4 Dicembre 2024

Mobbing e danno alla dignità del lavoratore: le ultime sentenze della Cassazione

di Nicola Ghirardi Scarica in PDF

Sono ancora molte le sentenze che trattano del problema delle vessazioni sul luogo di lavoro: secondo il più recente orientamento, confermato da alcune delle sentenze qui in commento, al di là delle varie “etichette” (come mobbing e straining) elaborate dalla scienza medica, ciò che conta è la violazione dell’articolo 2087, cod. civ.. Si esamina anche una recente sentenza della Cassazione relativa al “danno alla dignità del lavoratore” subito a seguito di condotte vessatorie, danno che, secondo la Suprema Corte, è risarcibile anche a prescindere da una specifica allegazione da parte del lavoratore.

 

Premessa

Nell’ormai lontano 1999, una sentenza del Tribunale di Torino[1] introduceva nel nostro ordinamento il termine “mobbing”, fin lì noto solo alla scienza medica[2]: inizialmente, la giurisprudenza, in assenza di una disciplina specifica in materia (assenza che persiste tutt’oggi) si è rifatta proprio agli studi della psicologia del lavoro per individuare i confini della fattispecie anche sotto il profilo giuridico.

Successivamente, presa via via sempre maggior consapevolezza che il profilo giuridico può non corrispondere con quello della psicologia, essendone diversi i presupposti, dottrina e giurisprudenza hanno cominciato a distaccarsi dalle iniziali “etichette”, per giungere a una definizione più ampia, in qualche maniera “fluida”, della fattispecie, centrata sul precetto di cui all’articolo 2087, cod. civ., vero cardine della protezione della salute psicofisica del lavoratore del nostro ordinamento.

Il dibattito sul mobbing ha poi condotto anche a un’importante riviviscenza di quello sui relativi danni, in particolare quelli non patrimoniali (danno biologico, morale ed esistenziale), in specie sui presupposti della loro risarcibilità.

A 25 anni dalla prima sentenza sul mobbing, comunque, nonostante i confini della fattispecie possano ormai dirsi abbastanza ben definiti, sono ancora numerose le pronunce in materia, a testimonianza del fatto che il fenomeno è ancora molto presente nei luoghi di lavoro e nelle aule giudiziarie.

Nel presente contributo si andranno, quindi, a esaminare alcune delle più recenti sentenze sul tema.

 

Le ultime sentenze in materia di mobbing

Cassazione, n. 15957/2024

La recente ordinanza n. 15957/2024 della Suprema Corte esamina il caso di una dipendente pubblica che aveva chiesto il risarcimento dei danni da mobbing e straining nei confronti del datore di lavoro, lamentando di essere stata ingiustamente vittima, tra l’altro, di una serie di contestazioni disciplinari e di un illegittimo trasferimento per incompatibilità ambientale.

Il Tribunale di Forlì, prima, e la Corte d’Appello di Bologna, poi, pur avendo accertato la mancanza di prova in ordine alle ragioni dell’incompatibilità ambientale che aveva portato al trasferimento (conseguentemente annullato), avevano rigettato il ricorso, affermando che le difficoltà relazionali sarebbero state imputabili anche alla lavoratrice.

La Cassazione ha, invece, accolto il ricorso della lavoratrice, rinviando nuovamente la causa per una decisione nel merito, giudicando errata la decisione di II grado, in quanto aveva ritenuto le difficoltà relazionali con i colleghi imputabili anche alla ricorrente, senza considerare che l’“ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate.

Dalla seppur scarna motivazione della sentenza in merito ai fatti di causa, sembra di comprendere che la Cassazione abbia ritenuto che, anche se taluni elementi – come alcune sanzioni disciplinari non annullate – potevano lasciar propendere per una responsabilità della ricorrente in merito alle difficoltà relazionali sul posto di lavoro, facendo venir meno l’esistenza di un intento persecutorio nei suoi confronti (che sarebbero stati una mera “risposta” ai suoi comportamenti), ciò non è sufficiente a rigettare la domanda di risarcimento danni.

Questo in quanto l’assenza dell’elemento soggettivo (consistente nell’intenzione di vessare e/o emarginare il lavoratore), tipico della fattispecie mobbing in senso stretto (cioè, quella individuata dalla scienza medica e inizialmente mutuata anche in ambito giuridico), non esclude la risarcibilità dei danni patiti dal lavoratore in conseguenza di un ambiente di lavoro stressogeno, ai sensi dell’articolo 2087, cod. civ., norma la cui tutela prescinde dalle varie “etichette” e che si attiva in ogni caso di ingiusta lesione della personalità morale e psicofisica sul luogo di lavoro.

Nelle parole della Corte, la sentenza di II grado dev’essere cassata, in quanto “Ha ritenuto (che) le difficoltà relazionali fossero imputabili anche alla lavoratrice, senza considerare che l'”ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l’intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per il mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche; inoltre, senza operare una precisa e completa ricostruzione del fatto, ha dato atto dell’annullamento del trasferimento della lavoratrice per incompatibilità ambientale e dell’annullamento di due sanzioni disciplinari irrogate alla medesima, senza esaminare tali condotte nel contesto complessivo della condotta datoriale”.

Più precisamente, secondo la Corte, che sul punto richiama alcuni suoi precedenti[3]: “Per l’applicazione dell’art. 2087 c.c. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L’elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia – a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità – e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81”.

Partendo dall’ampia nozione del concetto di salute prevista dalla normativa internazionale richiamata, l’articolo 2087, cod. civ., tutela il dipendente in tutte quelle situazioni in cui si trovi ingiustamente esposto a un ambiente lavorativo stressogeno, come tale idoneo ad arrecare danni alla sua integrità psicofisica, a prescindere dall’intento lesivo del datore di lavoro o dei colleghi, come nella fattispecie in esame.

 

Cassazione, n. 19196/2024

Il superamento delle rigide definizioni (in particolare, mobbing e straining) previste dalla scienza medica e inizialmente mutuate sul piano della tutela giuridica, è ribadito dalla sentenza n. 19196/2024 della Corte di Cassazione, che esamina il caso di un’infermiera addetta al reparto di psichiatria di un’Asl, la quale, per ciò che qui più interessa, aveva chiesto il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di lamentate condotte di mobbing e molestie sessuali nei suoi confronti.

La Corte d’Appello di Napoli rigettava le domande di risarcimento della ricorrente, in quanto, pur ritenendo provati “alcuni episodi persecutori posti in essere dal responsabile del reparto, ma non tutti quelli narrati dalla ricorrente nel ricorso introduttivo”, escludeva che gli stessi fossero sufficienti – anche per il ristretto arco temporale in cui andavano a collocarsi – a integrare condotte di mobbing.

La Cassazione ha, invece, accolto il ricorso della lavoratrice, rinviando, dunque, per una nuova decisione nel merito alla Corte d’Appello in diversa composizione, affermando in punto di diritto che: “Nell’ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall’interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati – esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale – pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili”.

Ciò che conta, dunque, al di là delle varie “etichette”, è l’effettiva violazione dell’articolo 2087, cod. civ., ovvero la lesione del bene giuridico della salute del lavoratore.

Quanto detto non significa che le suddette definizioni non abbiano più alcun valore, esse rimangono comunque rilevanti quali “bussole” per orientarsi nel complesso e sempre mutevole campo delle vessazioni (e anche, in linea teorica, per la quantificazione del danno), ma non esauriscono, di per sé sole, le ipotesi di condotte che possono provocare danni risarcibili al dipendente.

In particolare, secondo la giurisprudenza: “La nozione di mobbing – come quella di straining – è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro; pertanto, la reiterazione, l’intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento, ma non sull’an dello stesso, che prescinde dal dolo o dalla colpa datoriale”.

 

Mobbing, straining, demansionamento

Ciò premesso – ovvero che ciò che conta è la violazione dell’articolo 2087, cod. civ., ma che le varie “etichette”, quali mobbing e straining, mantengono rilevanza interpretativa – si andranno a vedere quali sono le fattispecie più importanti individuate dalla giurisprudenza che danno diritto al risarcimento dei danni e in quali ipotesi, invece, la responsabilità datoriale debba essere esclusa.

 

Mobbing

Anche se nel linguaggio comune il termine mobbing continua a coincidere semanticamente con il fenomeno generale delle vessazioni sul luogo di lavoro, sul piano più specificamente giuridico, ormai, tale termine indica una fattispecie caratterizzata dai seguenti elementi[4]:

  1. la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti, se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  2. l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore;
  4. la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Al di fuori di questi stretti confini definitori, la giurisprudenza inizialmente escludeva la tutela risarcitoria in favore del lavoratore. Ciò anche per limitare il proliferare di contenzioso legale che si era riversato nelle aule giudiziarie, a seguito del clamore mediatico che il mobbing aveva assunto nei primi tempi (fenomeno definito, con un ulteriore neologismo, c.d. “panmobbismo”[5]).

Il dubbio che gli elementi individuati dalla scienza medica non fossero, però, necessariamente richiesti al fine di attuare la protezione di cui all’articolo 2087, cod. civ., era stato, del resto, sollevato sin dai primi commenti dalla dottrina più attenta, per la quale, in relazione all’elemento oggettivo, non si può escludere “l’eventuale illiceità per contrasto con l’art. 2087 c.c. o con altra disposizione specifica anche di un atto persecutorio isolato o istantaneo, seppur con altra denominazione[6], mentre l’elemento soggettivo non sarebbe previsto dalla normativa e condizionerebbe, comunque, la tutela del lavoratore alla prova in giudizio – estremamente difficile, se non impossibile – dell’elemento psicologico, mentre ciò che conta è solamente “l’oggettività della condotta, come è già stato chiarito per le discriminazioni e per il comportamento antisindacale[7].

 

Straining

La giurisprudenza ha, quindi, avvertito la necessità di ampliare i confini definitori della fattispecie vietata, oltre quelli del mobbing che si sono fin qui delineati.

Si è fatto, quindi, riferimento alla figura dello straining (che in inglese significa “sottoporre a stress”, “mettere in tensione”), la quale rappresenta, in prima approssimazione, una “forma attenuata di mobbing”. Anche in questo caso, il termine e il concetto a esso sotteso sono stati mutuati dalla scienza medica, senza che vi sia una corrispondente definizione giuridica nel diritto positivo.

Secondo i giudici, sotto il profilo oggettivo, a differenza del mobbing, in questa ipotesi può mancare non solo la pluralità di comportamenti, ma anche “il carattere della continuità delle azioni vessatorie” (Cassazione, n. 18164/2018), essendo sufficiente anche solo un’azione isolata (seppur dotata di una certa gravità).

Si è ricondotta allo straining anche l’ipotesi in cui manchi (o non risulti provato) l’elemento soggettivo/psicologico, tipico del mobbing e, di norma, consistente dall’intento di marginare e allontanare il lavoratore dal posto di lavoro, quale elemento unificatore della pluralità di atti o fatti vessatori (Cassazione, sentenza n. 3291/2016).

Secondo l’orientamento ormai maggioritario della Cassazione, dunque, lo straining ricorre: “Quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma pure nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291)” (così Cassazione, n. 33428/2022, nella parte motiva della sentenza).

 

Quando dev’essere esclusa la responsabilità datoriale?

Si sono viste, sin qui, quali sono le ipotesi in cui il lavoratore ha diritto al risarcimento dei danni. Ciò non significa, naturalmente, che qualunque comportamento configuri un’ipotesi di mobbing o comunque di violazione dell’articolo 2087, cod. civ..

Secondo la giurisprudenza[8], infatti: “Si resta al di fuori della responsabilità datoriale ove i pregiudizi lamentati dal lavoratore derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili. Ne consegue che non ricorrono le ipotesi di mobbing o di straining ove le condotte datoriali siano caratterizzate dall’essere munite di ragionevoli motivazioni e giustificazione dell’operato ed anche se il lavoratore ha sviluppato, in ragione dell’attività lavorativa, una sindrome depressiva quale conseguenza di una particolare risposta soggettiva rispetto alle decisioni organizzative assunte dal datore”.

Il luogo di lavoro è, per sua natura, un luogo di tensione e possibile conflittualità, che non può essere del tutto sradicata: questa dev’essere considerata tollerabile fino a un certo livello, con una valutazione da parte del giudice che va fatta al netto di eventuali ipersensibilità soggettive del prestatore di lavoro.

La sentenza n. 2084/2024 della Corte di Cassazione elenca le ipotesi che restano al di fuori della tutela di legge, anche qualora il lavoratore subisca effettivamente un danno:

  • quando i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cassazione, n. 3028/2013 e 1509/2021).
  • o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cassazione, SS.UU., n. 4063/2010; Cassazione, n. 26972/2008)[9].

In questi casi, dunque, la responsabilità datoriale viene esclusa, anche se il lavoratore abbia accusato danni riferibili all’ambiente lavorativo.

 

I danni risarcibili

Il lavoratore vittima di mobbing o straining o altre vessazioni, ex articolo 2087, cod. civ., ha diritto all’integrale risarcimento dei danni subiti, sia patrimoniali[10] sia non patrimoniali, quali il danno biologico (cioè la lesione della salute), quello morale (cioè la sofferenza interiore) e quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile “esistenziale” e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiana, risarcibile nel caso in cui l’illecito abbia violato diritti fondamentali della persona)[11].

Il danno non patrimoniale non è un danno in re ipsa, che consegue, cioè, automaticamente in conseguenza dell’evento lesivo, per cui, in base a quanto sancito dalle sentenze “gemelle” delle SS.UU., n. 26972/2008[12], pur essendo consentito un ampio ricorso alla prova presuntiva – che può anche costituire l’unica fonte di convincimento del giudice – il lavoratore deve allegare tutti gli elementi che nella fattispecie concreta siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto[13]. Ciò è particolarmente rilevante in relazione al danno esistenziale, in rapporto al quale il lavoratore deve quantomeno allegare i fatti che assuma sintomatici del peggioramento della sua vita di relazione: in assenza di tale allegazione, la relativa domanda di risarcimento è destinata a essere rigettata.

 

Il danno alla dignità personale: Cassazione, n. 25114/2024

Con la recente sentenza n. 25114/2024, la Cassazione è tornata a interessarsi dei danni risarcibili, in particolare del “danno alla dignità personale” del lavoratore vittima di vessazioni sul luogo di lavoro.

Nel caso di specie, un lavoratore di un Comune italiano era stato emarginato dal luogo di lavoro e insultato con epiteti piuttosto pesanti da un superiore: la Corte d’Appello di Palermo, pur avendo accertato la sussistenza di comportamenti mobbizzanti, aveva, però, rigettato la domanda di risarcimento dei danni alla dignità, in quanto, “anche a volerli ricondurre alla sfera del danno morale soggettivo, la pretesa non poteva essere accolta per carenza di concreta allegazione dell’effettiva portata dei pregiudizi lamentati”.

Con un’interessante decisione dalla portata innovativa, la Suprema Corte ha cassato la sentenza di II grado, affermando che:

“Rispetto a comportamenti così palesemente spregiativi della persona, a parte i profili psichici, che rilevano sul piano del diritto all’integrità psicofisica e che possono sopravvenire o meno, in quanto non è detto che l’offesa altrui sia tale da provocarli necessariamente, non può dirsi che un’offesa alla dignità della persona in quanto tale e come lavoratore, necessiti di ulteriori allegazioni perché il giudice attribuisca un risarcimento”.

Mentre i danni all’integrità psicofisica, come quelli biologico, morale ed esistenziale, possono essere accusati o meno dal soggetto che è vittima di mobbing, e, quindi, debbono essere allegati e provati, secondo la Cassazione il danno alla dignità non necessiterebbe di alcuna specifica allegazione da parte del lavoratore.

Continua la Corte: “L’offesa alla dignità personale, che è insita nei principi massimi dell’ordinamento (art. 2 e 3 Cost.) ed imprescindibile al vivere sociale, è già ragione di danno all’individuo, come tale da risarcire; anche perché va prestata grande attenzione nel richiedere allegazioni soggettive, che possono facilmente essere esagerate ed amplificate, mentre il dato di base dell’aggressione alla percezione intima di sé propria di ciascun individuo – una volta superata la c.d. soglia minima di tollerabilità, come nel caso di specie sicuramente è accaduto, visto l’insulto proveniente proprio dal superiore in un contesto di costanti condotte offensive – è ineludibile e mai trascurabile”.

Una volta accertata l’idoneità delle condotte vessatorie a ledere il bene giuridico protetto della dignità del lavoratore, dunque, il relativo danno dev’essere liquidato dal giudice indipendentemente da una specifica allegazione da parte del lavoratore ricorrente.

Conclude, così, la Cassazione enunciando il principio di diritto per cui: “In presenza di comportamenti offensivi della persona, consistenti in condotte di emarginazione lavorativa accompagnate da insulti, il lavoratore ha diritto, nella misura congrua rispetto al caso di specie ed equitativamente determinata, al risarcimento del danno alla dignità personale, senza necessità di ulteriori allegazioni quanto ai profili pregiudizievoli di tali condotte ed a prescindere dal ricorrere di altri danni”.

Si tratterebbe, in questo caso, di un danno in re ipsa, risarcibile a prescindere da una specifica allegazione sul punto: si vedrà se la sentenza troverà conferme in futuro.

 

Licenziamento per superamento del periodo di comporto dovuto a mobbing o straining

Si ricorda, infine, che, qualora il lavoratore superi il periodo di comporto a causa di una malattia dovuta a mobbing o straining, e in giudizio sia accertata la responsabilità del datore di lavoro, il licenziamento intimato al termine del periodo di comporto stesso sarà illegittimo, secondo quanto affermato anche dalle SS.UU.[14]: “Le assenze per malattia, il cui aggravamento sia determinato dalla violazione imputabile al datore di lavoro degli obblighi di protezione nascenti dell’art. 2087 c.c., o da specifiche norme atte a concretizzarli, non devono essere computate all’interno del periodo di comporto ai sensi dell’art. 2110, comma 2 c.c.; pertanto, il licenziamento intimato in violazione di detto criterio dovrà essere considerato illegittimo”.

Il principio enunciato si applica, naturalmente, anche agli altri casi di malattia imputabile al datore di lavoro.

 

Aspetti processuali

Sul piano procedurale, in termini di qualificazione della fattispecie, la giurisprudenza (Cassazione, n. 2764/2023) ha osservato che il giudice deve valutare se, pur non essendo giuridicamente configurabile una condotta di mobbing, dagli elementi dedotti possa risultare l’ipotesi dello straining, anche se la parte non vi abbia fatto espresso riferimento nell’atto introduttivo del giudizio[15].

Lo straining costituisce, quindi, un “contenitore” in cui la giurisprudenza ha riportato – a parere di chi scrive, in maniera non sempre lineare, riconducendo alla fattispecie elementi tra loro eterogenei, sia sotto il profilo oggettivo sia soggettivo – le ipotesi che non rientravano nella rigida definizione di mobbing (ma, comunque, idonei a recare un danno alla salute psicologica del lavoratore). Più che una forma “attenuata” di mobbing, a parere di chi scrive, rappresenta, oggi, una forma “alternativa” di mobbing, definita a contrario rispetto a quest’ultimo.

 

Conclusioni

Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai prevalente, dunque, in caso di condotte vessatorie sul luogo di lavoro, ciò che conta è la violazione dell’articolo 2087, cod. civ., al di là delle definizioni di mobbing e straining, mutuate dalla scienza medica del lavoro e che non sono vincolanti sul piano giuridico.

Ciò comporta un onere della prova meno gravoso per il lavoratore, il quale deve provare la sussistenza del danno e del nesso causale tra l’ambiente di lavoro e il danno (senza dover dar prova dell’intento lesivo), mentre il datore di lavoro deve provare di avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente.

Sotto il profilo della condotta, l’accento viene posto sull’esistenza di un “ambiente lavorativo stressogeno”, il quale giustifica il ricondurre anche atti singoli o isolati alla fattispecie vietata, con conseguente risarcimento dei danni subiti dal dipendente.

Restano, comunque, escluse dalla fattispecie illecita le ipotesi in cui i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente pericolosa o usurante dell’ordinaria prestazione lavorativa o quando si riducano a meri disagi o lesioni d’interessi privi di consistenza e gravità.

Si è, infine, visto come, secondo la Cassazione, tra i danni patrimoniali vada ricompreso anche quello alla dignità personale del lavoratore, il quale può essere liquidato in via equitativa dal giudice anche in assenza di una specifica allegazione.

 

[1] Tribunale di Torino, 16 novembre 1999.

[2] Nel caso italiano, gli studi più conosciuti sul fenomeno, a livello di psicologica del lavoro, sono quelli di H. Ege, “Il mobbing, ovvero il terrore psicologico sul posto di lavoro, e la situazione italiana”, in M.F. Hirigoyen, “Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro”, Torino, 2000, pag. 236.

[3] Cassazione, n. 33639/2022, n. 33428/2022, n. 31514/2022 e n. 3692/2023).

[4] Ex multis: Cassazione, n. 6079/2021, n. 1109/2020 e n. 30673/2018.

[5] C. Mazzanti, “L’incerto confine tra straining, mobbing e “mal d’ufficio””, LG, n. 1/2022, pag. 52.

[6] A. Vallebona, “Mobbing: qualificazione, oneri probatori e rimedi”, MGL, 2006, pag. 8.

[7] Ibidem.

[8] Cassazione, n. 16580/2022.

[9] La Suprema Corte aveva, del resto, già ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cassazione, n. 3028/2013 e, prima, Cassazione, n. 10361/1997), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (D.P.R. 1124/1965 e D.Lgs. 38/2000, nelle forme della c.d. “costrittività organizzativa”), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se, appunto, non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell’articolo 2087, cod. civ..

[10] Su cui si veda S. Spinelli, “Il danno patrimoniale da mobbing”, LG, 2011, pag. 455.

[11] Secondo Cassazione, n. 23147/2013, tali danni costituiscono “pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili: né tale conclusione contrasta con il principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972/2008 delle Sezioni Unite, giacché questo principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti”.

[12] Su cui si legga A. Vallebona, “Danno non patrimoniale e rapporto di lavoro”, MGL, 2009, pag. 62, e M. Vitaletti, “Il nuovo volto del danno non patrimoniale. Il principio fissato dalle Sezioni Unite nella prospettiva giuslavoristica”, RGL, 2010, pag. 101.

[13] TAR Lombardia, n. 1301/2015.

[14] Cassazione, SS.UU., n. 13535/2016.

[15] Così la sentenza: “In tema di qualificazione delle condotte datoriali in mobbing ovvero straining, la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, stabilita dall’articolo 112 c.p.c., attiene ai fatti allegati dalle parti, ed alle eccezioni che non sono rilevabili d’ufficio, ma non riguarda la qualificazione giuridica della domanda che può essere liberamente effettuata dal giudice, anzi deve essere doverosamente esperita in presenza della norma di chiusura dell’articolo 2087 c.c. che impone al giudice di valutare se, pur non essendo giuridicamente configurabile una condotta di mobbing, dagli elementi dedotti possa risultare l’ipotesi minore dello straining che, fra l’altro, come affermato sempre dalla Suprema Corte, può essere prospettata anche solo in appello, essendo fondata sugli stessi fatti”. Si veda Corte d’Appello di Roma, n. 2764/2023.

 

Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza

Licenziamento individuale del lavoratore. Il GMO