La parasubordinazione nella scatola
di Riccardo GirottoLo smisurato interesse alle vicende, a mio avviso sovrastimate, dei riders, dirige l’attenzione dei giuslavoristi verso i nuovi processi della Gig economy, rispolverando l’antica divaricazione tra lavoro autonomo e subordinato, ma, soprattutto, constatando nuovamente il fallimento totale della parasubordinazione[1].
Nata da una norma procedurale, già qui potremo soffermarci e soffocare ogni commento alla genesi, ha vissuto per anni con lo scopo di intercettare il mondo lavorativo di mezzo, per tornare momentaneamente al via: il codice di procedura civile, appunto. Si è tentato più volte di conferire utilità all’ibrido istituto tormentandone l’esistenza, eppure le recenti vicende ne confermano la palese inadeguatezza, peraltro foriera di ampio contenzioso, del quale, da tutte le parti, sinceramente non si sentiva il bisogno.
Tutto nacque dalla richiesta pressante di regolare le situazioni, non poche, ove un rapporto di lavoro autonomo risultava poco tutelante, mentre un rapporto subordinato troppo costoso. I propositi, quindi, già dall’origine, non parevano edificanti, posto che la differenza tra lavoro autonomo e subordinato non risiede nel combinato costo-tutele, bensì nella modalità di svolgimento della prestazione.
Nonostante un principio ispiratore a prima vista ampiamente discutibile, la parasubordinazione trovò la sua collocazione nell’ordinamento grazie a un timido, e forse non voluto, richiamo ricavabile dall’articolo 409, c.p.c., assistito, nel tempo, dall’intraprendenza della Gestione separata Inps. Il feedback applicativo rese criticabile la prima versione deregolata: “questo rapporto è troppo ibrido”.
Ne conseguì il D.Lgs. 276/2003, ove il Legislatore riformista disegnò una nuova parasubordinazione, dedicandovi un intero capo. Venne introdotto il requisito dell’individuazione di un progetto, rivoluzione vera, nonché concreta valorizzazione della caratteristica tipica della prestazione autonoma: il risultato. Detta previsione pareva poter essere una guida, ma da una parte arrivò la prevedibile critica: “questo rapporto è poco subordinato”.
La previsione iniziò, quindi, a essere violentata con diversi interventi, assumendo sembianze diverse da quelle ispiratrici; questo non servì comunque a renderla accettabile: “questo rapporto è troppo parasubordinato”, la nuova critica non tardò ad emergere.
Necessario rivedere tutto ancora una volta: le sembianze sempre più distanti da quelle originarie, disegnate dalla penna di un Legislatore in preda al panico, giunsero a caratterizzarsi per tutta una serie di garanzie tipiche del lavoro subordinato, compresi maldestri riferimenti alla struttura retributiva dei Ccnl. Niente da fare, si levò comunque un grido di protesta: “questo rapporto è troppo subordinato”.
Il Legislatore stanco, stanchissimo, prima di arrendersi prese una scatola, la bucò e la presentò ai diversi detrattori: “Ecco, qui dentro c’è il lavoro parasubordinato”, immaginatelo come lo volete, del resto quel che conta non è la forma, ma la sostanza e la sostanza è invisibile agli occhi. Nessun requisito, nessun disegno specifico, ma nemmeno la previsione di un divieto, utilizzo libero della parasubordinazione grazie a quei fori che permettono di respirare l’ossigeno del confermato riferimento codicistico (articolo 409, c.p.c.).
Un’ultima accortezza, su gentile richiesta, fu quella di inserire un argine, una museruola, all’accesso incondizionato alla misura, rappresentata dall’articolo 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015: “non ti dico come farlo, ma ti dico come non farlo”, museruola già divelta dall’articolo 1, comma 1, lettera a), D.L. 101/2019, che ne ha allentato la funzionalità certa; del resto troppe indicazioni non servono, l’applicazione libera dell’istituto dimostra che “dritto davanti a sé non si può andare molto lontano”[2].
Pare, quindi, che la consegna della scatola che oggi abbiamo a disposizione, il cui contenuto “essenziale” non è visibile, palesi la tendenza ponziopilatesca di lasciare ai lavoristi l’intero onere e l’immenso rischio di utilizzare uno strumento, con le conseguenze note riaffiorate di recente nella questione ciclofattorini.
La forzatura nel garantire fiducia alla parasubordinazione pare, quindi, una certezza, non l’unica: il fallimento dell’istituto offre buona compagnia.
[1] Si veda, sul tema della parasubordinazione, R. Girotto, Meglio autonomi che mal coordinati, in “Strumenti di lavoro” n. 7/2019.
[2] “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry ha fortemente influenzato questo contributo.
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