Le ore di ferie si computano ai fini dello straordinario (CGUE, causa C-514/20)
di Elia NotarangeloLa Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sezione VII, nella causa C-514/20, ha sancito che le ore di ferie, benché caratterizzate, per loro natura, da assenza di prestazione lavorativa, sono equiparabili alle ore lavorate e con queste ultime vanno computate quando si tratti di verificare il raggiungimento di una determinata soglia, utile alla maturazione del diritto all’aumento per lavoro straordinario.
Il caso
Il caso riguarda una causa radicata in Germania, ove un accordo collettivo generale sul lavoro temporaneo (paragonabile ai nostri contratti collettivi) prevedeva un orario normale di lavoro mensile adattato al numero di giorni lavorativi cadenti in ciascun mese; il tempo di lavoro mensile era stato quantificato in 161 ore in un mese che comprende 23 giorni lavorativi; gli aumenti per gli straordinari erano pagati per le ore prestate oltre le 184 ore per 23 giorni lavorativi, con una maggiorazione del 25%.
Ad agosto 2017, in cui cadevano 23 giorni lavorativi, un lavoratore temporaneo in azienda tedesca ha lavorato 121,75 ore durante i primi 13 giorni e poi ha preso ferie retribuite nei restanti 10 giorni, corrispondenti a 84,7 ore di lavoro.
Il lavoratore, ritenendo che i giorni di ferie retribuite dovessero essere presi in considerazione per determinare il numero di ore lavorate, ha adito i tribunali tedeschi per ottenere la condanna della società datrice di lavoro a versargli un supplemento del 25% per le ore eccedenti le 184 (22,45 ore).
Dopo i primi 2 gradi di giudizio di merito, il lavoratore ha adito la Corte Federale del lavoro tedesca (analoga alla nostra Corte di Cassazione). Per la Corte Federale l’unica interpretazione possibile dell’accordo collettivo era nel senso che solo le ore lavorate potevano essere prese in considerazione per stabilire se il lavoratore avesse superato la quota oraria dell’orario di lavoro mensile normale. Per la Corte, infatti, le parole “ore prestate” si riferivano alla nozione di ore effettivamente lavorate, esclusi inevitabilmente i periodi di ferie.
Lo scopo a base dell’accordo collettivo era quello di compensare un particolare carico di lavoro, che non si verifica durante le ferie annuali retribuite; in tal modo, l’aumento era destinato a ricompensare il dipendente per il lavoro che va oltre i suoi obblighi contrattuali. Così, il suddetto aumento sarebbe un diritto che si acquisisce attraverso il lavoro, senza che si possa tener conto dei periodi di ferie.
Tuttavia, la Corte Federale ha ritenuto che le disposizioni dell’accordo collettivo potessero incoraggiare i lavoratori a non prendere il periodo minimo di ferie annuali retribuite, per accedere alle maggiorazioni per lavoro straordinario.
La Corte Federale ha, quindi, rinviato il caso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, esprimendo un dubbio sulla compatibilità dell’impianto collettivo con la giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia UE, secondo la quale i lavoratori non possono essere dissuasi – nemmeno indirettamente – dall’esercitare il loro diritto al periodo minimo di ferie annuali retribuite.
La normativa comunitaria e i precedenti della Corte di Giustizia sul diritto alle ferie
Nell’analizzare la questione sottoposta al suo vaglio, la sentenza della Corte di Giustizia UE ha richiamato, a fondamento della decisione, la Direttiva 2033/88/CE, “concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro”.
Il quarto considerando della Direttiva prescrive che l’obiettivo del miglioramento della sicurezza, dell’igiene e della salute dei lavoratori, durante il lavoro, non può dipendere da considerazioni di carattere puramente economico.
Il quinto considerando prescrive che tutti i lavoratori abbiano periodi di riposo adeguati.
Proprio in relazione ai periodi di riposo, l’articolo 7, Direttiva 2033/88/CE, rubricato “Ferie annuali” prevede:
“1. Gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché ogni lavoratore benefici di ferie annuali retribuite di almeno 4 settimane, secondo le condizioni di ottenimento e di concessione previste dalle legislazioni e/o prassi nazionali.
2. Il periodo minimo di ferie annuali retribuite non può essere sostituito da un’indennità finanziaria, salvo in caso di fine del rapporto di lavoro”.
La previsione contenuta nella Direttiva costituisce, in sostanza, attuazione dell’articolo 31, § 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, secondo cui “ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie annuali retribuite”.
Le 2 norme citate sono state più volte fatte oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Il giudice europeo ha, in primo luogo, chiarito che l’articolo 31, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sottoscritta da tutti gli Stati membri, vale quale trattato immediatamente vincolante.
Anche l’articolo 7, Direttiva 2003/88/CE, però, è stato ritenuto caratterizzato da diretta vincolatività, poiché il testo della disposizione pone, “in termini non equivoci, un obbligo di risultato preciso e assolutamente incondizionato quanto all’applicazione della regola da esso enunciata”; essa, quindi, consente al giudice di disapplicare norme nazionali (o accordi collettivi) contrari al dettato normativo comunitario[1].
Tra le tante pronunce rese dalla Corte di Giustizia, particolare importanza assume la sentenza del 15 settembre 2011 nella causa C-155/10 (Williams e altri), che afferma i seguenti principi:
- il diritto dei lavoratori alle ferie annuali retribuite “deve essere considerato come un principio particolarmente importante del diritto sociale comunitario”[2];
- benché l’articolo 7, Direttiva 2003/88/CE, non contenga alcuna espressa indicazione sulla quantificazione della retribuzione spettante durante le ferie, per la durata delle “ferie annuali” ai sensi di tale Direttiva la retribuzione deve essere mantenuta: “in altre parole, il lavoratore deve percepire la retribuzione ordinaria per tale periodo di riposo”;
- l’obbligo di monetizzare queste ferie “è volto a mettere il lavoratore, in occasione della fruizione delle stesse, in una situazione che, a livello retributivo, sia paragonabile ai periodi di lavoro”;
Si deduce che “la retribuzione delle ferie annuali deve essere calcolata, in linea di principio, in modo tale da coincidere con la retribuzione ordinaria del lavoratore. Da quanto sopra si evince inoltre che un’indennità determinata ad un livello appena sufficiente ad evitare un serio rischio che il lavoratore non prenda le sue ferie non soddisfa le prescrizioni del diritto dell’Unione”.
Ne consegue che “qualsiasi incomodo intrinsecamente collegato all’esecuzione delle mansioni che il lavoratore è tenuto ad espletare in forza del suo contratto di lavoro e che viene compensato tramite un importo pecuniario incluso nel calcolo della retribuzione complessiva del lavoratore (…) deve obbligatoriamente essere preso in considerazione ai fini dell’ammontare che spetta al lavoratore durante le sue ferie annuali”, compresi gli elementi della retribuzione “correlati allo status personale e professionale”.
Non vanno computati, per la retribuzione spettante durante le ferie, esclusivamente “gli elementi della retribuzione complessiva del lavoratore diretti esclusivamente a coprire spese occasionali o accessorie che sopravvengano in occasione dell’espletamento delle mansioni che incombono al lavoratore in ossequio al suo contratto di lavoro”.
Stante l’importanza primaria della disciplina comunitaria del diritto alle ferie, come diritto legato allo stato di benessere e salute del lavoratore, la Corte di Giustizia ha formulato ulteriori principi che impediscono alle normative nazionali e alle pattuizioni contrattuali, individuali o collettive, di pregiudicare siffatto diritto.
In particolare, le assenze del lavoratore dal lavoro, per alcune causali che non dipendano dalla semplice volontà del medesimo, non pregiudicano la maturazione delle ferie durante la sospensione della prestazione e della relativa retribuzione, eventualmente da erogare in forma di indennità sostitutiva, al termine del rapporto. Tali periodi di sospensione valgono, ai fini della determinazione del diritto alle ferie annuali retribuite, al pari di periodi di lavoro effettivo.
Si pensi ai periodi di fruizione dei congedi parentali (CGUE, Grande sezione, causa C-12/17), ai periodi di malattia, ai periodi di sospensione involontaria della prestazione (ad esempio, per gli eventi che danno diritto all’intervento degli ammortizzatori sociali) (CGUE, sezione IV, causa C-385/17).
Nel caso di percezione di emolumenti inferiori al dovuto a causa di inattività lavorativa non dipendente dalla volontà del lavoratore – come nei periodi di disoccupazione involontaria con sospensione della prestazione – il diritto alle ferie retribuite matura con riferimento alla retribuzione piena o ordinaria spettante durante i periodi di lavoro effettivo e non in base al trattamento inferiore ricevuto durante e a causa della sospensione[3]. Sulla base di tale principio, perfino in caso di reintegra del lavoratore illegittimamente licenziato, la Corte di Giustizia UE ha riconosciuto il suo diritto all’indennità sostitutiva delle ferie maturate dalla data del licenziamento alla data della reintegra[4].
Le statuizioni della Corte di Giustizia, però, hanno approfondito ulteriormente il diritto alle ferie, ritenendo che la sua tutela debba essere basata su criterio sostanziale e quasi teleologico, impedendo che sussistano norme o pattuizioni che attribuiscano al lavoratore maggiorazioni economiche o altri incentivi nel caso in cui rifiutino di fruirne in natura.
In particolare, è stato affermato che “gli incentivi a rinunciare alle ferie come periodo di riposo, ovvero a sollecitare i lavoratori a rinunciarvi, sono incompatibili con gli obiettivi del diritto alle ferie annuali retribuite, (…) legati segnatamente alla necessità di garantire al lavoratore il beneficio di un riposo effettivo, per assicurare una tutela efficace della sua sicurezza e della sua salute (v., in tal senso, sentenza del 6 aprile 2006, Federatie Nederlandse Vakbeweging, C-124/05, EU:C:2006:244, punto 32). Pertanto, ogni azione o omissione di un datore di lavoro, avente un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione di ferie annuali da parte del lavoratore, è altresì incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite (sentenza del 29 novembre 2017, King, C-214/16, EU:C:2017:914, punto 39 e giurisprudenza ivi citata). (…) Un’interpretazione dell’articolo 7 della direttiva 2003/88 che sia tale da incentivare il lavoratore ad astenersi deliberatamente dal fruire delle proprie ferie annuali retribuite durante i periodi di riferimento o di riporto autorizzato applicabili, al fine di incrementare la propria retribuzione all’atto della cessazione del rapporto di lavoro, sarebbe (…) incompatibile con gli obiettivi perseguiti con l’istituzione del diritto alle ferie annuali retribuite” (CGUE, Grande sezione, causa C-684/16).
La soluzione del caso concreto
Nel decidere il caso concreto sottoposto al suo vaglio, nella sentenza commentata la Corte di Giustizia ripercorre e fa propri i principi generali sopra illustrati.
Nella sentenza commentata si legge nuovamente il richiamo al generale assunto, fondato sull’articolo 7, Direttiva 2003/88/CE, che il diritto di ogni lavoratore alle ferie annuali retribuite è un principio particolarmente importante del diritto sociale dell’Unione, al quale non si può derogare[5].
Viene, altresì, ribadito che il diritto alle ferie annuali trova il suo fondamento non solo nella Direttiva 2003/88/CE, ma quale principio base del diritto sociale dell’Unione Europea, espresso dal citato articolo 31, § 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, cui l’articolo 6, § 1, Tue, riconosce il medesimo valore giuridico dei trattati[6].
La sentenza commentata ricorda, altresì, quale sia la funzione essenziale del diritto alle ferie, ovvero quello di migliorare la sicurezza, l’igiene e la salute dei lavoratori durante il lavoro, riconoscendo periodi di riposo adeguati. Il riposo garantito dalle ferie, in particolare, assume “una duplice finalità, ossia consentire al lavoratore, da un lato, di riposarsi rispetto all’esecuzione dei compiti attribuitigli in forza del suo contratto di lavoro e, dall’altro, di beneficiare di un periodo di distensione e di ricreazione”[7].
Dopo aver richiamato l’incompatibilità, con il diritto comunitario, di incentivi diretti a sollecitare i lavoratori a rinunciare al congedo di riposo, la Corte di Giustizia UE ha dato atto che la garanzia della retribuzione ordinaria, durante il periodo di ferie – che non deve essere mai inferiore a quella spettante durante il lavoro effettivo – non è un diritto economico fine a se stesso, ma è lo strumento indispensabile per garantire che il lavoratore non sia indirettamente invogliato a rinunciare alle ferie per guadagnare di più lavorando. Infatti, se la retribuzione versata durante il periodo di ferie è inferiore alla retribuzione ordinaria ricevuta dal lavoratore durante i periodi di lavoro effettivo “lo stesso rischia di essere indotto a non prendere le sue ferie annuali retribuite, almeno non durante i periodi di lavoro effettivo, poiché ciò determinerebbe, durante tali periodi, una diminuzione della sua retribuzione”[8].
Gli Stati membri dell’Unione Europea, quindi, devono rimuovere gli ostacoli di carattere finanziario alla fruizione delle ferie, considerando che il lavoratore può essere dissuaso dall’esercitare il proprio diritto alle ferie annuali, tenuto conto dello svantaggio finanziario, anche se quest’ultimo è differito, cioè si manifesta nel corso del periodo successivo a quello delle ferie annuali[9].
In definitiva, è stato ribadito che “qualsiasi prassi o omissione da parte del datore di lavoro che abbia un effetto potenzialmente dissuasivo sulla fruizione delle ferie annuali da parte di un lavoratore è incompatibile con la finalità del diritto alle ferie annuali retribuite”.
Nel caso in esame, considerando che la contrattazione collettiva esaminata prevedeva la maggiorazione per lavoro straordinario solo al raggiungimento di una certa soglia di ore lavorate su base mensile, la Corte di Giustizia ha convenuto con il giudice del rinvio sul fatto che la norma collettiva potesse essere idonea a dissuadere il lavoratore dall’esercitare il suo diritto alle ferie annuali retribuite. L’esercizio, da parte del ricorrente nel procedimento principale, del suo diritto alle ferie ha comportato che la retribuzione percepita per il mese di agosto 2017 è stata inferiore a quella che avrebbe percepito se non avesse preso ferie durante tale mese; alle stesse conclusioni si sarebbe giunti se il lavoratore avesse fruito di ferie all’inizio del mese, poiché le ore straordinarie eventualmente effettuate da tale lavoratore al suo rientro sarebbero state neutralizzate proprio dai giorni di ferie presi all’inizio del mese. Si tratta di uno svantaggio finanziario differito, collegato pur sempre all’esercizio del diritto al riposo annuale.
La Corte di Giustizia UE, così, è giunta alla conclusione che un meccanismo di contabilizzazione delle ore lavorate come quello di cui trattasi nel procedimento principale non è compatibile con il diritto alle ferie annuali retribuite previsto dall’articolo 7, § 1, Direttiva 2003/88/CE.
È stato, quindi, espresso il seguente principio di diritto: “L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, letto alla luce dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di un contratto collettivo in base alla quale, per determinare se sia stata raggiunta la soglia di ore lavorate che dà diritto ad un aumento per gli straordinari, le ore corrispondenti al periodo di ferie annuali retribuite prese dal lavoratore non sono prese in considerazione come ore di lavoro prestate”.
Osservazioni conclusive
La sentenza in commento ha esaminato una clausola di accordo collettivo piuttosto peculiare, che prevede il pagamento delle ore di lavoro straordinario solo se viene superata una certa soglia di ore “lavorate” mensili. Su quell’impianto collettivo, effettivamente, si nota una distorsione legata alla fruizione delle ferie, che rischia di arrecare uno svantaggio finanziario indiretto al lavoratore che decida di fruirne.
Si è verificato il caso che un lavoratore, durante il mese, ha prestato lavoro oltre la soglia del lavoro ordinario nei primi giorni del mese, ma non ha ricevuto la remunerazione maggiorata proprio a causa della fruizione delle ferie.
Il ricorrente, nel giudizio a quo, aveva lavorato 121,75 ore in 13 giorni, con una media di 9,36 ore al giorno, rispetto alle 8 ore giornaliere previste per avere accesso alle maggiorazioni per lavoro straordinario (184 ore mensili: 23 giorni lavorativi). Il fatto di aver fruito di ferie ha comportato la conseguenza che egli non ha potuto raggiungere la soglia mensile utile alla remunerazione dello straordinario.
I principi espressi dalla Corte di Giustizia, però, assumono un rilievo generale e vanno al di là del caso concreto esaminato.
Ci si chiede se nel nostro ordinamento la sentenza commentata possa trovare applicazione, quantomeno in alcuni casi. Si potrebbe essere indotti a credere che un’eventualità del genere sia remota, alla luce delle previsioni collettive attualmente vigenti, ma la risposta non è affatto scontata.
Alcuni Ccnl prevedono un orario normale di lavoro settimanale (solitamente di 40 ore) e qualificano come straordinario solo quello prestato oltre la soglia delle 40 ore settimanali; si leggano, ad esempio, il Ccnl Turismo o Terziario. Altri Ccnl, invece, prevedono un orario giornaliero (solitamente di 8 ore) e qualificano già come lavoro straordinario la prestazione resa oltre le ore giornaliere normali; si legga, ad esempio, il Ccnl Metalmeccanica industria.
Nei Ccnl rientranti nella prima tipologia potrebbe accadere che il lavoratore fruisca, ad esempio, di 2 giorni di ferie e che negli altri 3 o 4 giorni lavorativi cadenti nella settimana presti lavoro oltre le 8 ore giornaliere, ad esempio 3 giorni per 9 ore lavorate al giorno. Il totale delle ore lavorate nella settimana potrebbe sembrare di appena 27 ore.
In realtà, seguendo il principio espresso dalla Corte di Giustizia UE e computando come lavorati anche i giorni di ferie fruiti nella settimana, il lavoratore ha “prestato lavoro” per 16 ore di ferie e 27 di lavoro in presenza, per un totale di 43 ore, con conseguente diritto alla retribuzione per lavoro straordinario per le 3 ore eccedenti le 40 settimanali.
Nel nostro ordinamento tale risultato è già considerato acquisito; nell’ipotesi appena formulata vengono correttamente riconosciute le ore di straordinario (e stesso principio viene applicato per le festività infrasettimanali non lavorate).
Per i Ccnl rientranti nella seconda tipologia, il principio di diritto della Corte di Giustizia UE sembrerebbe pragmaticamente inapplicabile, perché è qualificata lavoro straordinario ogni ora prestata oltre la soglia ordinaria delle 8 ore giornaliere e non ha incidenza la fruizione di ferie in altri giorni della settimana. Il principio potrebbe trovare astratta applicazione solo laddove possa immaginarsi una fruizione di ferie solo per alcune ore della giornata, ma generalmente si tende a escludere un’eventualità del genere, perché contraria alla finalità stessa dell’istituto.
Il raggiungimento di determinate soglie di presenza al lavoro può assumere rilievo anche per altri istituti. Si pensi, ad esempio, a un premio di produttività finalizzato a contrastare l’assenteismo, che riconosca un trattamento economico solo ai lavoratori che raggiungano determinate soglie di presenza al lavoro. Anche in questo caso, i giorni di ferie fruiti nel periodo di riferimento dovranno essere computati ai fini della verifica del raggiungimento della soglia utile alla maturazione del premio. Eventuali statuizioni contrarie sarebbero nulle, perché in contrasto con il principio sopra esaminato.
[1] CGUE, Grande sezione, causa C-282/10; cfr. anche la “Comunicazione interpretativa sulla direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro” (2017/C-165/01) emessa dalla Commissione Europea.
[2] La causa C-155/2011 richiama a precedenti la sentenza CGUE 20 gennaio 2009, cause riunite C-350/06 e C-520/06, Schultz-Hoff e altri.
[3] Cfr. CGUE, sezione IV, causa C-385/17, cit., durante i periodi di inattività per mancanza di lavoro. Nello stesso senso cfr. CGUE, sezione II, causa C-217/20, secondo cui “L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso osta a disposizioni e a prassi nazionali in forza delle quali, allorché un lavoratore inabile al lavoro a causa di malattia esercita il suo diritto alle ferie annuali retribuite, al fine di determinare l’importo della retribuzione che gli sarà riconosciuta a titolo di ferie annuali retribuite viene presa in considerazione la riduzione, conseguente all’inabilità al lavoro, dell’importo della retribuzione che ha percepito durante il periodo di lavoro precedente a quello nel corso del quale le ferie annuali sono richieste”.
[4] CGUE, sezione I, causa C-762/18: “L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una giurisprudenza nazionale in forza della quale un lavoratore illegittimamente licenziato e successivamente reintegrato nel suo posto di lavoro, conformemente al diritto nazionale, a seguito dell’annullamento del suo licenziamento mediante una decisione giudiziaria, non ha diritto a ferie annuali retribuite per il periodo compreso tra la data del licenziamento e la data della sua reintegrazione nel posto di lavoro, per il fatto che, nel corso di detto periodo, tale lavoratore non ha svolto un lavoro effettivo al servizio del datore di lavoro”.
[5] Viene richiamata a precedente la sentenza del 6 novembre 2018, Kreuziger, C-619/16, EU:C:2018:872, punto 28 e la giurisprudenza ivi citata.
[6] La sentenza commentata richiama a precedente la sentenza Varhoven kasatsionen sad na Republika Bulgaria e Iccrea Banca SpA, cause C-762/18 e C-37/19, EU:C:2020:504, punto 54 e la giurisprudenza ivi citata.
[7] Sono richiamati a precedenti la sentenza Varhoven kasatsionen sad na Republika Bulgaria e Iccrea Banca SpA, C-762/18 e C-37/19, EU:C:2020:504, punto 57 e la giurisprudenza ivi citata, nonché la sentenza Schultz-Hoff e a., C-350/06 e C-520/06, EU:C:2009:18, punto 23.
[8] La sentenza in commento cita a precedente la propria sentenza Hein, C-385/17, EU:C:2018:1018, punto 44, e la giurisprudenza ivi citata.
[9] La Corte richiama, quale proprio precedente, la sentenza Lock, C-539/12, EU:C:2014:351, punto 21.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
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