28 Agosto 2024

Modificare periodi di prova e di preavviso rispetto ai Ccnl è possibile?

di Andrea AsnaghiSara Mangiarotti Scarica in PDF

Spesso nella pratica contrattuale individuale nasce l’esigenza delle parti di modificare alcune pattuizioni previste dalla contrattazione collettiva, ritagliandole su esigenze o peculiarità che le regole generali non possono prevedere. Periodo di prova e preavviso sono fra questi. Il contributo percorre le varie possibilità in merito, tenendo presente i limiti che la giurisprudenza ha via via posto sulle fattispecie e analizzando gli strumenti che possono conferire maggiore tenuta alle scelte delle parti, indicando anche le vie differenti e alternative per riuscire a soddisfare opportunamente tali esigenze.

 

Breve premessa introduttiva

Gli istituti del periodo di prova e del preavviso rappresentano un punto cruciale nella gestione dei rapporti di lavoro subordinato, in quanto incidono sulla flessibilità in entrata e in uscita del lavoratore e devono adempiere alla funzione, piuttosto delicata, di bilanciare le esigenze del datore di lavoro con la tutela del lavoratore.

La disciplina di questi istituti trova la sua fonte primaria nella legge, che ne delinea i principi generali, rimandando poi alla contrattazione collettiva per la concreta attuazione.

In particolare, l’articolo 2118, cod. civ., stabilisce che “Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative[1], dagli usi o secondo equità. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”.

L’articolo 2096, cod. civ., a sua volta, prevede che: “Salvo diversa disposizione delle norme corporative, l’assunzione del prestatore di lavoro per un periodo di prova deve risultare da atto scritto”, rimettendo quindi completamente alla volontà delle parti la decisione in merito alla sua durata, nei limiti di quanto stabilito dalla contrattazione collettiva.

È, quindi, importante comprendere il quadro normativo di riferimento e le possibilità per intervenire su questi istituti, rispetto ai quali il mero riferimento a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva[2] può rappresentare una rigidità rispetto a situazioni peculiari. Il presente contributo si propone, pertanto, di esaminare quali sono le opportunità offerte dal nostro ordinamento e, se esistono, quali sono gli spazi di manovra per eventualmente modulare la durata del periodo di prova e del preavviso secondo le esigenze del caso, insieme con i rischi connessi a simili scelte, anche confrontandosi con quanto in merito elaborato dalla riflessione giurisprudenziale.

Il criterio di base con cui leggere le riflessioni che seguono non può non tenere conto di un principio fondamentale, che è quello di una sostanziale asimmetria delle parti di un contratto di lavoro rispetto a qualsiasi normale contratto: in particolare, l’esistenza di una parte debole (il lavoratore) fa sì che norme che appaiono formalmente equidistanti (prova e preavviso avrebbero una durata che impegna o disimpegna in ugual modo e per lo stesso tempo datore e lavoratore) non lo siano, ciò è ancor più vero se si pensa come tali norme si innestino in fasi di possibile risoluzione del rapporto di lavoro, in cui la limitazione opera decisamente verso il datore di lavoro, contro una sostanziale libertà per il lavoratore. Alla stregua di tale criterio, ove si modifichino i termini stabiliti dalla contrattazione[3], qualora ciò possa risultare vantaggioso per il lavoratore (non solo in senso astratto, ma nell’atteggiarsi concreto della singola situazione) non vi sarà alcun problema, diversamente il contrario.

 

Il periodo di prova

Il periodo di prova costituisce un momento essenziale per entrambe le parti del rapporto di lavoro, in quanto consente al datore di lavoro di valutare le competenze e l’idoneità del lavoratore alle mansioni assegnate e permette al lavoratore di comprendere se l’ambiente di lavoro e le mansioni corrispondono alle proprie aspettative. Non solo, la prova ha anche la finalità di valutare aspetti non strettamente legati alle competenze e alle capacità lavorative del dipendente, quali le sue capacità relazionali e di integrazione con gli altri colleghi. Per tale motivo, la stessa legge ha previsto che durante tale periodo le parti possano recedere liberamente[4] dal contratto senza obbligo di preavviso e senza motivazione.

Il patto di prova, a pena di nullità, deve risultare da atto scritto e dev’essere sottoscritto da entrambe le parti prima dell’inizio del rapporto di lavoro. Poiché la forma scritta è richiesta dalla legge ad substantiam (articolo 2096, cod. civ.), la nullità che deriva dalla mancata stipulazione per iscritto comporta l’inesistenza del patto, con la conseguenza che, in caso di licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, questo dev’essere ricondotto a un ordinario licenziamento per giusta causa o giustificato motivo[5].

Per la validità del patto di prova è fondamentale l’indicazione chiara e precisa delle mansioni affidate al lavoratore[6]. La mancanza costituisce motivo di nullità del patto, con automatica conversione dell’assunzione definitiva sin dall’inizio.

Altro elemento essenziale ai fini della validità del patto di prova è, appunto, la durata. Come anticipato, l’articolo 2096, cod. civ., rimette la decisione in merito alla durata del patto completamente alla volontà delle parti, seppur nei limiti fissati dalla contrattazione collettiva. Manca, nella disciplina codicistica, il riferimento alla durata massima, anche se l’articolo 4, R.D. 1825/1924, già disponeva che il periodo di prova non può in nessun caso superare “mesi 6 per gli institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi ed impiegati di grado e funzioni equivalenti; mesi 3 per tutte le altre categorie di impiegati”.

Inoltre, la durata massima è anche indirettamente disposta dall’articolo 10, L. 604/1996, nel momento in cui prevede l’estensione della tutela contro i licenziamenti ai lavoratori in prova una volta definitiva l’assunzione e comunque quando sono decorsi 6 mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.

Attualmente, l’articolo 7, comma 1, D.Lgs. 104/2022, prevede espressamente che, nei casi in cui è previsto il periodo di prova, questo non può essere superiore a 6 mesi, salva la durata inferiore prevista dalle disposizioni dei contratti collettivi (nazionali, territoriali o aziendali).

A questo punto, stante il limite legale massimo dei 6 mesi, la questione è se le parti (e in particolare il datore di lavoro) possano discostarsi dalla durata prevista dalla contrattazione collettiva.

Sicuramente possono essere stipulati contratti individuali in cui il patto di prova non è previsto o in cui il patto di prova ha una durata inferiore a quella stabilita dalla contrattazione collettiva.

La clausola del patto di prova è una facoltà per il datore di lavoro, non un obbligo, pertanto la sua assenza ha, come unico riflesso (seppur non trascurabile), quello di eliminare per entrambe le parti la possibilità di verificare la compatibilità reciproca e l’idoneità alle mansioni assegnate.

Similmente, anche la pattuizione di un periodo di prova con una durata inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva può non permettere una valutazione adeguata del lavoratore. Qui, però, il datore di lavoro può incorrere in un rischio ulteriore; infatti, una riduzione eccessiva potrebbe vanificarne la funzione. Il datore di lavoro e il lavoratore sono rispettivamente tenuti a consentire e a eseguire l’esperimento che forma oggetto del patto di prova e un eventuale recesso datoriale per mancato superamento del periodo di prova sarebbe considerato illegittimo, laddove il lavoratore dovesse dimostrare che il periodo è stato inadeguato a permettere un’idonea valutazione delle sue capacità[7]. Tuttavia, gli orientamenti giurisprudenziali in merito hanno teso principalmente a punire non tanto l’aver concordato, in sede di assunzione, un periodo di prova minore di quello canonico stabilito dal Ccnl[8], quanto l’aver azionato un recesso troppo frettoloso da parte del datore di lavoro rispetto al periodo inizialmente stabilito, così da aver impedito l’esercizio concreto della prova per il periodo previsto, magari a fronte di un evento impeditivo della prestazione nel frattempo intervenuto.

Nel caso in cui sia stata stabilita inizialmente una prova inferiore a quella prevista dalla contrattazione collettiva, la giurisprudenza ha ritenuto legittimo il successivo prolungamento del periodo di prova, ove giustificato dalla volontà di adeguare lo stesso alla durata prevista dal contratto collettivo, se la clausola introdotta non prevede termini di durata del periodo di prova maggiori rispetto a quelli determinati dalla contrattazione collettiva[9]. Ma resta argomento comunque rischioso.

E se, invece, ci fosse ab origine la necessità di un periodo di prova più lungo rispetto a quello previsto dal contratto collettivo?

Una durata maggiore, ma in ogni caso entro il limite dei 6 mesi stabilito dalla legge, può essere prevista dalle parti solo in caso di particolare complessità delle mansioni: spetta, però, al datore di lavoro provare tale esigenza[10], essendo colui che si avvantaggia del tempo più lungo della prova, godendo di più ampia facoltà di licenziamento per mancato superamento della stessa.

Così anche Cassazione n. 9789/2020, secondo cui: “La clausola del contratto individuale con cui è fissata una durata del patto di prova maggiore di quella stabilita dalla contrattazione collettiva di settore deve ritenersi più sfavorevole per il lavoratore e, come tale, è sostituita di diritto ex art. 2077, comma 2, c.c. salvo che il prolungamento si risolva in concreto in una posizione di favore per il lavoratore (ad esempio per la particolare complessità delle mansioni), con onere probatorio gravante sul datore di lavoro”.

In sostanza, quindi, proprio in funzione di quello sbilanciamento della posizione delle parti ricordata in premessa, un prolungamento della prova o un periodo più lungo rispetto quello stabilito dal Ccnl rappresenta un rischio per il datore di lavoro[11]. In tal senso, come vedremo più avanti nella trattazione, per ridurre l’alea del contenzioso, può ritenersi utile l’istituto della certificazione (articoli 75 ss., D.Lgs. 276/2003), che permette di verificare la volontà delle parti e la rispondenza del contratto o della singola clausola ai requisiti di legge.

Alla luce di quanto sopra è, in ogni caso, inderogabile il limite legale dei 6 mesi, soprattutto dopo l’entrata in vigore del c.d. Decreto Trasparenza. Andando successivamente ad analizzare alcuni strumenti derogatori messi a disposizione dal nostro ordinamento, ci chiederemo, però, se tale previsione non possa essere derogata mediante un accordo di prossimità.

 

Il preavviso

Com’è noto, ai sensi dell’articolo 2119, cod. civ., nel contratto a tempo indeterminato – ma è una caratteristica comune a tutti i contratti c.d. di durata – ciascuna delle parti nell’ipotesi di recesso è onerata dal concedere (rectius, garantire) all’altra un periodo, il preavviso appunto, il cui scopo evidente è quello di attenuare gli effetti subiti dalla parte che riceve l’altrui determinazione. Per il lavoratore[12], si tratta di assicurare un periodo utile per la ricerca di una nuova occupazione o comunque per non restare improvvisamente sprovvisto, dall’oggi al domani, di un mezzo di sostentamento; per il datore si tratta di organizzare il passaggio di consegne e/o la sostituzione del dimissionario.

In via generale, la clausola che riduce (rispetto al dettato del Ccnl) il preavviso in caso di licenziamento costituisce una violazione dell’articolo 2077, cod. civ., essendo nei fatti una modificazione peggiorativa dei diritti del lavoratore, con la più probabile conseguenza della sostituzione di diritto, rispetto al preavviso più lungo, con la statuizione del periodo indicato dal Ccnl[13].

Nessun problema se, invece, il preavviso è ridotto in caso di dimissioni (è, peraltro, anche la logica che spesso si riscontra in molti contratti collettivi, ove è previsto un minor periodo di preavviso per le dimissioni rispetto a quello per il licenziamento), in quanto ciò rappresenta un favor per il lavoratore, libero di andarsene in un tempo minore. Non è infrequente anche una riduzione del preavviso concordata fra le parti al momento del recesso (da qualsiasi parte sia azionato): discutibile, anche se affermata da sentenze anche recenti[14], la possibilità di una riduzione unilaterale (consistente nel mancato pagamento dell’indennità per il preavviso rifiutato) ad opera della parte che riceve il recesso.

Ma sostanzialmente, data la funzione del preavviso (una sorta di ammortizzatore rispetto al recesso immediato, per le questioni sopra accennate), è ben più frequente che si tenda a pattuire un allungamento del preavviso, talvolta attuando in tal modo, da parte datoriale, quasi una politica di retention del lavoratore.

Per quanto riguarda l’allungamento del preavviso, secondo la giurisprudenza tale clausola risulta esercitabile fra le parti senza che rientri in ipotesi di clausola vessatoria ai sensi dell’articolo 1341, comma 2, cod. civ.; tuttavia, se la dottrina (non uniformemente) sostanzialmente ammette il prolungamento del preavviso qualora il maggior termine concordato sia previsto in ugual misura per datore e lavoratore, non così la giurisprudenza (perlomeno maggioritaria, con qualche eccezione di merito), che considera tale clausola lecita se prevista in via generale dalla contrattazione collettiva, o, in caso contrario, se sussistono quantomeno queste 2 condizioni, in specie con riferimento alla maggior durata in caso di dimissioni:

  1. il lavoratore riceva da tale patto un beneficio – da valutarsi in termini economici, di stabilità o professionali[15];
  2. la durata sia stabilita con ragionevolezza e non sia eccessiva.

Sul secondo aspetto non vi sono limiti precisi individuati da norme o contrattazione collettiva; si può, pertanto, fare riferimento (così come per i patti di durata minima) in astratto alla durata massima del patto di non concorrenza o a quella, inferiore, stabilita per il contratto a termine (attualmente 2 anni). Oltre tale limite non pare possibile né opportuno andare. Inoltre, va tenuto presente che parte della dottrina considera tale prolungamento una pesante (e sostanzialmente illegittima) depressione della libertà individuale del lavoratore, non soggetta, pertanto, a pattuizioni derogatorie[16], andando così a determinare l’esigenza di una profonda riflessione in ordine anche al periodo temporale concordato, onde non incorrere in un’eccezione di nullità o inefficacia della clausola.

Questa riflessione ci introduce al primo ordine di problemi e, cioè, al beneficio che può venire al lavoratore. È evidente che la valutazione del beneficio (ad esempio, in termini di stabilità) non può avere una valutazione ex post, in quanto il beneficio va valutato in termini oggettivi rispetto al momento della stipulazione del patto e secondo le prospettive che hanno portato le parti a sottoscriverlo. Lo stesso dicasi per le prospettive professionali, di carriera o di formazione, sottostanti alla stipula del patto, sulle quali, tuttavia, una valutazione effettiva del rispetto delle condizioni che hanno portato alla conclusione della clausola può essere fatta.

Per quanto riguarda le clausole economiche, la valutazione va fatta in termini di congruità del corrispettivo economico e anche della sua determinatezza. Ad esempio, la validità di un patto che preveda una mera maggiorazione retributiva mensile, specie se minima[17], potrebbe essere aggredita in considerazione dell’indeterminatezza, al momento della conclusione del patto, del corrispettivo effettivo e, quindi, della compensazione del sacrificio imposto al lavoratore; in tal caso, tuttavia, depone a favore della clausola il fatto che la maggiorazione incida anche sulla determinazione dell’indennità. La giurisprudenza ha comunque riconosciuto[18] la validità dello scambio fra maggior preavviso e indennizzo o incentivazione economica.

È interessante anche chiedersi quali siano le conseguenze del patto di prolungamento del preavviso o, in particolare per quanto riguarda il lavoratore[19], del mancato rispetto di esso.

Se, infatti, in una situazione ordinaria, il mancato (totale o parziale) preavviso da parte del lavoratore comporta, senza discussione, la trattenuta a suo carico della retribuzione di fatto (computata ai sensi dell’articolo 2121, cod. civ.) per il corrispondente periodo previsto dal contratto collettivo, qualora il periodo di preavviso fosse maggiorato (specie se per un considerevole periodo), il medesimo automatismo potrebbe essere ritenuto eccessivamente oneroso per il lavoratore[20]. In questo caso appare più opportuno fissare una penale che abbia una corrispondenza con il valore economico con cui si è ritenuto di retribuire la disponibilità del lavoratore. Ovviamente, nel differente caso di annullamento della clausola, il lavoratore (salvo diverso accertamento del negozio giuridico intervenuto) sarà chiamato a restituire quanto eventualmente percepito.

La considerazione dell’indennità di mancato (maggior) preavviso spettante al lavoratore sarà calcolata, come detto, secondo i criteri di legge relativi al “normale” preavviso, ivi compresi la considerazione ai fini del Tfr (se non diversamente stabilito dalla contrattazione collettiva) e la contribuzione (se a cavaliere di 2 anni, vanno rispettati i massimali di ciascun anno: circolari Inps n. 14/1982 e n. 99/1987). Sotto quest’ultimo aspetto, ci si può interrogare sull’obbligo o meno da parte dell’Inps di riconoscere, ai fini dell’anzianità contributiva, il maggior periodo di preavviso stabilito dalle parti e remunerato con l’indennità sostitutiva. Il R.D.L. 1825/1924 (tutt’ora in vigore, quantomeno residualmente) prevedeva, infatti, la possibilità di un prolungamento del preavviso rispetto a quanto previsto dal decreto stesso (letteralmente: “quando l’uso o la convenzione non li assegnino in misura più larga”). Attualmente, in caso di controllo specifico, la prassi dell’Istituto è quella di riconoscere, ai fini di un’eventuale determinazione dell’anzianità contributiva, solo il periodo stabilito dal Ccnl applicato, considerando l’ulteriore somma quale mero incremento della contribuzione dell’anno[21].

Tuttavia, per quanto riguarda l’esigenza di retention o di maggior stabilità, a parere di chi scrive resta più utile, piuttosto che muoversi sulla strada di una dilatazione del preavviso, pervenire a pattuizioni che intervengano direttamente sulla durata del rapporto, quali un patto di durata minima, un patto di stabilità o forme simili.

In particolare, con il patto di durata minima le parti possono stabilire un termine, solitamente non superiore a 3 anni, in cui le stesse si impegnano reciprocamente a non recedere dal contratto, salvo che per giusta causa. La corrispettività del patto è data dall’impegno reciproco (non fosse che, in virtù dell’asimmetria ricordata all’inizio, tale patto potrebbe apparire più impegnativo per il lavoratore che non per il datore di lavoro).

Una variante, pertanto, ultimamente utilizzata è quella del patto di stabilità, con il quale un lavoratore si impegna a non recedere dal rapporto per un determinato periodo a fronte di un corrispettivo, che può essere di natura economica, ma anche legato ad altri aspetti (ad esempio, la frequenza a spese dell’azienda di un corso di formazione altamente qualificante[22]).

Tali forme è opportuno che determinino, come detto in precedenza, una precisa penale che il lavoratore inadempiente è tenuto a risarcire, in funzione sia del danno causato sia di quanto ricevuto.

Oppure, ancora più semplicemente, la retention può funzionare semplicemente in positivo con la contrattazione di un patto di anzianità che preveda la corresponsione di un corrispettivo premiale al mantenimento in servizio del lavoratore per un certo periodo.

La sensibilità su questi temi si è particolarmente accentuata nel periodo in cui stiamo vivendo, in cui la mobilità del personale, per ragioni storiche e culturali, è notevolmente aumentata e in cui, parallelamente, l’investimento in formazione è particolarmente significativo (e quindi le aziende si aspettano un minimum di ritorno): lasciateci, però, aggiungere solo che non c’è miglior metodo di trattenere il personale che quello di sviluppare un ambiente di lavoro confortevole e dove il lavoratore si senta riconosciuto, non solo sotto l’aspetto economico.

 

Conclusioni e possibili soluzioni

Quanto sin qui esposto ha reso ben evidente che la questione relativa al tema proposto evidenzia i rischi e le difficoltà rispetto a un allontanamento “dalla via maestra”, rappresentata da ciò che viene determinato dalla contrattazione collettiva, in particolare rispetto al periodo di prova.

Riteniamo, però, di non poter concludere senza segnalare, oltre alla contrattazione collettiva normale, 2 ulteriori possibilità che, in caso di necessità, possono fornire garanzie: la contrattazione c.d. di prossimità e la certificazione del contratto, su cui sono possibili in chiusura solo brevissimi cenni.

La contrattazione di prossimità (articolo 8, D.L. 198/2011, convertito in L. 148/2011) è una contrattazione di secondo livello che può derogare alla contrattazione nazionale e addirittura alla legge (fermi restando i principi costituzionali e le norme di derivazione europea) sulla base di 3 concetti-cardine:

  • rappresentatività: il contratto di prossimità può esser stipulato solo da OO.SS. maggiormente rappresentative sul piano nazionale e/o dalle Rsu costituite su iniziativa delle stesse;
  • specificità: possono essere oggetto del contratto di prossimità solo le materie espressamente previste dalla norma (senza possibilità di analogia, Corte Costituzionale n. 221/2012); fra queste materie vi sono anche “le modalità di assunzione e di disciplina del rapporto di lavoro”);
  • specialità delle esigenze: la stipula è prevista solo per esigenze a loro volta elencate in via tassativa; fra tali egenze figurano anche la qualità dei contratti di lavoro, incrementi di competitività e l’innovazione.

È agevole, pertanto, pensare che, incontrata necessariamente la disponibilità delle OO.SS. (invero non sempre disponibili sull’argomento), si possa ben argomentare di periodi di prova o di preavviso che siano dilatati (o comunque modificati) in forza di esigenze come quelle suddette.

Ancora più interessante, tuttavia, appare l’istituto della certificazione dei contratti di lavoro (articolo 75 ss, D.Lgs. 276/2003), in forza del quale è possibile sottoporre a una commissione qualificata[23] un contratto e/o le singole clausole di esso ai fini della qualificazione della fattispecie contrattualizzata e della validità, fra le parti sottoscriventi ma anche verso terzi, delle clausole concordate, non solo sotto un profilo giuslavoristico, ma financo sotto gli aspetti amministrativi, fiscali e previdenziali.

Particolarmente qualificante è l’attività concreta di certificazione, che consiste non solo nell’esame formale documentale (del contratto sottoposto a certificazione e dei suoi correlati), ma ancor di più nella audizione separata delle parti contraenti, in cui vengono approfonditi gli aspetti, le motivazioni e le valutazioni che le hanno portate alla stipulazione del contratto o delle singole clausole, con possibilità per la commissione di fornire consulenza alle parti.

A fonte di tale attività e della conseguente certificazione motivata, le parti possono ricorrere contro la qualificazione del contratto o i suoi effetti solo per via giudiziale, essendo tuttavia obbligate prima a un tentativo di conciliazione obbligatoria presso la medesima sede di certificazione. Molto incisiva è poi la previsione dell’articolo 30, comma 2, L. 183/2010, secondo cui “nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti”, espresse in sede di certificazione.

Anche il tal caso risulta abbastanza evidente che ciò che le parti hanno individualmente stabilito, in piena coscienza e autonomia (e, in più, “interrogate” e ascoltate nel merito) e con l’assistenza qualificata e il sigillo di legittimità della commissione di certificazione, avrà poi una tenuta “quasi granitica” di fronte a successive contestazioni, ad esempio rispetto alla valenza di una clausola di prolungamento del preavviso (o di stabilità), al corrispettivo individuato per compensarla e alla penale stabilita in caso di inadempimento, oppure rispetto alle ragioni che hanno portato le parti a individuare un periodo di prova motivatamente più ampio di quello del Ccnl, o a dilatarlo.

La varietà di situazioni che si possono presentare agli operatori richiedono sempre più soluzioni sartoriali rispetto ai canoni tradizionali e ordinari, con strumenti che, se utilizzati nei principi e con le finalità di legalità e correttezza, contribuiscono ad arricchire la “cassetta degli attrezzi” con cui rispondere a esigenze concrete, molto più, si consenta, che affidarsi a elaborazioni giurisprudenziali o dottrinali sicuramente autorevoli, ma che spesso risultano ondivaghe, anche in quanto legate a casi concreti, pertanto senza conferire certezze.

 

[1] Le norme corporative sono state abrogate, quali fonti di diritto, per effetto della soppressione dell’ordinamento corporativo, disposta con R.D.L. 721/1943 e della soppressione delle organizzazioni sindacali fasciste, disposta con D.Lgs. 369/1944. Il contratto collettivo corporativo aveva efficacia erga omnes, a differenza degli attuali contratti collettivi, che sono vincolanti solo per gli aderenti alle parti sindacali stipulanti, a causa della mancata attuazione dell’articolo 39, Costituzione.

[2] Per semplicità espositiva, e volendo mantenere un taglio pratico al contributo, non si entrerà qui nel delicato equilibrio tra i vari livelli della contrattazione collettiva e sulla valenza erga omnes della stessa o, ancora, sull’autonomia soggettiva nella scelta di un Ccnl o sull’attuazione delle singole clausole contrattuali, dando per assunto – pur consci che non sia per nulla scontato – il riferimento al Ccnl applicato in azienda (o al rapporto) ovvero, in caso di scelta (sempre più ardua) di non applicare alcun Ccnl, di tenere come riferimento il Ccnl più vicino all’attività aziendale (criterio su cui spesso si è orientata la giurisprudenza giudicando secondo “usi o equità”).

[3] Vi sono contratti collettivi che sui singoli istituti della prova e del preavviso fanno comunque salva la diversa volontà delle parti.

[4] Tale libertà, per quanto riguarda il datore di lavoro, è sempre condizionata – nell’eventualità di un’impugnazione da parte del lavoratore – alla dimostrazione che il recesso datoriale durante la prova non sia determinato da un fatto illecito o discriminatorio e che comunque sia stato precisato il contenuto della prova (con specifico riguardo alle mansioni oggetto della prova).

[5] Sono in discussione i rimedi applicabili a tale licenziamento (nullità, reintegra, tutela indennitaria), ma non è ambito di attenzione di queste riflessioni.

[6] Si veda: Cassazione n. 21698/2006 e Cassazione n. 17045/2005.

[7] Cassazione n. 4979/1987.

[8] Fa eccezione il pubblico impiego, ove il periodo di prova dev’essere rigidamente rispettato, eventualmente con la possibilità di recedere almeno dopo la metà di esso.

[9] Cassazione n. 5677/2013.

[10] Cassazione n. 8295/2000.

[11] Forse deve intendersi, in tal senso, anche il dibattito sul tempo determinato acausale e rispettive proroghe, che in molte situazioni rappresenta di fatto un esercizio della prova (ma che risulta ovviamente molto meno proponibile qualora il lavoratore provenga da un precedente rapporto a tempo indeterminato, interrotto per adire alla nuova proposta occupazionale).

[12] Lavoratore peraltro garantito, rispetto alla disciplina codicistica, anche dalle norme via via succedutesi in ordine alla limitazione della libertà di recesso datoriale.

[13] La conseguenza, in concreto, ha natura meramente economica (risolvendosi nell’erogazione di un’indennità sostituiva), non sussistendo un diritto reale all’esercizio del preavviso da parte del lavoratore

[14] Cassazione n. 27934/ 2021 e n. 6782/2024. In caso di rinuncia del lavoratore all’indennità sostitutiva permane il diritto dell’Inps alla riscossione dei relativi contributi (Cassazione n. 12932/2021).

[15] Così Cassazione n. 14457/2017). In caso contrario, il prolungamento potrebbe risolversi in una compressione dei diritti del lavoratore e in un patto limitativo della concorrenza senza rispettarne le condizioni tipiche (Cassazione n. 22933/2015). In merito, sempre la giurisprudenza (Cassazione n. 16527/2015) ha osservato che l’autonomia individuale di pattuizione del prolungamento del preavviso è legata a reciproche valutazioni di convenienza, valutabili secondo i principi generali.

[16] A. Vallebona, “Preavviso di dimissioni e accordi individuali”, in Lav. giur. 4/2011, pagg. 1120-1121.

[17] Cassazione n. 19080/2018.

[18] Cassazione n. 4991/2015.

[19] Per il datore, infatti, come detto, è prevedibile che il mancato maggior preavviso si risolva con la retribuzione dell’indennità sostitutiva per il relativo periodo. O quantomeno per il prolungamento di esso non riconosciuto.

[20] Un caso di questo genere avviene anche nel rapporto a tempo determinato, ove – in caso di recesso ante tempus non per giusta causa – al lavoratore spetta la retribuzione dovuta fino al termine originario stabilito, mentre la medesima penalizzazione, specie se il termine è lontano, non viene applicata al lavoratore; anche in questo caso, meglio fissare delle penali a regolare un istituto che necessita ancora degli aggiustamenti rispetto alla scarna norma codicistica.

[21] La questione non sembra attualmente definita in modo sistematico (anche se la posizione dell’Inps al riguardo, fin dalla circolare n. 365/1974, è chiara); a favore di tale posizione si può considerare, ad esempio, come l’eccessivo dilatarsi di un’indennità sostitutiva del preavviso “concordato” potrebbe arrivare a costituire una sorta di “prepensionamento inter partes” in elusione ai principi dell’ordinamento. Una logica simile pare ritrovarsi in Cassazione n. 1581/2023. Il concetto di fondo applicato dall’Istituto è quello della sottrazione della disciplina previdenziale alla libera disponibilità delle parti. Potrebbe disquisirsi, a questo punto, se la parte di surplus di indennità sostitutiva sia imponibile (a parer di chi scrive sì, come mero elemento contrattuale) o se possa essere avanzata la tesi, opposta, secondo cui l’importo di indennità aggiuntiva rientra nelle somme escluse da contribuzione, invocando a tal proposito quanto all’articolo 12, comma 4, L. 153/1969, secondo il quale”sono esclusi dalla base imponibile (…) le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, nonchè quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso”(ma se il preavviso riconosciuto è solo quello contrattuale, la somma residuale resterebbe esente).

[22] Con altamente qualificante vorremmo qui significare “non rientrante nella formazione obbligatoria impartita al lavoratore in forza di legge o contratto collettivo”, per la quale l’articolo 11, D.Lgs. 104/2022, sancisce la gratuità, determinando quindi, per quanto qui trattato, l’assenza di una concreta compensazione della disponibilità del lavoratore.

[23] Per legge le commissioni di certificazione possono essere istituite solo presso le ITL, le Università, gli Enti Bilaterali e i Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “Strumenti di lavoro

Laboratorio Contratti di lavoro