Obblighi relativi al collocamento mirato nelle aziende di vigilanza privata: storia di un rapporto controverso
di Michele DonatiNell’articolo che seguirà proveremo a dare spunti di riflessione relativi alla definizione degli obblighi di collocamento mirato nei confronti delle aziende di vigilanza privata. Come spesso accade nel nostro ordinamento, infatti, non è semplice dare una risposta univoca all’interrogativo relativo alla definizione del quesito di cui sopra, e ciò per via della contemporanea presenza di fonti parimenti autorevoli e contrastanti. Le andremo a esaminare congiuntamente, tentando di trovare una valida linea di approccio.
L’esonero dagli obblighi relativi al collocamento obbligatorio: la posizione ministeriale
La questione relativa all’assolvimento degli obblighi di collocamento mirato per le aziende operanti nel settore della vigilanza privata è stato argomento sin da subito delicato; ascrivibile al novero delle attività “delicate”, si è subito posto il problema della previsione di deroghe per tale settore in relazione all’obbligo di assunzione di lavoratori diversamente abili.
Appare opportuno fare un cappello introduttivo relativamente alla genesi della L. 68/1999 e della funzione del collocamento mirato.
La norma che ancora oggi regola l’istituto è diretta derivazione delle fonti comunitarie, che mirano ad agevolare l’inserimento lavorativo di persone con disabilità; il principio che si mira a tutelare è quello di limare le potenziali disparità in fase di inserimento nel mondo del lavoro.
La realizzazione di tale principio passa in via diretta e immediata attraverso l’obbligo di assunzione di persone iscritte alle apposite liste previste per le categorie protette, in misura proporzionale rispetto alla forza aziendale complessiva aziendale.
La L. 68/1999 costituisce, però, non solo l’espressione di un obbligo, ma anche (e soprattutto) lo strumento mediante il quale viene garantita la possibilità di accesso armoniosa di persone affette da disabilità, in maniera compatibile con la propria situazione personale e, quindi, in base alle capacità lavorative.
Affermare ciò significa anche dover escludere dal novero delle lavorazioni quelle mansioni che, per loro natura, non possono conciliarsi con una disabilità.
Tale approccio appare espressione bilaterale di buon senso: si vuole escludere infatti, da un lato, la previsione di un obbligo che sarebbe oltremodo restrittivo e pregiudizievole per aziende operanti in settori particolari e, dall’altro, si vuole evitare che soggetti appartenenti a categorie protette vengano adibiti a lavorazioni non conformi alla propria situazione personale.
In alcuni casi, le eccezioni di cui sopra sono poi espressione di divieti e limitazioni sancite da altre fonti di legge.
Già la L. 68/1999 prevede delle deroghe al suo interno nella stesura originaria; le eccezioni previste dal Legislatore rappresentavano (e rappresentano) manifestazione di attività e dei principi appena esposti.
La struttura equa pensata dal Legislatore si poggia sulla determinazione della base di computo riparametrata al netto dei lavoratori impiegati in mansioni che non sarebbero esperibili da lavoratori rientranti nelle categorie protette, come ad esempio il personale di cantiere nelle imprese edili, e gli autisti nelle imprese di trasporto.
Nel novero di tali attività non rientravano, almeno direttamente, quelle svolte dalle aziende di vigilanza privata.
La delicatezza di tale ruolo ha imposto da subito un intervento chiarificatore in materia, intervento che non ha tardato a vedere la luce: la nota del Ministero del lavoro n. 1238/2001 chiariva, infatti, che le attività svolte da istituti di vigilanza privata fossero da ascrivere per analogia a quelli di polizia, e quindi di godere del particolare regime previsto dall’articolo 3, comma 4, L. 68/1999; secondo il dettato della norma appena menzionata, la base di computo della forza lavoro utile ai fini della determinazione dell’assolvimento degli obblighi per collocamento mirato deve tenere conto del solo personale amministrativo.
La genesi di tale nota è da ricercarsi nell’impulso che a suo tempo proveniva dalle aziende di settore, che chiedevano una linea da seguire in merito.
La motivazione fornita dal Dicastero traeva origine dalla sussistenza di requisiti psicofisici in capo ai soggetti che svolgono tale tipologia di attività, la quale, per sua stessa natura, può prevedere la prevenzione e la repressione (anche con la forza) di atti dannosi; proseguiva la nota ministeriale elencando specificatamente il rilascio del porto d’armi quale risultante, tra l’altro, del possesso di tali requisiti.
Sempre sullo stesso filone si vanno a collocare altre 2 pronunce del Ministero del lavoro.
In primo luogo, le Faq, che richiamano in maniera sintetica ma diretta la nota del 2001 e, quindi, l’applicabilità della disciplina sancita dall’articolo 3, comma 4, L. 68/1999.
La fonte ministeriale che in questo senso sembrava poter autorevolmente chiudere il cerchio in materia era sicuramente la risposta all’interpello n. 19/2013, promosso dal Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro.
Il testo del chiarimento ministeriale non solo forniva una risposta qualificata ed esaustiva, ma raggiungeva tale risultato mediante specificazioni pratiche estremamente chiare.
Di fatto, veniva operata in questa sede una distinzione centrale tra attività di antincendio e sorveglianza museale (per la quale non operava l’eccezione sancita dall’articolo 3, comma 4, L. 68/1999, e quindi la base di computo deve essere determinata dall’intero organico aziendale), e quelle di vigilanza in senso stretto (per le quali, invece, poteva essere applicata il dettato previsto per le forze di Polizia).
L’autorevolezza della risposta e le sue salde fondamenta hanno fatto sì che, nel tempo, gli operatori del settore (su tutti e per primi gli uffici dei Ciof – Centro per l’impiego orientamento e formazione – deputati alla gestione del collocamento mirato), sposassero in toto tale approccio, trasformandolo di fatto in prassi consolidata.
La sentenza di Cassazione n. 12911/2017: stravolgimento dell’approccio preesistente
Tutto bene fino al 23 maggio 2017, quando la Cassazione ha emesso la pronuncia n. 12911/2017, destinata a fare da spartiacque.
Oggetto della pronuncia una controversia avente ad oggetto il licenziamento, al termine di una procedura di mobilità, di un lavoratore rientrante nelle categorie protette ed effettuato da parte di un’azienda operante nel settore della vigilanza privata, e per effetto del quale il datore di lavoro sarebbe sceso al di sotto delle soglie relative alla quota di riserva.
Veniva eccepita in questo senso l’esclusione degli obblighi relativi al collocamento mirato per effetto dell’applicazione per analogia dell’articolo 3, comma 4, L. 68/1999. Tale tesi, però, non era accolta per un duplice filone di ragioni.
In primo luogo la Suprema Corte opera un percorso storico sulla genesi della L. 68/1999, andando ad attingere dalle fonti di diritto comunitario, che mirano a favorire i soggetti affetti da disabilità nella fase di inserimento nel mondo del lavoro, precisando che l’iter storico che i Legislatori delle varie fonti hanno disegnato rappresenta piena espressione della volontà di cui sopra.
Tale approccio viene usato quale supporto per escludere qualsiasi applicazione per analogia delle eccezioni pedissequamente elencate dal testo di legge, e quindi, neanche troppo indirettamente, disconoscere il disposto della nota ministeriale n. 1238/2001.
La pronuncia giurisprudenziale, anzi, disconosce in maniera palese la nota del Dicastero, rivendicando anche la supremazia della legge rispetto alla prassi amministrativa.
A suffragio di tale impostazione, la pronuncia della Cassazione va a citare una differente fonte del Ministero, il D.M. 357/2000 (quindi anteriore alla nota n. 1238/2001), che costituisce una specificazione dell’articolo 5, comma 3, L. 68/1999, norma che, nello specifico, disciplina le modalità operative relative all’esonero parziale.
Tale istituto rappresenta la possibilità, concessa dalla normativa vigente, di tramutare l’obbligo di collocamento mirato in un esonero a titolo oneroso (mediante il versamento di un importo giornaliero per ogni giornata di mancato rispetto delle quote di riserva), al ricorrere di particolari condizioni di difficoltà dell’attività e/o della possibilità di avvalersi di personale iscritto alle liste previste per le categorie protette da impiegare in determinate mansioni.
La pronuncia della Cassazione, nello smontare l’applicazione per analogia dell’articolo 3, comma 4, L. 68/1999, agli istituti di vigilanza privata, cita espressamente l’articolo 3, commi 1 e (soprattutto) 2. Tale norma prevede che, tra gli elementi determinanti nella positiva definizione dell’esonero parziale, siano considerati la faticosità della prestazione lavorativa richiesta, la pericolosità dell’attività svolta e le sue particolari modalità di attuazione.
Al ricorrere degli elementi di cui sopra, l’autorizzazione all’esonero parziale può essere effettuata fino alla misura percentuale massima del 60%, misura elevata sino all’80% per le aziende operanti nel settore della sicurezza e della vigilanza, nonché in quello del trasporto privato.
L’argomentazione addotta nella pronuncia della Suprema Corte evidenzia come la presenza di tale previsione costituisca implicita conferma dell’assoggettamento alle norme del collocamento mirato, sebbene a condizioni agevolate rispetto alla generalità delle imprese.
Entrambe le osservazioni possono essere passibili di osservazioni e critiche.
Relativamente al primo rilievo si può eccepire che la funzione sovraordinata del collocamento mirato è quella di consentire l’inserimento armonioso del lavoratore disabile nel mondo del lavoro; non escludere attività rischiose per un mero principio di divieto di analogia normativa appare potenzialmente contrario alla stessa volontà del Legislatore.
Sul secondo punto, pur riconoscendo l’autorevolezza e la rilevanza della citazione, si sottolinea che lo stesso articolo 3, comma 2, D.M. 357/2000, fissa la medesima soglia di esclusione ai fini dell’esonero parziale anche per le attività di trasporto, per le quali però, già l’articolo 5, comma 2, L. 68/1999, prevede uno specifico esonero dalla base di computo per i lavoratori che svolgono la mansione di autisti; pare quindi possibile affermare che la fonte ministeriale di specificazione del testo di legge citata dalla Suprema Corte sia stata in realtà pensata con altra finalità rispetto a quella oggetto di interpretazione da parte della Cassazione n. 12911/2017.
Quale approccio operativo seguire?
Alla luce del cappello normativo, amministrativo e giurisprudenziale esposto in precedenza, appare sicuramente delicato e per nulla agevole definire in maniera univoca e certa l’approccio da seguire in materia di collocamento mirato per le attività di vigilanza privata.
Tale aspetto è indirettamente confermato anche dalle soluzioni adottate dagli stessi interlocutori interessati (Ispettorato del Lavoro, Centri per l’impiego), caratterizzate certo da un filo logico comune, piuttosto che da un’unicità pedissequa di comportamento.
Nella prassi, infatti, le linee da essi fornite vanno spesso nel rispetto delle specificazioni contenute nella nota ministeriale n. 1238/2001 e dall’interpello n. 19/2013, con alcuni distinguo, perlopiù legati alla definizione della base di computo con particolare riguardo alle figure che effettuano servizi non armati e di portierato, i quali spesso vengono parificati a coloro che, nell’interpello n. 19/2013, non svolgono attività di vigilanza in senso stretto e, quindi, da ricomprendere nella base di computo; appare invece abbastanza consolidato l’orientamento che tende in ogni caso ad escludere le guardie particolari giurate, anche in virtù del fatto che tale attività presuppone il possesso del porto d’armi e degli annessi requisiti di idoneità.
Di certo, anche gli organi amministrativi tendono a contemperare il rispetto della L. 68/1999, con la tutela della collocazione nel mondo del lavoro delle persone appartenenti a categorie protette, ma anche con la loro salvaguardia dell’integrità psico-fisica dei lavoratori interessati, andando a evitare situazioni di difficoltà legate allo svolgimento di mansioni non compatibili con la propria situazione personale.
Nella pratica, come comportarsi in ipotesi di dubbio?
Il consiglio generale è quello di confrontarsi costantemente e in maniera costruttiva con gli Enti (ITL e Centro per l’impiego competente per territorio in materia di collocamento mirato).
Al superamento delle soglie previste dalla L. 68/1999, appare opportuno valutare in primo luogo la tipologia e la classificazione del personale in forza, distinto per mansione e inquadramento (guardie particolari giurate, addetti a servizi di portierato non armato, addetti a ruoli amministrativi).
A questo punto, può essere utile confrontarsi con l’ufficio territorialmente competente del Centro per l’impiego; si sono registrati casi di proficua collaborazione, specie con gli uffici legali dei suddetti organi amministrativi, che hanno addirittura rilasciato risposte scritte circa la corretta applicazione della norma legata alla fattispecie concreta.
Si può quindi affermare che, dal punto di vista della disciplina generale da seguire in materia di collocamento mirato da parte degli istituti di vigilanza privata in relazione al rispetto degli obblighi sanciti in materia di collocamento mirato, l’approccio da seguire sia quello tracciato dalle autorevoli pronunce ministeriali (che si muove nella direzione di escludere dal computo il personale che effettua attività di vigilanza, andando a conteggiare soltanto coloro che sono adibiti a funzioni amministrative), le quali tra l’altro appaiono supportate da valide fondamenta sostanziali.
Tale tesi appare sostenuta e sostenibile anche per via del fatto che appare quantomeno illogica l’eventualità che organismi periferici ministeriali adottino provvedimenti in contrasto con disposizioni consolidate di derivazione a essi sovraordinata.
Non di meno, però, si può tacere di fronte a una pronuncia giurisprudenziale, ancor più di grado più elevato. Si sono più volte nel corso dell’articolo evidenziate (seppur sommessamente) le lacune giuridiche a supporto della pronuncia della Suprema Corte n. 12911/2017; vero è, però, che tale sentenza esiste.
Come comportarsi di fronte ad essa?
A parere di chi scrive appare opportuno circostanziarne il raggio d’azione: la Cassazione presa in esame ha come oggetto una fattispecie di licenziamento, tant’è che viene anche citato il disposto dell’articolo 10, comma 4, L. 68/1999, il quale stabilisce la nullità del licenziamento (sia esso collettivo o per gmo) di lavoratore disabile in ipotesi che tale provvedimento comporti per l’azienda il sopravvenuto mancato rispetto della quota di riserva; siamo quindi in un contesto di recesso datoriale.
Senza in alcun caso voler affermare che esistono 2 differenti e opposte discipline per la medesima situazione, sembra però consigliato tenere conto della pronuncia (ancorché dubbia e discutibile) della Corte di Cassazione, specie all’interno di fattispecie legate al licenziamento del lavoratore assunto obbligatoriamente, e alla contestuale verifica del perdurare del rispetto della quota di riserva (anche nell’ottica più ampia in cui viene letta dalla Cassazione.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro“.
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