O si sciopera o si lavora, e bene
di Evangelista Basile
A distanza di poche settimane, torniamo a parlare di sciopero grazie a una recente pronuncia della Corte di Cassazione. Avevamo infatti commentato pochi giorni fa – proprio da questo Blog – la sentenza n.24653/15, con la quale la Suprema Corte aveva precisato i limiti dello sciopero, che deve concretarsi – per essere legittimo – in un’astensione collettiva (e non individuale) che non pregiudichi diritti di pari rango costituzionale (vita, sicurezza, produttività aziendale etc.).
Con la sentenza n.1350 del 26 gennaio 2016 la Corte di Cassazione si è nuovamente pronunciata sulla nozione di sciopero, affrontando tuttavia il diverso tema delle modalità con cui i dipendenti operano l’astensione dal lavoro.
Esistono infatti delle forme “abnormi” di sciopero che –per le modalità con cui sono condotte – sono ritenute illegittime o neppure integranti la nozione di sciopero.
A tale proposito – per arrivare al caso che ci occupa – la giurisprudenza ha più volte affermato che l’astensione “parziale” dal lavoro, consistente nel rifiuto di svolgere alcuni soltanto dei compiti assegnati al dipendente (c.d. sciopero delle mansioni) è ritenuta estranea al concetto di sciopero e per questo illegittima.
Ebbene, il caso giurisprudenziale preso in considerazione dalla Corte di Cassazione riguarda un portalettere che – sulla base di un proclamato sciopero – si era rifiutato di consegnare una parte della corrispondenza di un collega assente incaricato per le consegne in altra zona della medesima area territoriale (compito di “sostituzione” imposto da una specifica norma del contratto collettivo). È del tutto evidente che l’astensione non era dal lavoro straordinario o da un orario delimitato, ma riguardava il rifiuto di eseguire una delle prestazioni dovute, sì da concretarsi – nei fatti – in un inadempimento contrattuale sanzionabile disciplinarmente.
Anche in altre circostanze la Suprema Corte (cfr. Cass. n.2214/86; Cass. n.12977/11; Cass. n.23528/13; Cass. n.25817/14; Cass. n.14457/15) ha chiarito che lo sciopero – per essere legittimo – deve risolversi nella mancata esecuzione in forma collettiva della prestazione lavorativa, con corrispondente perdita della relativa retribuzione. Questa mancata esecuzione deve estendersi per una determinata unità di tempo: una giornata di lavoro, più giornate, oppure periodi di tempo inferiori alla giornata, sempre che non si vada oltre quella che viene definita “minima unità tecnico temporale”, al di sotto della quale l’attività lavorativa non ha significato, esaurendosi in un’erogazione di energie senza scopo. Ci si colloca, quindi, al di fuori del diritto di sciopero quando – come nel caso esaminato – il rifiuto di rendere la prestazione per una data unità di tempo non sia integrale, ma riguardi solo uno o più tra i compiti che il lavoratore è tenuto a svolgere.
Mi tornano alla mente gli insegnamenti pisani del prof. Giuseppe Pera, il quale – nell’evidenziare l’inconciliabilità del lavorare scioperando – precisava così i limiti alla nozione di sciopero: “o si va in fabbrica per lavorarvi regolarmente o non vi si va”.