No alla reintegra nel licenziamento illegittimo per la nullità della prova
di Luca VannoniQualche mese fa avevano suscitato scalpore due sentenze di merito, di Torino e Milano, che avevano disposto la reintegra in due casi di illegittimità del licenziamento per nullità del patto di prova.
Partendo dal presupposto che sia nel novellato articolo 18 sia nel D.Lgs. 23/2015 sulle tutele crescenti manca un’espressa disciplina delle conseguenze in caso di licenziamento intimato sulla base di un patto di prova che si dimostra nullo, i giudici di merito avevano colmato il silenzio normativo con un’interpretazione alquanto creativa: se il patto di prova è nullo, l’illegittimità del licenziamento che si determina è riconducibile all’ipotesi in cui sia direttamente provata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
La perplessità era chiara: come potevano equipararsi, tanto da giustificare l’interpretazione analogica, la nullità del patto di prova con l’insussistenza materiale di un fatto, ipotesi che riguarda esclusivamente il licenziamento disciplinare?
Vero che, in entrambe le situazioni, il licenziamento si vede svuotate le proprie motivazioni, altrettanto vero è che la misura reintegratoria prevista dall’articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015, si riferisce esclusivamente ai licenziamenti disciplinari.
Recentemente, con sentenza dell’8 aprile 2017, il Tribunale di Milano ha fornito una diversa interpretazione, stabilendo che “… non si ritiene … applicabile la tutela prevista per l’insussistenza del fatto contestato (art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015) posto che, alla stregua del tenore letterale della norma, essa è applicabile ai soli licenziamenti di natura disciplinare, mentre il mancato superamento della prova di per sé non integra né presuppone necessariamente una condotta disciplinarmente rilevante”.
Pertanto, il tribunale meneghino ha disposto, nel caso in questione, la condanna del datore di lavoro, ferma restando l’estinzione del rapporto, al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il Tfr per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 4 e non superiore a 24 (articolo 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015).
Al di là di quelli che saranno in futuro gli sviluppi giurisprudenziali sul punto, è opportuno mettere in evidenza i rischi che si possono determinare da indicazioni eccessivamente fumose delle mansioni, aspetto da cui può conseguire la nullità del patto di prova. Nella sentenza in commento era stata utilizzata la dizione di “analyst consultant”, assolutamente ermetica e non in grado di fornire anche un minimo dettaglio del contenuto professionale richiesto al lavoratore.
Se, prima della modifica dell’articolo 2103 cod. civ., la genericità nell’individuazione delle mansioni sembrava poter consentire una più ampia possibilità per il datore di lavoro di variare unilateralmente le mansioni, anche a rischio di vedersi contestato il patto di prova, oggi tale norma, a seguito delle modifiche operate dal D.Lgs. 81/2015, è molto più flessibile, in quanto individua il margine di variazione nel livello di assegnazione del lavoratore e non più sul presupposto dell’equivalenza delle mansioni.
Attenzione quindi: un maggior rigore nella definizione delle mansioni evita il rischio che il patto di prova sia considerato nullo, senza togliere nulla alla variabilità unilaterale delle stesse.
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