Ministero del Lavoro e Cassazione si pronunciano sull’intermittente
di Matteo MazzonIntermittente subito operativo per le mansioni discontinue
Va subito premesso che il contratto di lavoro intermittente ora è regolato dagli articoli da 13 a 18, D.Lgs. n.81/15, il quale, tra l’altro, ha abrogato interamente la precedente disciplina di cui agli articoli da 33 a 40, D.Lgs. n.276/03, operando sostanzialmente poche modifiche.
Ora, poiché l’art.13 del predetto decreto, al co.1, prevede che i contratti collettivi possano individuare le esigenze in base alle quali si può far ricorso al lavoro intermittente e, in mancanza di regolamentazione, i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, ci si è posti il problema se, nelle more dell’emanazione di detto decreto ministeriale, si potesse continuare ad applicare il precedente D.M. 2004 e, di conseguenza, far riferimento alla tabella allegata al R.D. n.2657/23 richiamato da tale decreto.
In particolare Federalberghi, avanzando istanza di interpello (n.10/16) al Ministero del Lavoro, ha chiesto se, in virtù di quanto disposto dal Legislatore del 2015 all’art.55, co.3 – ai sensi del quale “sino all’emanazione dei decreti richiamati dalle disposizioni del presente decreto legislativo, trovano applicazione le regolamentazioni vigenti” – sia ancora possibile, in relazione alla possibilità di ricorrere a prestazioni di lavoro intermittenti, riferirsi a quanto declinato dalla tabella allegata al R.D. n.2657/23, recante l’elenco delle attività a carattere discontinuo.
Il Ministero premette quanto da noi già anticipato: il lavoro intermittente è disciplinato dalla contrattazione collettiva, ma in assenza di essa, il Legislatore stabilisce che “i casi di utilizzo del lavoro intermittente sono individuati con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche sociali”.
Il decreto in questione, emanato in forza della previgente normativa, è il D.M. 23 ottobre 2004, ai sensi del quale “è ammessa la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al R.D. 2657/23”.
Tale decreto, al fine di rispondere alla richiesta di chiarimenti oggetto del presente interpello, è da considerarsi ancora vigente proprio in forza della disposizione di cui all’art.55, co.3, D.Lgs. n.81/15, e, di conseguenza, è evidentemente possibile rifarsi alle ipotesi indicate dal R.D. n.2657/23, al fine di attivare prestazioni di lavoro intermittente.
Intermittente fino al venticinquesimo anno di età, discriminatorio?
È quello che ci si chiede tutt’ora perché la Corte di Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n.3982 del 29 febbraio 2016, la quale non ha deciso la questione posta, ma ha sospeso il giudizio in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia Europea, ordinando l’immediata trasmissione di copia dell’ordinanza, unitamente agli atti del giudizio, alla cancelleria Cgue.
La vicenda
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza n.406 depositata il 3 luglio 2014, riformando l’ordinanza del Tribunale di Milano, che aveva dichiarato improponibile il ricorso da B.A. nei confronti di A.F. Italia srl, con il quale si deduceva l’illegittimità per discriminazione in ragione dell’età del contratto di lavoro intermittente a tempo determinato, stipulato in data 14 dicembre 2010 e convertito a tempo indeterminato in data 1° gennaio 2012, e del relativo licenziamento intimatogli al raggiungimento del venticinquesimo anno di età avvenuto il 26 luglio 2012, accoglieva la domanda, condannando, ritenuta la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, la predetta società a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro e a pagargli il risarcimento del danno.
La Corte d’Appello sosteneva, innanzitutto, che lo speciale procedimento previsto per le controversie in materia di discriminazione dal D.Lgs. n.150/11, art.28, non era stato abrogato dal c.d. rito Fornero di cui alla L. n.92/12, art.1, co.48 ss., per cui correttamente il lavoratore aveva azionato la domanda giudiziale, secondo il citato D.Lgs. n.150/11.
Nel merito della questione, la Corte d’Appello di Milano riteneva che il contratto di lavoro intermittente concluso, in base all’art.34, co.2, D.Lgs. n.276/03 – dunque in vigenza della precedente normativa – con il lavoratore e il licenziamento intimatogli in relazione del raggiungimento del venticinquesimo anno di età erano contrari al principio di non discriminazione dell’età di cui alla direttiva n.2000/78 CE. Questo perché la disciplina di cui al D.Lgs. n.276/03, art.34, “trovava fondamento esclusivamente sull’età, senza alcuna altra specificazione non essendo richiamata alcuna ulteriore condizione soggettiva del lavoratore e non avendo esplicitamente finalizzato tale scelta ad alcun obiettivo individuabile”.
La direttiva n.2000/78 CE, al suo art.1, ha come obiettivo di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento”.
Nella direttiva viene precisato che “sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’art.1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga”.
La direttiva si applica “all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione”.
Tuttavia, la stessa direttiva ammette giustificazione delle disparità di trattamento collegate all’età.
Evidentemente la Corte d’Appello ha ritenuto non sussistenti tali giustificazioni e, pertanto, “il contratto di lavoro intermittente, concluso in esclusiva ragione dell’età, era illegittimo e il rapporto di lavoro doveva considerasi a tempo indeterminato con orario part-time e, non essendosi detto rapporto risolto validamente, la società andava condannata a riammettere il lavoratore nel posto di lavoro e a risarcirgli il danno nella misura della retribuzione – da agosto 2012 alla data della sentenza – calcolata secondo la media mensile percepita nel corso del rapporto di lavoro”.
Avverso questa sentenza, la società ha ricorso in Cassazione sulla base di tre censure.
In particolare la seconda censura merita di essere riportata: “con il secondo motivo la società, denunciando violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n.276/03, art.34, co.2, Direttiva 2000/78/CE, nonchè del principio generale di diritto comunitario inerente il divieto di discriminazione in ragione dell’età e violazione del principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno, sostiene che ha errato la Corte del merito nel ritenere violato il principio di non discriminazione perchè, nella specie, si tratta di una legge che favorisce i lavoratori in ragione della loro età e non viceversa e il D.Lgs. n.276/03, art.34, co.2, è sovrapponibile alla Direttiva 2000/78/CE; chiede, poi, la società sotto i diversi profili denunciati che la questione sia rimessa alla Corte di giustizia”.
La Corte di Cassazione riconosce che il richiamato co.2 di cui al D.Lgs. n.276/03, art.34, potrebbe porsi, “stante lo specifico e caratterizzante riferimento all’età, in conflitto con il principio di non discriminazione in base all’età che deve essere considerato (Cfr. sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07 Ktictikdeveci, punto 21) un principio generale del diritto dell’Unione (V., sentenza 22 novembre 2005, causa C- 144/04, Mangold) cui la Direttiva 2000/78 dà espressione concreta (V. sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne,Racc. pag. 455, punto 54); la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la quale secondo l’art. 6, n.1, TUE ha lo stesso valore giuridico dei trattati, all’art. 21, n.1 vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, (…) sull’età (in tal senso V. sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07 Kticiikdeveci, cit. punto 22)”.
Tuttavia, anche la Corte ricorda che il citato art.6, n.1, co.1, della predetta Direttiva 2000/78 CE, enuncia che una disparità di trattamento in base all’età non costituisce discriminazione, laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari (così sentenza 19 gennaio 2010, causa C-555/07 Ktictikdeveci, cit., punto 33).
La stessa Corte non ritiene che la formulazione dell’allora vigente D.Lgs. n.276/03, art.34, co.2, di “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla L. 14 febbraio 2003, n.30” contenga alcuna esplicita ragione rilevante ai sensi dell’art.6, n.1, co.1, della citata direttiva n.2000/78.
Per questo motivo la Cassazione ha ritenuto di sollevare, ex art.267, Tfue, questione pregiudiziale sull’interpretazione del principio di non discriminazione in base all’età, quale espresso concretamente dalla direttiva n.2000/78 e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art.21, n.1).
Conclusioni
Concludendo, una spada di Damocle pende anche sul nuovo lavoro intermittente, il quale prevede, all’art.13, co.2, che “Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il venticinquesimo anno, e con più di 55 anni”.
Il Legislatore non si è minimamente posto il problema del giudizio in corso e ha riproposto la vecchia norma contenuta nell’allora D.Lgs. n.276/03.
A parere dello scrivente, una finalità esimente, anche se a quanto pare non espressa, potrebbe essere che la norma sia tesa a perseguire obiettivi di politica del lavoro, favorendo l’assunzione di giovani e, ad esempio, facilitando ai frequentanti le università l’alternanza “scuola-lavoro” e dandogli la possibilità di mantenersi — parzialmente — gli studi, ovvero onde favorire l’inserimento professionale nel mondo del lavoro. Ricordiamo che il tasso di disoccupazione giovanile in Italia si attesta intorno al 37,9% (fascia appunto 15-24 anni). Se poi consideriamo che l’art.6 della citata direttiva, al co.1, dispone che “Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare: a) la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi”, come ha sottolineato la società, la norma di certo non li sfavorisce (giovani e “anziani”), ma li favorisce, e, a parere personale dello scrivente, la non conformità con il diritto europeo non appare così scontata.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza“.