23 Settembre 2024

Il motivo oggettivo di licenziamento nelle tutele crescenti: l’illegittimità costituzionale e il “ritorno” della reintegrazione

di Federico Avanzi Scarica in PDF

Con la sentenza n. 128/2024, la Corte Costituzionale torna a pronunciarsi sulle c.d. tutele crescenti, questa volta occupandosi dell’articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015, e, segnatamente, riguardo all’esclusione del lavoratore dalla reintegrazione in azienda, in tutti i casi d’illegittimità del licenziamento per motivo oggettivo, finanche nell’ipotesi di accertata insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro.
Al fine di meglio comprendere, anche in prospettiva, le ragioni e i “confini” dell’esito d’incostituzionalità dichiarato in pronuncia, appare utile ripercorrere le tappe della vicenda, a cominciare dai precedenti della Consulta inerenti all’articolo 18, L. 300/1970 post Fornero, per arrivare poi alle diffuse argomentazioni contenute nell’ordinanza di rimessione del Tribunale di Ravenna.

 

L’ultimo(?) capitolo della saga “Tutele crescenti

Nel cuore dell’estate, il 16 luglio scorso, con la sentenza n. 128/2024, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi sulla disciplina a tutela del licenziamento illegittimo di cui al D.Lgs. 23/2015, c.d. “Tutele crescenti”.

In quest’ultimo(?) – e certamente atteso – capitolo della saga, che già può “vantare” 4 dichiarazioni d’incostituzionalità[1] e 2 formali ammonimenti della Consulta, a rivedere in termini complessivi la materia[2], il vaglio di conformità al dettato della Carta si concentrava sull’ulteriore restringimento dell’ambito applicativo della reintegra c.d. attenuata[3], essendo che la stessa, per i lavoratori assunti[4] con decorrenza 7 marzo 2023, veniva dal Legislatore del Jobs Act circoscritta “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” (articolo 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015).

Una differenza sostanziale rispetto a quanto, invece, previsto dall’articolo 18, L. 300/1970, così come novellato dall’articolo 1, comma 42, L. 92/2012, il quale, pur introducendo un’inedita[5] graduazione di tutele, dipendente dalla gravità del vizio affliggente l’atto di recesso, tanto nell’ipotesi di licenziamento qualificato come “disciplinare” (articolo 18, comma 4, L. 300/1970), quanto in evenienza di ragioni addotte di natura economica (articolo 18, comma 7, L. 300/1970), all’accertamento giudiziale dell’“insussistenza del fatto” faceva, comunemente, conseguire la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre al pagamento di un’indennità risarcitoria – dedotto l’aliunde perceptum e percipiendum – e la regolarizzazione – con applicazione delle sanzioni civili per omesso versamento – della posizione contributiva.

Certamente, a tal riguardo, va ricordato come anche l’articolo 18, L. 300/1970, post Fornero, e proprio sul versante del motivo oggettivo di licenziamento, avesse necessitato, poco addietro, di un duplice intervento di “revisione” costituzionale.

 

Esiste un giudice … a Ravenna!

E – tutt’altro che – fatalmente, così come per la pronuncia in commento, anche in quelle occasioni, ossia con le sentenze n. 59/2021 e n. 125/2022 della Corte Costituzionale, la “spinta” al controllo di costituzionalità proveniva – oggi può dirsi, non a torto -, non solo dal medesimo foro, quello di Ravenna, ma anche per mano dallo stesso magistrato remittente[6].

Ma più che per questa coincidenza, un cenno ai menzionati precedenti appare di sicura utilità, per via di alcuni significativi passaggi contenuti nelle loro motivazioni e che, col senno di poi, oltre a facilitare una piena comprensione della sentenza n. 128/2024 della Corte Costituzionale, sembrano anche, quantomeno per alcuni aspetti, anticiparne gli esiti.

Invero, già nella pronuncia del 2021, nell’obliterare il verbo “può” dall’articolo 18, comma 7, secondo periodo, L. 300/1970, e inibendo, così, ogni discrezionalità del giudice circa la scelta da operare, fra reintegrazione e sanzione meramente indennitaria di cui al comma 5, la Corte Costituzionale si era prodigata in importanti riflessioni concernenti, più in generale, la fattispecie del gmo e, nello specifico, i “confini” costituzionali entro cui la disciplina a tutela del prestatore illegittimamente estromesso doveva, necessariamente, muovere.

Riguardo al primo aspetto, obbligati a procedere dal dato normativo della “manifesta[7] insussistenza del fatto”, quale indefettibile premessa per l’accesso alla c.d. tutela reale attenuata, i giudici della Consulta ne fornivano un’interpretazione direttamente agganciata all’articolo 3, L. 604/1966, vale a dire traducendola nell’“evidente assenza dei presupposti di legittimità del recesso”, che per il motivo oggettivo dovevano intendersi:“le ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento, il nesso causale che lega il recesso alle scelte organizzative del datore di lavoro e, infine, l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore[8].

Puntualizzato, poi, che anche l’assenza di uno solo di questi consentiva l’operare della tutela in forma “specifica”, nella pronuncia si spiegava, altresì, che, nella prospettiva del “fatto” normativamente rilevante, gli elementi in questione, compreso il c.d. repêchage, ancorché letteralmente inespresso, “si raccordano tutti all’effettività della scelta organizzativa del datore di lavoro[9].

Sotto il secondo profilo, invece, rammentando che l’esigenza di circondare di “doverose garanzie” e di “opportuni temperamenti” la disciplina del licenziamento non significava anche, di riflesso, che la reintegrazione fosse l’unico possibile paradigma attuativo[10], la Corte Costituzionale andava poi a concentrarsi sui motivi di contrasto del nuovo regime, con i principi di eguaglianza e ragionevolezza sanciti dall’articolo 3, Costituzione.

In particolare, il ragionamento che conduceva all’illegittimità del novellato articolo 18, L. 300/1970, muoveva dal considerare come, in realtà, la discrezionalità del Legislatore nel circoscrivere l’applicazione della tutela reintegratoria avesse dato testuale rilievo, tanto nell’ipotesi disciplinare, quanto in quella “economica”, “al presupposto comune dell’insussistenza del fatto” posto a fondamento del recesso, sicché, le peculiarità – perfino procedurali[11] – proprie di ciascuna tipologia, “non legittimano una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione”, questo anche perché, continuava la Corte: “L’insussistenza del fatto, pur con le diverse gradazioni che presenta nelle singole fattispecie di licenziamento, denota il contrasto più stridente con il principio di necessaria giustificazione del recesso del datore di lavoro, che questa Corte ha enucleato sulla base degli artt. 4 e 35 Cost.[12].

Del pari, anche il ricorso al criterio discretivo dell’“eccesiva onerosità”, pure avanzato in qualche precedente della Corte di Cassazione[13], veniva dalla Consulta ritenuto “sprovvisto di un razionale fondamento”, in ragione di 2 principali osservazioni[14]:

a) una prima, che rispetto al modello civilistico delineato all’articolo 2058, cod. civ., le opzioni rimesse alla scelta del giudicante, nel momento di adozione del provvedimento giudiziale, non potevano, di certo, ritenersi “equivalenti”, avendo il rimedio indennitario di cui all’articolo 18, comma 5, L. 300/1970, rispetto alla reintegrazione prevista al comma 4, “un contenuto ridotto”;

b) una seconda, che, diversamente opinando e volendo così riferirsi al mutamento della struttura organizzativa dell’impresa medio tempore intervenuta, la preclusione alla maggior tutela sarebbe stata, per un verso, “riconducibile allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo e può dunque prestarsi a condotte elusive”, per altro, “intervenire a distanza di molto tempo dal recesso ed è pur sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso con la gravità della singola vicenda di licenziamento”.

In sostanza, per quel che rileva qui, pur in quadro normativo in cui era il medesimo Legislatore a valorizzare la “unicità” della tutela, con eccezione di costituzionalità circoscritta, dunque, all’assenza di criteri applicativi della stessa, può intravedersi come, già nel 2021, la Corte Costituzionale avesse collocato l’insussistenza del fatto in un “momento” precedente ed esterno[15] alle fattispecie nominate all’articolo 3, L. 604/1966, con la conclusione di “priva[re] di una ragione giustificatrice plausibile la configurazione di un rimedio meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici”[16].

Nel solco della medesima logica e con espressi richiami alla sua parte motiva, procedeva, nondimeno, la successiva sentenza del maggio 2022, la quale addiveniva a espungere dal testo dell’articolo 18, comma 4, L. 300/1970, anche dell’aggettivo “manifesta”.

Per vero, oltre a riaffermare le componenti del “fatto” giuridicamente rilevante[17] ed escludendo, invece, ciò che dal suo senso stretto esula, come “il mancato rispetto della buona fede e della correttezza che presiedono alla scelta dei lavoratori da licenziare, quando questi appartengono a personale omogeneo e fungibile[18], i giudici della Consulta stigmatizzavano come: “La sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi[19].

Inoltre, nel riscontrarne negativamente motivazioni di ordine processuale, la Corte Costituzionale evidenziava, in conclusione, come tale aggettivazione non avesse “alcuna attinenza con il disvalore del licenziamento intimato, che non è più grave, solo perché l’insussistenza del fatto può essere agevolmente accertata in giudizio[20], risultando, anzi, “eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento[21].

Per farla in prosa, e volendo riassumere gli esiti delle anzidette pronunce, secondo la Consulta, per un verso, il “fattoex articolo 18, comma 4, L. 300/1970, corrispondeva ai presupposti, ivi incluso il repêchage, della fattispecie normativa[22] di cui all’articolo 3, L. 604/1966; dall’altro, in caso di accertamento giudiziale, anche in parte negativo su di essi, dovendosi, a quel punto, prescindere dalla natura (recte, qualificazione) solo astrattamente differente del licenziamento, l’insussistenza era sempre insussistenza e unica non poteva che essere la “sanzione”.

 

Le tutele crescenti e la nuova ordinanza di rimessione

E, riflettendo su tali approdi, peraltro nell’immediatezza fatti propri dalla giurisprudenza di Cassazione[23], non poteva che intensificarsi[24] anche il ragionamento sui profili d’incostituzionalità delle tutele crescenti e della scelta legislativa, ancor più radicale, di negare tout court al prestatore subordinato, in caso di licenziamento per motivo oggettivo, la tutela del “rientro” in azienda.

Fino a che, come anticipato, ancora una volta dal Foro ravennate, il 27 settembre 2023 veniva formalmente emessa una nuova ordinanza di remissione innanzi al giudice delle leggi, questa volta col fuoco puntato sull’articolo 3, commi 1 e 2, D.Lgs. 23/2015.

In brevis, l’occasione era fornita dal ricorso di un lavoratore assunto a tempo indeterminato, avverso un licenziamento intimato ex articolo 3, L. 604/1966, con la peculiarità rappresentata dal fatto che, nel caso di specie, il datore di lavoro era un’agenzia di somministrazione, di cui all’articolo 4, D.Lgs. 276/2003; circostanza, questa, di un certo rilievo[25], posto che, come noto, nella particolare struttura del rapporto di lavoro somministrato, la ricerca di altra occupazione ai fini dell’onere di c.d. ripescaggio finisce per coincidere con l’oggetto dell’adempimento contrattuale assunto dall’agenzia nei confronti del dipendente[26], quantomeno entro i termini prescritti dal Ccnl di settore[27].

E, infatti, l’essenza della controversia verteva tutta sull’esecuzione, nonché gli esiti, dell’attivata “procedura in mancanza di occasioni di lavoro”: da una parte, il datore di lavoro ne propugnava l’infruttuoso esperimento, ritendo, così, del tutto fondata l’irrogazione del recesso per gmo; dall’altra, sempre riguardo al periodo contrattuale di “messa in disponibilità”, il prestatore estromesso ne contestava l’asserita mancanza di offerte disponibili, sostenendone, al contrario, l’esistenza, ma con destinazione a beneficio di altri lavoratori.

Cosicché, verificato documentalmente l’avvio di un cospicuo numero di contratti di somministrazione “compatibili[28] e, ciononostante, mai esibiti al dipendente poi licenziato, il giudice adito ne deduceva un rilevante fumus di fondatezza della domanda, “apparendo insussistente l’adempimento dell’obbligo di repêchage[29] e prendendo così la stura per argomentare le asserite questioni di costituzionalità della normativa in discorso.

Sommariamente riepilogando, ad avviso del Tribunale di Ravenna, l’esclusione, normativamente imposta, della reintegrazione in caso di licenziamento “non disciplinare”, risulterebbe censurabile sotto una pluralità di profili:

  1. articolo 3, comma 1, Costituzione: la distinzione di disciplina tra il caso del gmo e gms, in relazione all’ipotesi in cui entrambi risultino accertati dal giudice come motivati su fatti insussistenti, apparirebbe “ingiustamente discriminatoria, essendo al contrario i due fenomeni identici o, se non altro, assolutamente omogenee [e non discutendosi, ndA] ovviamente della diversità strutturale tra le fattispecie del licenziamento disciplinare e per motivo oggettivo (ciò che, a livello retorico, potrebbe essere individuato come falso bersaglio al fine di escludere l’esistenza della discriminazione)”. In aggiunta, una siffatta preclusione avrebbe, per il datore di lavoro, “un effetto addirittura ammiccante l’illecito nel momento in cui gli si concede la possibilità di impedire la reintegrazione (altrimenti dovuta) semplicemente qualificando in un certo modo piuttosto che in un altro un motivo – comunque inesistente – di licenziamento”[30];
  2. articoli 1, 2, 3, commi 1 e 2, 4, comma 1, 35, comma 1, 41, commi 1 e 2, Costituzione: l’indennità economica compresa fra 6 e 36 mensilità, a fronte di azienda di certe dimensioni (c.d. over 15) e in grado di sopportare le conseguenze di una reintegrazione, risulterebbe inadeguata, poiché rivolta a ristorare il solo pregiudizio patrimoniale, mentre il lavoratore patirebbe, dall’immotivato recesso, danni di tipo anche non patrimoniale (ad esempio, alla sua professionalità), oltreché previdenziale (aggravato dai criteri di calcolo de vigenti regimi pensionistici)[31];
  3. articoli 76 e 117, comma 1, Costituzione, in relazione all’articolo 24, Carta Sociale Europea: le argomentazioni di cui al punto che precede, corroborate dalle valutazioni espresse, in più occasioni, dal Comitato Sociale Europeo[32], porterebbero ugualmente a escludere, in favore del dipendente illecitamente estromesso, la possibilità di ottenere “un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”[33];
  4. articolo 3, comma 1, Costituzione, in rapporto all’articolo 18, comma 7, L. 300/1970: “In assenza di un motivo ragionevole (comparazione interessi in gioco: rinvio al 2° vizio), risulta ingiustificatamente discriminatorio applicare ai lavoratori assunti dal 6.3.2015 il trattamento deteriore dell’art. 3, 1° comma decreto n. 23 in luogo di quello spettante ai lavoratori assunti prima di tale data ai sensi dell’art. 18, 7° comma, Statuto[34];
  5. ancora articolo 3, commi 1 e 2, Costituzione: avuto riguardo di quanto previsto dagli articoli 1453 e 2058, cod. civ., “non si comprenderebbe già (anche se non vi fossero gli artt. 1, 2, 4, 35 e 41, 2° comma Cost.) come le tutele in tema di licenziamento illegittimo potrebbero essere così diverse (e meno satisfattive) da quelle spettanti nel diritto civile generale”, con l’aggravante che “L’esclusione della tutela reintegratoria in uno con il tetto massimo all’indennizzo, importa un duplice beneficio al datore di lavoro, che va esente dalla prima e si vede un limite nella seconda[35].

 

La Corte Costituzionale nella sentenza n. 128/2024

E finalmente giunti alla disamina della sentenza n. 128/2024, va subito detto che, nei fatti, il giudizio della Corte Costituzionale si concentra ed esprime rispetto al primo dei vizi denunciati nell’ordinanza di remissione, trovando così, implicitamente, conferma, le facoltà dell’agire legislativo, tanto in applicazione di un trattamento differenziato, sul presupposto del “fluire del tempo[36], quanto nel prevedere un tipo di tutela “per equivalente”, a solo contenuto risarcitorio-monetario[37].

Ma venendo al cuore del provvedimento, dopo aver premesso che l’evoluzione[38] del quadro normativo in materia di licenziamenti, “si caratterizza per la stabilità della definizione della ragione legittimante, mentre è segnato da significative modifiche del sistema rimediale, che hanno portato per esso ad un progressivo ridimensionamento nel tempo della tutela reintegratoria[39], la Consulta si focalizza sulla questione del controllo di effettività e concreta esistenza della ragione organizzativa e/o produttiva[40] (i.e.economica[41]) posta a base del recesso, premurandosi di premettere come, da un lato, l’indagine giudiziale non possa, in ogni caso, sconfinare in un sindacato di congruità e opportunità delle scelte aziendali[42], dall’altro, che la più recente esegesi giurisprudenziale di legittimità si sia consolidata nel senso di ritenere estraneo alla fattispecie del gmo e, dunque, non necessaria per la liceità del recesso, una contingenza economico-finanziaria avversa del datore di lavoro[43].

E appena dopo, accingendosi a puntualizzare quale sia, invece, il vero oggetto della verifica sull’adotta decisione, la Corte Costituzionale sembra esprimere una prima sintomatica deviazione da quanto precedentemente osservato nelle pronunce del 2021 e 2022, evidenziando quali “elementi fondamentale del giustificato motivo” esclusivamente la soppressione del posto di lavoro e il nesso di causa tra questa e il lavoratore licenziato[44], mentre in un separato capoverso e discorrendone in termini di mera “condizione” di legittimità, a matrice giurisprudenziale, viene invece collocato l’onere datoriale di repêchage[45].

Un passaggio, questo, solo in apparenza trascurabile, dato che, lo si anticipa, il punto di caduta della sentenza riguarderà proprio questa “partizione” interna alla fattispecie di cui all’articolo 3, L. 604/1966.

Ad ogni modo, e procedendo per le tappe fondamentali dell’ordito motivazionale, nel rubricare come fondate le questioni di costituzionalità per violazione degli articoli 3, 4 e 35, Costituzione[46], i giudici della Consulta si soffermano poi sull’importanza, quale “specifica garanzia del lavoro subordinato”, del “principio costituzionale della necessaria giustificazione del licenziamento, che rinviene la sua legittimazione nel “diritto al lavoro” di cui all’art. 4, primo comma, Cost. e che è rafforzato dalla “tutela” del lavoro riconosciuta art. 35, primo comma, Cost.”[47].

Di guisa che: “Se il rapporto di lavoro cessa per volontà del datore di lavoro, la ragione del licenziamento appartiene alla causa di questa particolare forma di recesso, configurata come fattispecie legale tipica di atto unilaterale [e] Se mancano una giusta causa o un giustificato motivo, il licenziamento innanzi tutto viola la regola legale della necessaria causalità del recesso, prima ancora che quella della sua necessaria giustificatezza[48]; in sostanza, per la Corte Costituzionale, col venire meno della motivazione, il recesso diverrebbe ad nutum.

A questo punto della sentenza, anche sulla scorta dei precedenti summenzionati, già perfettamente chiara risulta la direzione tracciata dalla Consulta, la quale compendierà l’essenza della dichiarazione d’incostituzionalità, nei seguenti passaggi: “Se il “fatto materiale”, allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento non sussiste, è violato il principio della necessaria causalità del recesso datoriale. Il licenziamento regredisce a recesso senza causa, quale che sia la qualificazione che il datore di lavoro dia al “fatto insussistente”, vuoi contestandolo al lavoratore come condotta inadempiente che in realtà non c’è stata, vuoi indicandolo come ragione di impresa che in realtà non sussiste (perché, ad esempio, il posto non è stato soppresso). Il “fatto insussistente” è neutro e la differenziazione secondo la qualificazione che ne dà il datore di lavoro è artificiosa; in ogni caso manca radicalmente la causa del licenziamento, il quale è perciò illegittimo. […] La discrezionalità del legislatore nell’individuare le conseguenze di tale illegittimità – se la tutela reintegratoria o quella solo indennitaria – non può estendersi fino a consentire di rimettere questa alternativa ad una scelta del datore di lavoro che, intimando un licenziamento fondato su ”un fatto insussistente”, lo qualifichi, come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare[49].

Tuttavia, come avvertito sopra, all’illegittimità costituzionale dell’ultimo tassello realmente – e ancora[50] – differenziante le tutele crescenti, la Corte Costituzionale esplicita una considerevole delimitazione.

Invero, avendo anche rilevato, nella novella disciplina e per quanto concerne l’ipotesi disciplinare, una lecita e discrezionale opzione legislativa di “restringimento dell’area della tutela reintegratoria attenuata, affidato ancora alla nozione di “fatto insussistente” [, ma, ndA] con l’aggiunta dell’aggettivazione “materiale” per sottolineare la scelta di una nozione in senso stretto e non più potenzialmente esteso, com’era nel regime della legge n. 92 del 2012[51], la Consulta ne ricavava, per la fattispecie del licenziamento “economico”, che con la sola violazione dell’obbligo di repêchage: si fuoriesce dall’area della tutela reintegratoria attenuata del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015, il cui perimetro applicativo, come nell’ipotesi del licenziamento disciplinare, è segnato dall’“insussistenza del fatto materiale”. Né si riproduce il vizio di illegittimità costituzionale, del quale si è finora argomentato, proprio perché il licenziamento è comunque fondato su un “fatto sussistente”, ancorché il recesso datoriale sia poi illegittimo sotto un profilo diverso (quello della verificata ricollocabilità del lavoratore). La tutela allora è quella solo indennitaria di cui al comma 1 dello stesso art. 3[52].

 

Brevi e conclusive riflessioni

Ora, se dalle ripercorse traversie giudiziarie incidenti il motivo oggettivo di recesso, si traesse qualche breve e conclusiva riflessione, si potrebbe certamente osservare, sì un certo grado di coerenza, anche argomentativa, tenuto dalla Corte Costituzionale nel “misurare” gli aspetti più controversi delle nuove discipline regolanti la materia, ma anche una sua qualche criticabile forzatura interpretativa e, su tutte, il ragionamento propugnato nella sentenza n. 128/2024, al fine di estromettere la violazione dell’obbligo di repêchage, dai presupposti di accesso alla tutela della reintegrazione.

Premesso che la vicenda concreta, scaturente l’ordinanza di rimessione, era forse la meno indicata per addivenire a una simile conclusione, essendo che nel peculiare caso di licenziamento del lavoratore somministrato, ragione “economica” e onere di ricollocazione risultano questioni quantomai prossime, se non addirittura sovrapposte, evidenti sono le contraddizioni incorse dai giudici della Consulta, al fine di porre in salvo la “scelta di politica del lavoro fatta dal legislatore con il cosiddetto Jobs Act”[53].

A ben vedere, infatti, il ridimensionamento delle conseguenze sanzionatorie in caso di mancato ripescaggio, pare integralmente fondarsi sull’addizione testuale, nelle tutele crescenti, del termine “materiale” che, tuttavia, la stessa Corte Costituzionale riconosce essere, in quanto “fatto […] contestato al lavoratore, […] limitato al licenziamento disciplinare con esclusione di quello per giustificato motivo oggettivo[54].

Di guisa che non brilla certo per linearità l’esito raggiunto di attribuire a questa espressione, originariamente circoscritta all’area del recesso “soggettivo” e dalla stessa giurisprudenza di legittimità bollato come privo di concreto rilievo[55], una portata “contenitiva” sulla diversa e sopravvenuta[56] fattispecie del gmo.

Così come, a tal proposito, non può che destare più d’una perplessità l’avvenuto declassamento[57] del repêchage al di fuori dagli elementi fondamentali del licenziamento “economico”, posto che, non solo nella sentenza del 2021, ne era stata evidenziata, al pari della causale tecnico-organizzativa, la stretta connessione con l’effettività (i.e. “materialità”?) delle scelte datoriali, ma anche risalendo alla sua genesi giurisprudenziale, evidente si manifesta la sua funzione di “accertamento” di concretezza e attualità dell’iniziativa aziendale, a dispetto delle motivazioni formalmente addotte e con l’intento di rinvenire le “ragioni obbiettive per cui quel determinato lavoratore non è stato mantenuto in servizio”[58].

Ad ogni modo, considerato che nemmeno la funzione nomofilattica, di pertinenza esclusiva della Corte di Cassazione, potrebbe superare il riformulato testo della norma “e leggere nella disposizione ciò che non c’è”[59], allo stato la questione parrebbe essere chiusa.

Per il resto, la sentenza di luglio sembra fare ciò che deve, smantellando quella parte di sistema irrazionale nei suoi fondamenti, essendo principi consolidati dell’ordinamento lavoristico che, tanto la qualificazione del licenziamento, come “economico” o disciplinare[60], quanto e a maggior ragione le sue “conseguenze”[61], non possono, all’evidenza, dipendere dall’arbitrio di chi quel recesso, a discapito del lavoratore, lo ha, senza motivo, deciso, ossia il datore di lavoro.

Certo si dirà che, con questa pronuncia, unitamente alle precedenti, il rapporto di regola-eccezione fra indennizzo e reintegrazione, voluto dal Legislatore del Jobs Act, si sia, per mano della magistratura, definitivamente sovvertito; ma, a questa obbiezione potrebbe anche, puntualmente, ribattersi, propugnando la bontà di un tale esito e ricordando che “il diritto del lavoratore al proprio posto, protetto dagli artt. 1, 4 e 35 Cost., subirebbe una sostanziale espropriazione se ridotto, in via di regola, al diritto ad una somma[62].

 

[1] Corte Costituzionale, n. 194/2018, n. 150/2020, n. 22/2024 e n. 128/2024.

[2] Corte Costituzionale n. 150/2020 e n. 183/2022.

[3] Ossia con indennità risarcitoria a copertura sì del periodo compreso fra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione, ma fissato entro il limite massimo di 12 mensilità.

[4] Ricomprendendo nella nozione anche le ipotesi “di conversione volontaria (idest: trasformazione, ma il termine “conversione” è impiegato anche in riferimento al contratto nullo: articolo 1424 c.c.), per effetto di una manifestazione di volontà delle parti successiva all’entrata in vigore del decreto, con effetto novativo (…) di conversione giudiziale di contratti a termine stipulati anteriormente al Decreto Legislativo n. 23 del 2015, ma che producano i loro effetti di conversione dopo la sua entrata in vigore, perché successivo è il vizio che li colpisce, quali: a) la continuazione del rapporto di lavoro oltre trenta giorni (in caso di contratto a termine di durata inferiore a sei mesi) ovvero oltre cinquanta giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi del Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 5, comma 2 (Cass. 21 gennaio 2016, n. 1058, in riferimento al previgente termine di venti, anziché di trenta giorni), qualora la scadenza sia successiva al 7 marzo 2015 (da essa considerandosi “il contratto … a tempo indeterminato”); b) la riassunzione entro dieci giorni dalla scadenza del primo contratto a termine (qualora di durata inferiore a sei mesi) ovvero entro venti giorni (in caso di contratto a termine di durata superiore a sei mesi), ai sensi del Decreto Legislativo n. 368 del 2001, articolo 5, comma 3, qualora il secondo contratto (che “si considera a tempo indeterminato”) sia stato stipulato dopo il 7 marzo 2015; c) il superamento “per effetto di una successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti” nel “rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore… complessivamente” dei “trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro”, sicche’ “il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato” (articolo 5, comma 4 bis), qualora detto superamento sia successivo al 7 marzo 2015 (…)”. Si veda Cassazione, n. 823/2020.

[5] Posto che, in epoca precedente, l’articolo 18 prescriveva un “sistema “generalizzato” che vedeva la tutela reintegratoria applicata in ogni caso”. Corte Costituzionale n. 128/2024, cit., Considerato in diritto, sub 6.1.

[6] Dott. Dario Bernardi. Si vedano le ordinanze di remissione del 7 febbraio 2020 e del 6 maggio 2021.

[7] Aggettivazione che, come si dirà infra, di lì a poco sarà pure lei oggetto di soppressione.

[8] Corte Costituzionale, n. 59/2021, cit., Considerato in diritto, sub 5.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, sub 8, richiamando quando già affermato in Corte Costituzionale n. 194/2018, cit..

[11] Si veda, da una parte, articolo 7, L. 300/1970, dall’altra, articolo 7, L. 604/1966.

[12] Corte Costituzionale, n. 59/2021 cit., Considerato in diritto, sub 9.

[13] Si veda Cassazione, n. 10435/2018.

[14] Corte Costituzionale, n. 59/2021, cit., Considerato in diritto, sub 10.1.

[15] Nella sentenza del luglio 2024 si dirà che “Il licenziamento regredisce a recesso senza causa, quale che sia la qualificazione che il datore di lavoro dia al “fatto insussistente”, vuoi contestandolo al lavoratore come condotta inadempiente che in realtà non c’è stata, vuoi indicandolo come ragione di impresa che in realtà non sussiste (perché, ad esempio, il posto non è stato soppresso)”. Si veda Corte Costituzionale, n. 128/2024, Considerato in diritto, sub 13.

[16] Corte Costituzionale, n. 59/2021, cit., Considerato in diritto, sub 9.

[17]Il fatto che è all’origine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo include tali ragioni e, in via prioritaria, il nesso causale tra le scelte organizzative del datore di lavoro e il recesso dal contratto, che si configura come extrema ratio, per l’impossibilità di collocare altrove il lavoratore”. Corte Costituzionale, n. 125/2022, Considerato in diritto, sub 8.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, sub 9.2.

[20] Ivi, sub 10.1.

[21] Ivi, sub 10.2.

[22] O “clausola generale”. Conclusione, questa, sostenuta da parte della dottrina e che troverebbe anche sostegno nell’articolo 30, comma 1, L. 183/2010. Naturalmente, non si tratta di questioni meramente teoriche, posto che, come noto, se si dovesse propendere per ritenere l’articolo 3, L. 604/1966, alla stregua di una “clausola generale”, il suo contenuto e, dunque, gli elementi legittimanti il licenziamento sarebbero soggetti a una più ampia attività interpretativa e/o integrativa da parte della giurisprudenza.

[23] Si vedano, fra le tante, Cassazione n. 33341/2022, n. 34049/2022 e n. 34051/2022.

[24] Ad esempio, già in Tribunale di Roma, R.G. 21803/2022, la difesa del lavoratore ricorrente eccepiva la questione di costituzionalità, osservando che “qualora sia insussistente il fatto materiale posto alla base del licenziamento, che quest’ultimo sia qualificato arbitrariamente dal datore di lavoro come per motivo soggettivo o oggettivo poco importa: non può esservi, nel nostro ordinamento giuridico, una diversificazione delle tutele sanzionatorie che dipenda esclusivamente dalla volontà datoriale (che “etichetta” un licenziamento per motivo soggettivo o oggettivo a suo piacimento, poiché sempre di “insussistenza” del fatto si parla)”.

[25] Come si dirà meglio infra, anche rispetto alle conclusioni della sentenza n. 128/2024 della Corte Costituzionale.

[26] Si veda. Cassazione, n. 26607/2019, Ragioni della decisione, sub 26.

[27] Segnatamente, dall’articolo 25, Ccnl Agenzie di somministrazione, codice CNEL V212, sottoscritto in data 15 ottobre 2019.

[28] “… in seguito ad un ordine di esibizione documentale dei contratti di somministrazione stipulati dal datore di lavoro nel periodo di interesse (durante lo svolgimento della procedura ex art. 25 e prima del licenziamento), è emersa una notevole mole di contratti di somministrazione (una cinquantina in totale), proprio per le professionalità del ricorrente e proprio nella provincia di Ravenna; di essi molti si riferiscono ad unità operative site a distanza inferiore a 50 km dalla residenza o dal domicilio del lavoratore o comunque raggiungibili in meno di 60 minuti con mezzi pubblici (così come previsto dall’art. 50 del CCNL applicabile, che qualifica in tali termini l’offerta congrua)”. Tribunale di Ravenna, 27 settembre 2023, pag. 3.

[29] Ivi, pag. 6.

[30] Ivi, pagg. 13-21.

[31] Ivi, pagg. 21-41.

[32] In particolare, nella decisione pubblicata l’11 febbraio 2020, sul reclamo n. 158/2017, promosso dalla Cgil e vertente proprio sul D.Lgs. 23/2015.

[33] Tribunale di Ravenna, 27 settembre 2023, pagg. 41-42.

[34] Ivi, pagg. 43-44.

[35] Ivi, pagg. 44-47.

[36] Come già era stato affermato in Corte Costituzionale n. 194/2018, cit., Considerato in diritto, sub 6.

[37] Anche qui ribadendo quanto osservato in Corte Costituzionale n. 194/2018, cit., Considerato in diritto, sub 9.2.

[38] A partire, dunque e proprio, dalla L. 604/1966.

[39] Corte Costituzionale n. 128/2024, cit., Considerato in diritto, sub 5.

[40] Generalmente così esemplificate in giurisprudenza: “la soppressione d’una data posizione lavorativa può derivare: a) o da una diversa organizzazione tecnico-produttiva che abbia reso determinate mansioni obsolete o comunque non più necessarie o, ad ogni modo, da abbandonarsi in virtu’ di insindacabile scelta aziendale […]; b) oppure dall’esternalizzazione di determinate mansioni (che, pur reputate ancora necessarie, vengano però lasciate a personale di imprese esterne); c) o dalla soppressione d’un intero reparto o dalla riduzione del numero dei suoi addetti, rivelatosi sovrabbondante per l’impegno richiesto; d) o – ancora – da una diversa ripartizione di date mansioni fra il personale in servizio, attuata a fini di più economica ed efficiente gestione aziendale, nel senso che, invece di essere assegnate ad un solo dipendente, date mansioni possono essere suddivise fra più lavoratori, ognuno dei quali se le vedrà’ aggiungere a quelle già espletate: il risultato finale fa emergere come in esubero la posizione lavorativa di quel dipendente che vi era addetto in modo esclusivo o prevalente”. Si veda Cassazione, n. 13516/2016.

[41] Così nominalmente compendiate dalla Corte, la quale ricomprende nella fattispecie anche quelle “situazioni che, pur facendo capo al lavoratore, attengono a vicende personali che possono incidere sul regolare funzionamento dell’azienda”. Ivi, sub 5.1. Un esempio calzante è rappresentato dall’ipotesti di sopravvenuta impossibilità alla prestazione del lavoratore, causa carcerazione dello stesso. Si veda Cassazione, n. 12721/2009.

[42] Si veda articolo 30, comma 1, L. 183/2010 cit..

[43] Come noto, questo a partire da Cassazione, n. 25201/2016.

[44] Corte Costituzionale n. 128/2024, cit., Considerato in diritto, sub 5.2.

[45] Ivi, sub 5.3.

[46] Ivi, sub 7.

[47] Ivi, sub 8.

[48] Ibidem.

[49] Ivi, sub 13.

[50] Si intende dopo l’abrogazione, operata dalla Corte Costituzione, n. 194/2018, cit., dell’automatismo normativo per il calcolo dell’indennità risarcitoria, come noto originariamente parametrato sull’unico criterio dell’anzianità di servizio del lavoratore.

[51] Corte Costituzionale, n. 128/2024 cit., Considerato in diritto, sub 12.

[52] Ivi, sub 16.

[53] Ivi, sub 16.

[54] Ivi, sub 12.

[55] A partire da Cassazione, n. 12174/2019, la quale conclude: “Ai fini della pronuncia di cui al Decreto Legislativo n. 23 del 2015, articolo 3, comma 2, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.

[56] Cioè venuta a esistere come effetto della pronuncia additiva della Corte Costituzionale, n. 128/2024.

[57] Se tertium non datur, nella prospettiva delle tutele crescenti, una violazione sanzionata al pari del mancato rispetto dei criteri di scelta da adottare, secondo buona fede e correttezza, nell’ipotesi di riduzione di personale aventi mansioni fungibili.

[58] Così la prima pronuncia di legittimità in tema di repêchage, Cassazione, n. 3578/1972.

[59]anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse”; e così, comunque, al momento non sembra. Si veda Cassazione n. 15030/2024.

[60] Invero, l’accertamento e la relativa qualificazione sono attività riservate al giudice di merito. Si veda Corte Costituzionale, n. 427/1989.

[61] Per esempio, a proposito di contratto a tempo determinato, forma scritta e risarcimento del danno, si è, di recente, osservato che se la “tutela risarcitoria del lavoratore illegittimamente assunto a termine dalle pubbliche amministrazioni fosse condizionata al presupposto, meramente formale, della stipulazione del contratto per iscritto [, risulterebbe] evidentemente contrario ad ogni razionalità che la tutela giuridica del lavoratore venisse meno, o risultasse attenuata, per il solo fatto che il comportamento del datore di lavoro è illegittimo anche sotto un diverso profilo, oltre a quello che determina la necessità di quella tutela”. Cfr. Cassazione, n. 2992/2024. E ancora, con riferimento all’istituto del preavviso, che “il diritto del lavoratore a ricevere il preavviso di recesso o in mancanza l’indennità sostitutiva del preavviso […] rimane fermo a prescindere da come sia stato intimato il licenziamento dichiarato illegittimo. […] Talché risulterebbe persino paradossale e foriero di un possibile contrasto col principio di uguaglianza di cui all’art.3 Cost., se la tutela del preavviso di licenziamento fosse lasciata alla mera discrezionalità del datore di lavoro, arbitro di sottrarla a sua scelta solo che ritenga di intimare il licenziamento con preavviso, in un caso sì e nell’altro no”. Cassazione, n. 3247/2024.

[62] Cassazione, SS.UU., n. 141/2006.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza

Come scrivere una lettera di licenziamento