8 Novembre 2018

Molte perplessità nella circolare ministeriale sul Decreto Dignità

di Luca Vannoni

Nel corso del dibattito parlamentare per la conversione in legge del D.L. 87/2018 (Decreto Dignità), i primi giorni di agosto, il Ministro del lavoro si era impegnato di fronte al Parlamento a “chiarire ulteriormente l’applicazione della norma” con una circolare ministeriale, ammettendo implicitamente la non univocità di alcuni passaggi introdotti nella riforma dei contratti temporanei.

Come è ormai noto, la circolare è stata diffusa solo il 31 ottobre 2018 da parte del Ministero del lavoro, materializzando così una sensazione che ormai era nell’aria: nessun chiarimento utile sarebbe stato diramato in riferimento al periodo transitorio, in scadenza … il 31 ottobre. Certo, nella circolare, oltre a riepilogare timidamente i passaggi normativi del periodo transitorio, si fornisce un’interpretazione sulla sua applicabilità anche ai contratti di somministrazione, fornendo una risposta positiva, ma all’ultimo giorno te ne fai poco.

Passando alla sostanza, la circolare n. 17/2018 suscita in molti passaggi forti perplessità, sia per l’approccio esageratamente restrittivo, sia per le motivazioni utilizzate a fondamento delle proprie interpretazioni.

Tra i primi chiarimenti, nel paragrafo 1.1 si legge che “la proroga presuppone che restino invariate le ragioni che avevano giustificato inizialmente l’assunzione a termine” e “non è possibile prorogare un contratto a tempo determinato modificandone la motivazione, in quanto ciò darebbe luogo ad un nuovo contratto a termine ricadente nella disciplina del rinnovo”.

Oltre a non aver alcun supporto nella legge, la lettura proposta dal Ministero escluderebbe di tenere in considerazione situazioni sopraggiunte al fine della prorogabilità del contratto.

Facciamo un esempio: al termine di una sostituzione di maternità (12 mesi complessivi), c’è la necessità di prorogare il contratto – mantenendo ferme mansioni e qualifica – per ulteriori 12 mesi per una motivazione diversa legittima (ad esempio, aumento significativo non programmabile dell’attività ordinaria dovuto a una commessa eccezionale). Secondo il Ministero, la proroga sarebbe da qualificarsi come rinnovo, per via della modifica della motivazione di assunzione, con tutto quello che ne discende, dall’applicazione dello stop and go alla contribuzione aggiuntiva, quest’ultima ancora avvolta nel mistero, nell’attesa che l’Inps fornisca i propri chiarimenti. In particolare, con l’obbligo di non rinnovare entro 10 o 20 giorni il contratto scaduto, il datore di lavoro dovrebbe rivolgersi a un lavoratore diverso, immediatamente assumibile, ma privo di esperienza. Se l’obiettivo dichiarato del Decreto Dignità era il contrasto della precarietà, con tale lettura avremmo, in luogo di un contratto con un solo lavoratore di 24 mesi, 2 lavoratori con un contratto di 12 mesi.

In coda al paragrafo 1.1 si aggiunge che “si ricade altresì nell’ipotesi del rinnovo qualora un nuovo contratto a termine decorra dopo la scadenza del precedente contratto”: credo che nessuno dubitasse che il rinnovo è un nuovo contratto che segue uno precedente, il problema è capire se l’assegnazione a mansioni diverse (e magari rientranti nello stesso livello) fa rientrare comunque la fattispecie nel rinnovo.

Proseguendo nell’esegesi della circolare, il paragrafo 1.3, dedicato alla forma scritta, afferma che “con la eliminazione del riferimento alla possibilità che il termine debba risultare “direttamente o indirettamente” … Viene quindi esclusa la possibilità di desumere da elementi esterni al contratto la data di scadenza, ferma restando la possibilità che, in alcune situazioni, il termine del rapporto di lavoro continui a desumersi indirettamente in funzione della specifica motivazione che ha dato luogo all’assunzione, come in caso di sostituzione della lavoratrice in maternità di cui non è possibile conoscere, ex ante, l’esatta data di rientro al lavoro, sempre nel rispetto del termine massimo di 24 mesi”.

Tale passaggio è veramente confuso: l’utilizzo legittimo del termine “per relationem”, dove non si indica una data di calendario come scadenza, ma il realizzarsi di un evento (certo nel suo verificarsi, incerto nel quando), non sembra essere figlio implicito di un “indirettamente”, ma dell’applicazione dell’istituto della condizione ex articolo 1353 cod. civ..

Fuori fuoco, poi, sono le precisazioni che la scadenza non possa desumersi da elementi “esterni al contratto” (il termine per relationem è infatti utilizzato all’interno del contratto) e che, comunque, in qualche caso (quali? e in base a quali elementi?), come con la maternità, è possibile “desumere indirettamente” la scadenza del termine (visto che sta parlando di come prevedere la scadenza contrattuale, e non di condizione di legittimità dell’assunzione, se vale per maternità logica vorrebbe che tale forma di scadenza possa essere utilizzata, purché siano rispettati i requisiti ex articolo 1353 cod. civ.).

Ma la vera forzatura del dato letterale la incontriamo al paragrafo 2.1 in materia di somministrazione “il rispetto del limite massimo di 24 mesi – ovvero quello diverso fissato dalla contrattazione collettiva – entro cui è possibile fare ricorso ad uno o più contratti a termine o di somministrazione a termine, deve essere valutato con riferimento non solo al rapporto di lavoro che il lavoratore ha avuto con il somministratore, ma anche ai rapporti con il singolo utilizzatore, dovendosi a tal fine considerare sia i periodi svolti con contratto a termine, sia quelli in cui sia stato impiegato in missione con contratto di somministrazione a termine, per lo svolgimento di mansioni dello stesso livello e categoria legale. Pertanto, il suddetto limite temporale di 24 mesi opera tanto in caso di ricorso a contratti a tempo determinato quanto nell’ipotesi di utilizzo mediante contratti di somministrazione a termine. Ne consegue che, raggiunto tale limite, il datore di lavoro non potrà più ricorrere alla somministrazione di lavoro a tempo determinato con lo stesso lavoratore per svolgere mansioni di pari livello e della medesima categoria legale”.

Il Ministero del lavoro procede con un’inferenza, un falso sillogismo (se bevo cola e rhum mi ubriaco, se bevo cola e whisky mi ubriaco, allora quello che fa ubriacare è la cola), che appare non corretta: se il limite per sommatoria di 24 mesi (contratti a termine) tiene conto anche della somministrazione (vero, si veda articolo 19, comma 2, D.Lgs. 81/2015), se è vero che anche i contratti tra agenzia e lavoratore sono soggetti alle regole del D.Lgs. 81/2015 (vero), allora esiste un limite di 24 mesi per l’utilizzatore di somministrazione a tempo determinato (falso): si conteggia la somministrazione (mansioni dello stesso livello di inquadramento) per verificare un eventuale superamento dei 24 mesi, ma non esiste un limite autonomo per l‘utilizzo della somministrazione.

Tale errore di impostazione diventa ancor più evidente dove si chiarisce che (paragrafo 2.2) “l’obbligo di specificare le motivazioni del ricorso alla somministrazione di lavoratori a termine sorge non solo quando i periodi siano riferiti al medesimo utilizzatore nello svolgimento di una missione di durata superiore a 12 mesi, ma anche qualora lo stesso utilizzatore aveva instaurato un precedente contratto di lavoro a termine con il medesimo lavoratore per lo svolgimento di mansioni di pari livello e categoria”.

E dove sta scritto, nella legge, che un contratto di somministrazione può essere un rinnovo di un contratto a termine?

 

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