Il patto di prova negli ultimi orientamenti giurisprudenziali
di Luca VannoniAl fine di poter rendere definitivo il vincolo contrattuale solo dopo una reciproca valutazione esperienziale, l’ordinamento giuslavoristico consente alle parti di apporre ai contratti di lavoro subordinati, a termine e a tempo indeterminato, una clausola di prova, disciplinata dall’articolo 2096, cod. civ., dove l’interesse, in realtà, prevalente è la sperimentazione e la valutazione, da parte del datore di lavoro, delle caratteristiche e delle qualità del lavoratore nonché del proficuo inserimento di quest’ultimo nella struttura aziendali, tenuto conto dei limiti e dei vincoli in materia di licenziamento.
La non perfetta stabilità del rapporto di lavoro conseguente alla prova riflette i suoi effetti anche nella sfera del lavoratore, che può presentare le proprie dimissioni senza rispetto del preavviso: l’alleggerimento rispetto alla disciplina generale in questo caso è molto più marginale, in quanto l’atto di recesso del lavoratore non necessita di motivazioni, se non nel caso in cui si voglia far valere la c.d. giusta causa e le relative conseguenze risarcitorie, e l’unico onere del lavoratore è rappresentato dal preavviso.
Recentemente, sulle dimissioni del lavoratore durante il periodo di prova, la Cassazione ha affrontato l’interessante questione delle conseguenze in caso esse siano presentate per giusta causa, e più in particolare se sia dovuta l’indennità sostitutiva del preavviso ai sensi dell’articolo 2019, cod. civ.: con la sentenza n. 17423/2021, la Suprema Corte ha chiarito che “la risoluzione anticipata equivale al mancato soddisfacimento dell’obbligazione a carico della società datrice “per effetto dell’art. 2096 c.c.”, divenendo quell’inadempimento fonte di responsabilità contrattuale e di specifica obbligazione risarcitoria”; pertanto, trattandosi di danno retributivo da c.d. recesso ante tempus, il risarcimento del danno dovuto al lavoratore va commisurato all’entità dei compensi retributivi che lo stesso avrebbe maturato dalla data del recesso fino alla prevista scadenza del patto di prova, senza, quindi, dover riconoscere l’indennità di mancato preavviso.
Più complicata è la conseguenza in caso di licenziamento che si poggia su un patto nullo a seguito generalmente di una delle seguenti casistiche: mancanza di forma scritta, sottoscrizione successiva all’inizio del rapporto di lavoro, mancata specificazione delle mansioni.
La mancanza di motivazione nel licenziamento, essendo saltato il patto di prova, potrebbe determinare l’insussistenza di motivazione, con reintegrazione e risarcimento limitato a 12 mensilità, ovvero la semplice tutela risarcitoria, fino a 24/36 mesi.
Recentemente il Tribunale di Milano, con sentenza n. 2551/2021, dopo aver assodato che il patto di prova era stato sottoscritto successivamente all’inizio della prestazione, ha preso atto che il licenziamento risultava essere intimato in totale assenza di presupposti giustificativi: ricadendo, tuttavia, il licenziamento durante il blocco legato all’emergenza COVID, ha condannato il datore di lavoro alla reintegra e al risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perse dal giorno del licenziamento fino alla successiva reintegra, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
Ad arricchire il dibattito giurisprudenziale, si segnala la recente sentenza del Tribunale di Napoli del 13 gennaio 2021, chiamato a decidere un caso riguardante il licenziamento per mancato superamento della prova, contestato dal lavoratore in quanto “il rapporto lavorativo non era soggetto a periodo di prova ex art.7 del Ccnl “contratti servizi trasporti prodotti postali” trattandosi di subentro in appalto e che mai aveva ricevuto copia del contratto di assunzione né lo aveva sottoscritto non sottoscrivendo così alcun patto di prova, esponeva che in ogni caso il licenziamento era illegittimo a causa del lasso di tempo troppo breve e della mancanza di specificità delle mansioni assegnategli e dunque in assenza di una reale valutazione delle capacità professionali del lavoratore”.
Dopo aver ritenuto applicabile, vista la data di assunzione, il D.Lgs. 23/2015, il giudice partenopeo sottolinea come, nel caso di specie, la motivazione posta alla base del recesso sia inesistente, e, nel valutarne le conseguenze, innanzitutto richiama l’articolo 4, D.Lgs. 23/2015, dove, nel prevedere conseguenze, di natura esclusivamente indennitaria, per le ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione, si riconosce comunque al giudice di accertare, sulla base della domanda del lavoratore, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3, D.Lgs. 23/2015.
Avvalendosi di tale potere, si è inquadrato il licenziamento nell’alveo del giustificato motivo soggettivo (articolo 3, comma 2), in quanto legato a una mancanza di qualità del lavoratore e considerato il fatto di cui al recesso come ontologicamente insussistente, per la semplice ragione che il fatto giustificativo (il patto di prova) è giuridicamente insussistente: pertanto, il datore di lavoro è stato condannato alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione nel limite di 12 mensilità e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissione contributiva.
Vista l’incertezza e il rischio che pochi mesi di rapporto possano determinare conseguenze abnormi, è quanto mai opportuno dedicare la giusta attenzione al patto di prova, formalizzandolo espressamente per iscritto prima dell’inizio della prestazione, non accontentandosi di eventuali richiami, nello specificare le mansioni, a dizioni dell’organigramma non sufficientemente chiare o di qualifiche, che, pur individuando l’ambito della prestazione del lavoratore, tra una pluralità di attività non ne definiscono il concreto quotidiano del lavoratore.
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