Obbligo di repêchage e mansioni inferiori: novità normative e recenti orientamenti giurisprudenziali
di Nicola GhirardiL’obbligo di repêchage del datore di lavoro in caso di licenziamento per gmo continua a occupare la giurisprudenza, che interviene con numerose sentenze, sia in relazione all’onere della prova che alle conseguenze dell’eventuale violazione. Particolare attenzione, poi, deve essere posta nel caso in cui, al momento del licenziamento, siano presenti in azienda mansioni inferiori rispetto a quelle assegnate al lavoratore licenziando, anche in relazione alla modifica dell’articolo 2103 cod. civ. a opera del D.Lgs. 81/2015.
Premessa
Il c.d. obbligo di “ripescaggio” del lavoratore licenziando, più comunemente noto come repêchage, è stato recentemente al centro di un accesso dibattito giurisprudenziale, sia per quanto riguarda i suoi aspetti caratterizzanti, sia in relazione alle numerose modifiche legislative della disciplina dei licenziamenti e dello jus variandi del datore di lavoro occorse negli ultimi anni.
In particolare, rilevanti novità sul punto riguardano il nuovo articolo 2103, cod. civ., che, come noto, disciplina la possibilità per il datore di lavoro di mutare le mansioni del lavoratore subordinato. Come vedremo, se da un lato la novella operata dal D.Lgs. 81/2015 ha ampliato notevolmente la possibilità per il datore di lavoro di impiegare il lavoratore in mansioni diverse da quelle inizialmente assegnate, dall’altro ha comportato un aggravamento in termini di prova in caso di licenziamento per gmo, e conseguente obbligo di repêchage.
Licenziamento per gmo e obbligo di repêchage
Sebbene la legge nulla dica in proposito, la giurisprudenza ha da epoca risalente “integrato” la fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo — rifacendosi al principio generale secondo cui il recesso datoriale deve essere la extrema ratio cui ricorrere — ponendo a carico del datore l’obbligo di tentare l’utilizzo del lavoratore licenziando in altre posizioni equivalenti (o, come vedremo, inferiori) presenti all’interno dell’azienda. Solo ove il datore dimostri che tale ricollocamento è impossibile, il licenziamento sarà legittimo. Ciò riguarda sia il caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, sia per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Ciò premesso, le questioni che si pongono in concreto sono molteplici, e in particolare: il datore di lavoro è tenuto a valutare solamente la presenza di mansioni equivalenti o anche inferiori? In questa seconda ipotesi, deve valutare tutte le posizioni o solo quelle più simili a quelle precedentemente svolte? È necessario che sia il lavoratore a farne richiesta o è il datore di lavoro che deve attivarsi offrendo la nuova collocazione (inferiore) al dipendente prima del licenziamento?
Repêchage e mansioni inferiori
Pacifico, dunque, il principio per cui il datore di lavoro non può limitarsi a dare prova dell’avvenuta soppressione del posto di lavoro, ma deve anche dimostrare di non aver potuto adibire il lavoratore ad altre mansioni, più complesso si è rivelato stabilire se tale obbligo riguardi solo mansioni equivalenti o anche inferiori.
La complessità derivava dalla previsione dell’articolo 2103 cod. civ., che limita (seppur in maniera più ampia, dopo la novella del 2015) lo ius variandi alle mansioni equivalenti o superiori, con esclusione delle modifiche in pejus.
La giurisprudenza, da tempo risalente, ha riconosciuto legittima l’adibizione (a determinate condizioni, di cui si dirà) del lavoratore a mansioni inferiori, ove ciò permetta di evitare il licenziamento.
Secondo quanto affermato dall’importante pronuncia delle Sezioni Unite n. 7755/1998 (relativa a un caso di inidoneità fisica sopravvenuta), in questo caso “non sussisterebbe neppure una vera dequalificazione, ma solo un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto (…) sorretto dal consenso, oltre che dall’interesse dello stesso lavoratore. Così, le esigenze di conservazione del posto di lavoro (artt. 4 e 36 Cost.), prevarrebbero su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore (art. 2103 c.c.. ed anche 35, secondo comma, Cost.)”.
Le ragioni poste a fondamento della pronuncia delle Sezioni Unite conservano piena validità anche nell’ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro in conseguenza di riorganizzazione aziendale: anche in quest’ultima ipotesi è, infatti, ravvisabile una nuova situazione di fatto (inerente al nuovo assetto dell’impresa anziché alla sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore) legittimante il consequenziale adeguamento del contratto, così come identiche sono le esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro (prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del lavoratore); al contempo, analoghi devono ritenersi i limiti alla rilevanza dell’utilizzabilità del lavoratore in mansioni inferiori, da individuarsi nel rispetto dell’assetto organizzativo dell’impresa insindacabilmente stabilito dall’imprenditore e nel consenso del lavoratore all’adibizione a tali mansioni.
Sulla base di tale principio, la Cassazione, con sentenza n. 22798/2016, ha rigettato il mezzo di gravame fondato sull’assunto, errato in diritto, secondo cui l’obbligo di repêchage “non si estenda anche alle mansioni inferiori a quelle del lavoratore licenziato“, atteso che, nella fattispecie analizzata, il lavoratore (addetto alle macchine escavatrici) aveva segnalato sin dall’atto introduttivo la circostanza di nuove assunzioni di manovali e la mancata offerta datoriale di compiti equivalenti o anche di livello inferiore e che, nel corso del giudizio, tali avevano trovato conferma, conclamando la violazione dell’obbligo di repêchage.
Consenso del lavoratore e patto di demansionamento
Laddove, in concreto, siano presenti in azienda mansioni inferiori cui possa essere adibito il lavoratore licenziando, si pone il problema dell’eventuale necessità del consenso dello stesso e, più specificamente, quando e in che forme esso debba essere manifestato.
Secondo un primo orientamento, in queste ipotesi non solo deve sussistere un patto di demansionamento, ma anche essere anteriore o coevo al licenziamento (mentre non potrebbe scaturire da una dichiarazione del lavoratore espressa in epoca successiva al licenziamento e non accettata dal datore di lavoro). Solo in questo caso l’obbligo di ricollocamento (e il relativo onere della prova) si estenderebbe alle mansioni inferiori, restando relegato, in caso contrario, a quelle equivalenti.
Secondo un diverso orientamento, oggi maggioritario, non sarebbe invece necessario un patto di demansionamento ovvero una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o coeva al licenziamento, ma dovrebbe essere il datore ad offrire al dipendente le mansioni di livello inferiore.
Così, secondo la citata sentenza di Cassazione n. 22798/2016: “L’art. 2103 c.c. si interpreta alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e quello del lavoratore al mantenimento del posto. Ne deriva che, ove il demansionamento costituisca l’unica alternativa al recesso datoriale, non occorre un patto di demansionamento od una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, ma è onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale”.
In sostanza, non si può sostenere che l’iniziativa finalizzata alla conclusione del patto debba provenire dal lavoratore: se l’impossibilità del reimpiego, anche in mansioni inferiori, è condizione necessaria per legittimare l’esercizio del potere di recesso, è onere del soggetto che quel potere si appresta ad esercitare accertare che ne sussistano i presupposti e, quindi, prospettare al prestatore la scelta fra l’accettazione del demansionamento e la risoluzione del rapporto.
Secondo Cassazione n. 10018/2016 (relativa a un caso di impossibilità fisica sopravvenuta), quindi: “I principi di correttezza e di buona fede, nonché il bilanciamento degli interessi costituzionali, inducono a ritenere che, ove siano disponibili posizioni lavorative “dequalificanti”, il licenziamento sia reso legittimo dalla mancanza di consenso del lavoratore alla offerta del datore, il quale non è esonerato dall’obbligo di ricercare soluzioni alternative, eventualmente comportanti il demansionamento, per il solo fatto che il lavoratore non gli abbia, di sua iniziativa, manifestato la disponibilità ad andare a ricoprire mansioni inferiori compatibili con il suo stato di salute”.
Non è quindi il lavoratore a dover provare di essersi offerto allo svolgimento di mansioni inferiori, ma è il datore a dover dimostrare di avere offerto al lavoratore l’impiego in mansioni inferiori, atteso che è “il mancato consenso a tale offerta che integra la fattispecie complessa che rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo”.
Ove il lavoratore non accetti la proposta, dunque, il datore potrà procedere al licenziamento, restando onerato, in caso di impugnazione del recesso, alla dimostrazione della proposta di ricollocazione alternativa (anche in senso peggiorativo) e del dissenso manifestato dal dipendente. È, pertanto, opportuno che l’offerta di mansioni inferiori avvenga in forma scritta.
Ricordiamo che, secondo la giurisprudenza, le posizioni inferiori vanno proposte solo “ove rientranti nel bagaglio professionale del lavoratore compatibili con l’assetto organizzativo aziendale”, con esclusione degli altri casi.
Qualora il lavoratore impugni l’accordo di dequalificazione eventualmente stipulato, il datore di lavoro dovrà dare prova delle ragioni che avrebbero altrimenti portato al licenziamento per soppressione del posto – così come in un giudizio di impugnazione del licenziamento – spettando al lavoratore in caso contrario il risarcimento dei danni eventualmente subiti in conseguenza del demansionamento, secondo i generali principi in materia.
Affinché il conseguente demansionamento sia legittimo, occorre che l’intento di porre fine al rapporto sia stato “serio e giustificato, e non un espediente per ottenere prestazioni lavorative in elusione di una norma imperativa (art. 2103 c.c.)”.
È consigliabile che il patto di demansionamento sia sottoscritto in una delle sedi protette, con la prescritta assistenza a favore del lavoratore. In particolare, si fa riferimento alla previsione del citato articolo 2103 cod. civ., che, al nuovo comma 4, prevede che “nelle sedi di cui all’art. 2113, comma 4, c.c. o avanti alle commissioni di certificazione, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, della categoria legale e del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. Il lavoratore può farsi assistere da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un avvocato o da un consulente del lavoro”.
La disciplina dello ius variandi dopo la modifica dell’articolo 2103 cod. civ. e i suoi riflessi in materia di repêchage
Nel quadro giurisprudenziale che si è tracciato, si è inserita la modifica dell’articolo 2103 cod. civ., che comporta alcune importanti conseguenze in ordine all’obbligo di repêchage.
Il D.Lgs. 81/2015 ha, infatti, modificato l’articolo 2103 cod. civ., prevedendo ora la possibilità per il datore di lavoro di adibire il dipendente a “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, ampliando il concetto di mansioni equivalenti rispetto al passato (potendo ora, al contrario di quanto ritenuto in precedenza dalla giurisprudenza maggioritaria, assegnarsi legittimamente il lavoratore anche a mansioni sostanzialmente inferiori rispetto alle ultime svolte, se rientranti nel medesimo livello contrattuale). Così, mansioni che prima della novella legislativa sarebbero state considerate inferiori, oggi debbono considerarsi equivalenti.
La norma prevede poi, al comma 2, che “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale”
(in questo caso è prevista la comunicazione per iscritto del provvedimento a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa).
Il nuovo articolo 2103 cod. civ., ha, così, notevolmente ampliato l’ambito delle mansioni equivalenti e ristretto conseguentemente quelle inferiori. In caso di assegnazione del lavoratore da licenziare a mansioni “riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”, il datore di lavoro non potrà pertanto “trincerarsi” dietro alla mancanza di espresso consenso del lavoratore (o di un patto di demansionamento, se si aderisce al primo degli orientamenti giurisprudenziali descritti).
Una delle prime sentenze relative al nuovo articolo 2103 cod. civ. (Tribunale di Milano, 16 dicembre 2016)
Con una recente sentenza, la prima a quanto consta basata sul nuovo articolo 2103 cod. civ., il Tribunale di Milano affronta il caso di una lavoratrice licenziata per gmo in data 28 agosto 2015 (quindi dopo la modifica dell’articolo 2103 cod. civ., di cui si è detto), a causa di una grave crisi economica che aveva interessato l’azienda. La dipendente impugnava il licenziamento, indicando nell’atto introduttivo del giudizio alcune posizioni all’interno dell’azienda (o meglio, nella fattispecie, del gruppo di imprese cui faceva riferimento il datore di lavoro) che la stessa avrebbe potuto ricoprire nonostante la soppressione del suo posto. In particolare, la ricorrente, posta a capo dell’area pianificazione, controllo e analisi mercato, aveva affermato di poter essere adibita anche a mansioni relative ad analisi di dati di vendita e comunque all’ufficio amministrativo.
Il datore di lavoro, convenuto in giudizio, non forniva adeguata prova in merito all’impossibilità di adibire la ricorrente alle posizioni dalla stessa indicate, per cui, secondo il giudice milanese, il licenziamento doveva ritenersi illegittimo, “anche laddove le stesse dovessero considerarsi inferiori ai sensi dell’art. 2103 c.c. nella sua precedente formulazione”, dovendosi infatti applicare in questo caso la norma nella sua nuova formulazione, il che implica “un aggravamento dell’onere di ripescaggio per il datore di lavoro”.
Il Tribunale condannava, quindi, l’azienda al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva – secondo quanto previsto dall’articolo 18, comma 5, St. Lav. – determinata in 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Si dirà n seguito come, recentemente, la Cassazione abbia invece ritenuto come, in caso di violazione dell’obbligo di repêchage, possa trovare applicazione il comma 4, con annessa possibilità per il lavoratore di ottenere anche la reintegra nel posto di lavoro.
Ulteriori questioni relative all’obbligo di repêchage
Prima di concludere, va dato conto di 2 recenti sentenze della Cassazione in materia di ricollocamento del lavoratore, per tracciare un quadro più completo in materia.
La ripartizione dell’onere della prova
In materia di onere della prova, un primo orientamento, dominante sino a pochi anni fa, affermava che, pur incombendo sul datore di lavoro, conseguirebbe tuttavia da un (diverso e propedeutico) onere – a carico del lavoratore – di allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro per la sua utile ricollocazione, in virtù di un preteso obbligo di collaborazione nell’accertamento di un possibile repêchage.
Recentemente, però, la giurisprudenza di legittimità sembra aver nettamente cambiato orientamento, affermando che: “In materia di illegittimo licenziamento per giustificato motivo oggettivo, spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repechage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di un onere di allegazione al riguardo del secondo, essendo contraria agli ordinari principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente”.
Attenzione, dunque, agli oneri allegatori in caso di licenziamento per gmo, che per il datore di lavoro sono decisamente gravosi.
La tutela per il lavoratore in caso di violazione dell’obbligo di repêchage
In vigore dell’articolo 18, St. Lav., nella sua formulazione originaria non vi era distinzione tra il caso in cui non venissero provati i motivi posti a fondamento del licenziamento e la violazione dell’obbligo di repêchage, per cui la sanzione era sempre la reintegra nel posto di lavoro e il risarcimento del danno così come previsto dalla norma citata.
Con l’entrata in vigore della Legge Fornero (L. 92/2012), invece, le tutele applicabili nei 2 casi parrebbero essere diverse, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza sul punto: “Nell’operazione di ridimensionamento delle tutele, operata dal legislatore con la l. n. 92 del 2012, il licenziamento giustificato da ragioni economiche non costituisce più una soluzione estrema per l’imprenditore. Pertanto, nel caso in cui il fatto posto a base del licenziamento sia comprovato e, per la possibilità residua di un repêchage del lavoratore non sia comunque configurabile un giustificato motivo oggettivo, al lavoratore licenziato spetterà la mera tutela indennitaria c.d. forte, di cui al comma quinto dell’art. 18 Stat. Lav.”.
Una recente sentenza della Suprema Corte, in senso opposto, ha però affermato che: “La verifica del requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore. La “manifesta insussistenza” va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti a fronte della quale il giudice può applicare la disciplina di cui al medesimo art. 18, comma 4, ove tale regime sanzionatorio non sia eccessivamente oneroso per il datore di lavoro”.
In caso di violazione dell’obbligo di repêchage, secondo la sentenza citata, il datore di lavoro rischia anche la reintegra, ai sensi del nuovo articolo 18, comma 4, St. Lav., ma solo a determinate condizioni, in particolare che la reintegra non sia ritenuta eccessivamente onerosa.
In caso di nuovi assunti in base al Jobs Act, invece, la questione sembrerebbe più semplice, in quanto in questo caso si applicherà la sanzione prevista dalla normativa, anche dopo la modifica operata dal Decreto Dignità, ovvero un’indennità non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità di retribuzione (tenendo a mente anche la recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 194/2018 in materia).
Conclusioni
In questo complesso quadro giurisprudenziale e normativo, quindi, cosa deve fare il datore di lavoro nel caso in cui intenda sopprimere uno o più posti di lavoro?
- Deve, innanzitutto, valutare se in azienda esistano mansioni equivalenti a quelle precedentemente svolte dal lavoratore, secondo quanto previsto dal novellato articolo 2103 civ. (quindi riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte), ed eventualmente assegnarle al lavoratore interessato, senza che vi sia necessità di una sua richiesta o accettazione;
- nel caso in cui non sussistano mansioni equivalenti, dovrà valutare la presenza di mansioni inferiori – compatibili con l’assetto organizzativo aziendale insindacabilmente stabilito dall’imprenditore stesso – rientranti nel bagaglio professionale del dipendente, con esclusione di quelle del tutto incompatibili con quelle svolte in precedenza, e offrirle al lavoratore, indipendentemente da una sua richiesta in questo senso;
- laddove il lavoratore accetti la dequalificazione per evitare il licenziamento, le parti possono concludere un patto di demansionamento nelle sedi deputate di cui si è detto;
- nell’ipotesi, invece, di espresso rifiuto opposto dal lavoratore (o di mancata accettazione della proposta in un ragionevole arco di tempo) all’adibizione a mansioni inferiori, il datore di lavoro potrà procedere legittimamente al licenziamento.
Nel caso di violazione dell’obbligo di repêchage, il datore di lavoro può rischiare, a determinate condizioni e a seconda della disciplina applicabile al caso concreto, anche la reintegra del lavoratore licenziato.
Un percorso sicuramente non facile per il datore di lavoro, quello del licenziamento per gmo, soprattutto nelle aziende di grandi dimensioni, in considerazione di quanto stabilito recentemente dalla Cassazione di cui si è detto, per cui non deve essere il lavoratore a indicare le mansioni cui avrebbe potuto essere adibito, il che aggrava notevolmente l’onus probandi del datore di lavoro.
In un’ottica prudenziale, si ritiene peraltro che sia opportuno offrire al lavoratore anche mansioni inferiori che non rientrino nel suo bagaglio professionale, soprattutto in un momento storico come quello attuale, in cui la conservazione di un posto di lavoro e della relativa retribuzione ben potrebbe essere considerata sufficiente a giustificare il sacrificio anche notevole della professionalità di cui all’articolo 2103 cod. civ. (al lavoratore decidere se ritiene così dequalificanti le nuove mansioni da preferire il licenziamento).
Si segnala che l’articolo è tratto da “Il giurista del lavoro“.
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