normalmente tenuto a osservare alcun orario di lavoro, né è obbligato a far rilevare la propria presenza all’ingresso o all’uscita dalla sede lavoro, se non ai fini relativi alla protezione della sicurezza e della salute, con la conseguenza che (salvo diversa previsione della contrattazione nazionale collettiva o di quella aziendale) l’eventuale indicazione di un orario di lavoro deve considerarsi meramente orientativa.
Tale principio incontra, però, 2 eccezioni: il diritto al compenso per lavoro straordinario può sorgere nel caso in cui il Ccnl applicato al rapporto di lavoro (ma anche il contratto individuale di lavoro, potendo anche intervenire pattuizione di lavoro straordinario pagato forfettariamente) delimiti anche per essi un orario normale di lavoro, che risulti nel caso concreto superato; ovvero, in mancanza di tale delimitazione, quando la durata della prestazione lavorativa ecceda comunque i limiti della ragionevolezza in rapporto alla tutela, costituzionalmente garantita, del diritto alla salute. La recente ordinanza n. 7678/2021 della sezione lavoro della Cassazione ribadisce tali affermazioni, all’esito di una lunga vicenda giudiziaria.
La controversia decisa dall’ordinanza della Cassazione n. 7678/2021
La vertenza approdata all’esame della Suprema Corte ha visto un ex dipendente di un’azienda agraria del sud d’Italia, inquadrato quale “quadro super” del Ccnl Alimentari industria, richiedere l’accertamento di lavoro straordinario prestato e il correlativo pagamento. In particolare, il lavoratore, alle dipendenze per oltre 30 anni della società, richiedeva in giudizio il riconoscimento – in relazione all’ultimo quinquennio di lavoro, ritenendo gli eventuali crediti anteriori prescritti – di un importo pari a diverse decine di migliaia di euro a titolo, appunto, di straordinario, evidenziando la particolare gravosità dell’impegno richiesto dall’azienda in rapporto alla durata dell’orario di lavoro[1], soprattutto nei periodi delle campagne agrarie annuali. Il datore di lavoro contestava in giudizio le affermazioni del ricorrente, evidenziando, in ogni caso, come l’ex dipendente non avesse comunque diritto al compenso per il lavoro straordinario, in quanto, in forza della propria qualifica contrattuale (quadro), fosse per lui esclusa l’applicabilità della normativa in materia di limitazione dell’orario di lavoro.
Dopo il giudizio di primo grado – che aveva rigettato, sostanzialmente in ragione della ritenuta genericità delle prove testimoniali assunte a sostegno del riconoscimento del lavoro straordinario invocato, le pretese del lavoratore – l’ex dipendente impugnava la sentenza avanti alla Corte d’Appello, che capovolgeva l’esito del giudizio di prime cure, valorizzando, invece, proprio le prove orali assunte in occasione dell’istruttoria di primo grado: secondo i giudici d’Appello, in tali testimonianze la prestazione di lavoro straordinario aveva trovato, al contrario, ampio riscontro, sia per quanto riguardava l’intenso orario di lavoro quotidiano (circa 15 ore al giorno) nel periodo delle campagna agraria tra giugno e luglio di ogni anno, sia per quanto riguardava la prestazione di lavoro nella giornata del sabato nel resto dell’anno.
La Corte territoriale, sull’eccezione datoriale circa l’inapplicabilità della disciplina dell’orario di lavoro per impiegati con funzioni direttive, rilevava come il contratto collettivo per i dipendenti dell’industria alimentare delimitasse indistintamente per tutti i lavoratori l’orario di lavoro settimanale (fissato in 40 ore), senza operare alcuna distinzione tra personale chiamato a svolgere funzioni direttive e gli altri dipendenti; inoltre, il datore di lavoro non aveva individuato una qualche disposizione del contratto collettivo, che, relativamente a detto personale, consentisse di ritenere inapplicabile il limite di orario fissato, come detto, in termini generali dal contratto collettivo applicato a tutti i lavoratori dell’azienda in 40 ore. Ne conseguiva, pertanto, secondo i giudici d’Appello, che detto limite di orario trovava applicazione anche nei confronti del lavoratore appellante con riferimento ai criteri di computo del contratto collettivo del lavoro straordinario prestato e, all’esito di consulenza tecnica contabile, la Corte riconosceva, quindi, il preteso credito del lavoratore per il lavoro straordinario prestato.
La società datrice di lavoro, non condividendo evidentemente l’esito della pronuncia di secondo grado, è ricorsa quindi in Cassazione, contestando la statuizione che aveva, a suo dire, erroneamente affermato che al funzionario direttivo spettasse il compenso per il lavoro straordinario prestato. In particolare, il datore ha lamentato che la sentenza impugnata, condannando la società a corrispondere al lavoratore somme a titolo di compenso per lavoro straordinario, avrebbe violato le norme di Legge che regolano la fattispecie – in particolare l’articolo 1, comma 2, R.D.L. 692/1923; l’articolo 3, n. 2, R.D. 1955/1923; l’articolo 17, comma 5, lettera a), D.Lgs. 66/2003 – norme che, secondo la tesi datoriale, prevarrebbero sulla contrattazione collettiva, escludendo senza dubbio la configurabilità di lavoro straordinario e della relativa retribuzione, se prestato, come nel caso in esame, da personale direttivo.
La Suprema Corte, con l’ordinanza n. 7678/2021, ha rigettato il ricorso della società, rilevando, nel caso di specie, la correttezza della valutazione, operata dai giudici d’Appello, delle dichiarazioni dei testimoni (colleghi del lavoratore all’epoca del rapporto di lavoro) assunte nel giudizio di primo grado che hanno suffragato la tesi del lavoratore circa il fatto che il proprio orario e impegno lavorativo avessero ecceduto il limite della ragionevolezza.
Ciò, tenendo conto soprattutto dell’intensità dell’attività nei periodi della c.d. campagna agraria, caratterizzati da un forte afflusso di prodotto presso l’unità operativa diretta dal lavoratore e giustificando, in tal modo, il riconoscimento del diritto al compenso per lavoro straordinario.
Così, i giudici di legittimità ritengono, rispetto alla verifica delle condizioni dell’impegno lavorativo del quadro, che la motivazione addotta ai fini del riconoscimento del compenso per lavoro straordinario allo stesso spettante debba ritenersi adeguata con specifico riferimento ai criteri del superamento del limite della ragionevolezza e della particolare gravosità della prestazione resa, nel senso affermato dalla consolidata giurisprudenza.
Gli Ermellini quindi, in conclusione, rigettano il ricorso datoriale, affermando che: “i funzionari direttivi, esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, hanno diritto al compenso per lavoro straordinario qualora la prestazione, per la sua durata, superi – secondo un accertamento riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità, ove adeguatamente motivato – il limite della ragionevolezza e sia particolarmente gravosa ed usurante”.
Diritto allo straordinario per i funzionari direttivi e precedenti della Cassazione
La pronuncia della Cassazione n. 7678/2021, come dalla stessa evidenziato, si pone in linea con propri numerosi precedenti. Si deve, però, risalire prima alla sentenza della Corte Costituzionale n. 101/1975, che aveva precisato come un limite quantitativo globale del tempo di lavoro, anche se non stabilito dalla Legge o dal contratto, sussista anche nei confronti del personale direttivo, in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità psicofisica, dovendosi individuare detto limite in relazione alle obiettive esigenze e caratteristiche dell’attività richiesta alle diverse categorie di dirigenti e funzionari, spettando, quindi, al giudice, nelle singole fattispecie, esercitare un controllo sulla ragionevolezza delle prestazioni di lavoro pretese dall’imprenditore.
A partire da questa pronuncia costituzionale, la Cassazione più volte si è espressa sulla fattispecie: in particolare, in un caso relativo a dipendenti delle poste (Cass. n. 18161/2018), ha precisato che i funzionari direttivi, esclusi dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, hanno diritto al compenso per lavoro straordinario solo se la prestazione, per la sua durata, superi il limite della ragionevolezza e sia particolarmente gravosa e usurante. In particolare, per il personale direttivo, escluso dalla disciplina legale della limitazione dell’orario di lavoro – in base al già ricordato combinato disposto dell’articolo 1, comma 2, R.D.L. 692/1923, dell’articolo 3, n. 2, R.D. 1955/1923 e dell’articolo 17, comma 5, lettera a), D.Lgs. 66/2003 – si può considerare la configurabilità di compenso per lavoro straordinario solo se la disciplina collettiva delimiti anche per essi l’orario normale e se tale orario venga in concreto superato, oppure se la durata della loro prestazione valichi il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità fisico-psichica garantita costituzionalmente a tutti i lavoratori; in tale caso, si deve valutare non solo l’elemento quantitativo del numero delle ore lavorate, ma anche l’elemento qualitativo relativo all’impegno fisico e intellettuale richiesto al lavoratore.
In un’ulteriore controversia gli Ermellini, applicando i principi sopra riportati, hanno rigettato la domanda di riconoscimento dello straordinario da parte di 2 dipendenti con funzioni direttive di una società di costruzioni, che avevano dedotto di aver protratto la loro attività lavorativa fino alle ore serali, con spostamenti frequenti su tutto il territorio nazionale e anche all’estero, non essendo, però, emerso che tali attività superassero il limite della ragionevolezza in relazione alla tutela della salute e dell’integrità psicofisica dei lavoratori stessi (Cass. n. 3038/2011).
Importante è poi la puntualizzazione, sempre a opera della Suprema Corte con Cassazione n. 11929/2003, secondo cui, ai fini dell’esclusione dalla limitazione dell’orario di lavoro e della conseguente negazione del diritto a compenso per lavoro straordinario, la nozione di “personale direttivo”, in base alle norme già indicate, comprende non soltanto tutti i dirigenti e institori che rivestono qualità rappresentative e vicarie, ma anche (in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga) il personale dirigente c.d. “minore”, ossia gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni di azienda e, in definitiva, i capi – ufficio e i capi – reparto.
Il criterio della “ragionevolezza”
Dalla disamina effettuata emerge, quindi, chiaramente come il diritto al compenso per lavoro straordinario possa spettare anche al personale direttivo in 2 specifiche ipotesi:
- in primo luogo, quando la disciplina collettiva delimiti anche per tale categoria di lavoratori l’orario normale di lavoro e tale orario venga in concreto superato;
- in secondo luogo, anche in assenza previsione collettiva sulla limitazione dell’orario di lavoro, quando la durata della prestazione lavorativa ecceda comunque il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e dell’integrità psicofisica garantita dalla Legge.
Peraltro, per la configurabilità del carattere gravoso e usurante della prestazione non è necessario che la prestazione di lavoro straordinario porti alla “rovina” fisico-psichica del lavoratore, ma è sufficiente che essa sia complessivamente più gravosa rispetto a quella normalmente prestata del personale direttivo dell’azienda (Cass. n. 13882/2004).
Quindi, prescindendo dall’eventuale dirimente previsione della contrattazione collettiva, in assenza di essa la circostanza fondamentale per argomentare il diritto (o meno) del personale direttivo al compenso per lavoro straordinario è rappresentato, come visto, dal criterio della “ragionevolezza” dell’impegno di lavoro prestato oltre il normale orario di lavoro.
Sempre la giurisprudenza offre spunti per comprendere come tale criterio, evidentemente di valutazione ampiamente discrezionale da parte del giudice, possa essere declinato in concreto, al fine di verificare se esso sia stato infranto o meno. Sul punto è stato precisato (Cass. n. 10318/2017), in tema di prestazione usurante svolta da personale direttivo escluso dalla limitazione di orario, che tale ragionevolezza deve intendersi violata in presenza di un orario di lavoro giornaliero talmente gravoso da rendere la prestazione particolarmente usurante, in violazione del diritto alla salute.
Ad esempio, in un caso in cui la pretesa di compenso per lavoro straordinario era stata svolta in giudizio da un direttore d’hotel, tale domanda è stata rigettata poiché il lavoratore nulla aveva dedotto circa lo svolgimento di particolari attività impegnative o gravose: per contro, era risultato che il direttore potesse godere di pause e riposi, usufruendo anche di alloggio nella struttura e consumando in albergo i pasti, non essendo sufficiente, per concretare il superamento della ragionevolezza dell’impegno lavorativo, la sola circostanza della propria presenza sul luogo di lavoro per 5 ore oltre le 8 giornaliere, tempo di lavoro non ritenuto usurante anche per la non vincolatività di tale orario, liberamente scelto dal lavoratore nell’espletamento delle proprie funzioni direttive (Cass. n. 10318/2017).
Ancora, per meglio definire il rispetto del limite di ragionevolezza della durata delle prestazioni lavorative di dirigenti o funzionari direttivi, si è evidenziato come, per un lavoratore rientrante in tali categorie, l’essere costretto quotidianamente e continuativamente a restare sul luogo di lavoro oltre l’orario normale fissato per gli altri dipendenti costituisce carattere gravoso e usurante della prestazione, in particolare se tale protrazione continuativa e quotidiana rispetto al normale orario di lavoro degli altri colleghi sia stata richiesta o autorizzata specificamente dal datore di lavoro[2], potendosi considerare complessivamente più gravoso l’orario di lavoro continuativamente prestato in più rispetto agli altri dipendenti direttivi dell’azienda (Cass. n. 13882/2004).
Ovviamente, anche le sentenze di merito aiutano a meglio calare nel concreto tale criterio della ragionevolezza. Recentemente è stato ritenuto da Tribunale di Milano, n. 386/2018
come la prestazione lavorativa straordinaria resa dal lavoratore con funzioni direttive travalichi il limite della ragionevolezza sia sotto un profilo quantitativo, quando le prestazioni lavorative di carattere straordinario superino il limite legale annuo di 250 ore (in assenza di diversa previsione contrattuale), sia sotto quello qualitativo, nel caso il dipendente per recarsi al lavoro debba affrontare giornalmente un percorso di un centinaio di chilometri fra andata e ritorno dalla propria abitazione e debba essere presente sul luogo di lavoro dalle 7 del mattino sino a oltre le 8 della sera e ciò giornalmente e continuativamente anche per 6 o 7 giorni alla settimana, incidendo tale impegno lavorativo negativamente sul suo stato di benessere e sui suoi legami famigliari e affettivi.
Secondo Tribunale di Roma, n. 12208/2009, viceversa, non si verifica il superamento del limite della ragionevolezza quando, dal punto di vista quantitativo e in assenza di diversa regolazione contrattuale, vi sia prestazione di lavoro straordinario per una media di poco superiore alle 100 ore annuali per alcuni anni, essendo tale dato quantitativo inidoneo, alla stregua dei principi sopra enunciati, al superamento del suddetto limite di ragionevolezza.
Si deve comunque sempre tenere presente, sul piano processuale, come il lavoratore che agisca per ottenere il compenso per il lavoro straordinario abbia l’onere probatorio di dimostrare di aver lavorato oltre l’orario normale di lavoro, dovendo altresì provare il numero di ore effettivamente svolto e i periodi in cui il lavoro straordinario sarebbe stato prestato. La prova del lavoro straordinario deve essere, quindi, particolarmente rigorosa e spesso non è agevole per il lavoratore il suo raggiungimento, specie se il preteso straordinario si pone lontano nel tempo e non sia stato continuativo, ma svolto in particolari periodi. Ciò ovviamente in assenza di prove documentali circa lo straordinario effettuato, ma nel caso il lavoratore possa avvalersi solo di fonti di natura testimoniale.
In conclusione, si può ritenere ormai definitivamente assodato il principio – ribadito dall’ordinanza della Cassazione n. 7678/2021 – in base al quale il personale direttivo può avere diritto al compenso per lavoro straordinario se la disciplina collettiva delimiti anche per esso l’orario normale e tale orario venga in concreto superato, oppure se la durata della prestazione superi il limite della ragionevolezza, dovendosi per questo valutare oltre l’elemento quantitativo del numero delle ore lavorate anche quello qualitativo relativo all’impegno fisico e intellettuale richiesto al lavoratore.
[1] Il lavoratore ha sostenuto in giudizio di aver sempre lavorato, durante le campagne agrarie nei mesi di giugno e luglio di ogni anno, dal lunedì alla domenica, per circa 15-16 ore al giorno; al di fuori di tale periodo estivo, il ricorrente ha affermato di aver sempre lavorato, oltre che per il normale orario di lavoro dal lunedì al venerdì, anche al sabato.
[2] Cass. n. 117/1987: nel caso di specie era stato riconosciuto il diritto allo straordinario a un impiegato di banca con funzioni direttive (un procuratore-tesoriere), che per lungo periodo aveva dovuto iniziare l’attività lavorativa alle 7 di ogni giorno, protraendola sino alle 21-22 di ogni sera e talora anche fino alle 23. A tale prestazione lavorativa doveva, quindi, riconoscersi un carattere di particolare gravosità, tale da giustificare il diritto a una retribuzione superiore a quella di funzionari di banca di pari grado, ma addetti a settori diversi, che non richiedevano un prolungamento usuale dell’orario di lavoro.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
Centro Studi Lavoro e Previdenza – Euroconference ti consiglia: