Minimale contributivo e Ccnl
di Andrea Ercoli Scarica in PDFIl minimale contributivo è un concetto di centrale rilevanza nel calcolo della contribuzione ed, estensivamente, nell’individuazione della corretta gestione dei lavoratori. La contrattazione collettiva ha un ruolo fondamentale in questo senso, corroborato dalle indicazioni del Legislatore e dagli orientamenti giurisprudenziali. Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (n. 22907/2024) ha evidenziato un elemento procedurale cui porre attenzione in merito a questa materia, arricchendo le indicazioni che la giurisprudenza ha fornito negli anni in merito alla corretta individuazione del minimale contributivo.
Premessa
Il tema del minimale contributivo rappresenta uno degli aspetti più delicati e complessi nell’ambito del diritto previdenziale e del lavoro. La corretta applicazione del minimale contributivo rappresenta una possibile fonte di criticità ed errori nel calcolo delle competenze dovute al lavoratore, ma soprattutto della contribuzione da versare all’Inps. Il fondamentale ruolo riservato alla contrattazione collettiva, di cui si darà conto di seguito, impatta su un sistema che contempla una varietà di Ccnl. Il sistema della contrattazione collettiva in essere nel nostro ordinamento, infatti, che – a fronte della mancata applicazione delle disposizioni costituzionali sul contratto collettivo c.d. erga omnes – individua i Ccnl quali contratti di diritto comune, mostra una moltiplicazione di accordi più o meno rappresentativi applicabili ai rapporti di lavoro.
La normativa
Il minimale contributivo costituisce la soglia minima di retribuzione sulla quale devono essere calcolati i contributi previdenziali, indipendentemente dalla retribuzione effettivamente corrisposta al lavoratore. Questo istituto giuridico trova il suo fondamento nella necessità di garantire un’adeguata copertura previdenziale ai lavoratori e, al contempo, di assicurare la sostenibilità del sistema previdenziale nel suo complesso. Il concetto di minimale si distingue nel minimale c.d. contrattuale e nel minimale c.d. di legge.
La disciplina del minimale contrattuale affonda le sue radici nell’articolo 1, comma 1, D.L. 338/1989, che ha introdotto il concetto di retribuzione minima imponibile basata sulla contrattazione collettiva: “La retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”.
La determinazione del minimale contributivo s’interseca inevitabilmente con la contrattazione collettiva, in particolare con l’individuazione del c.d. contratto leader o contratto trainante, ovvero quello stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Questo collegamento tra minimale contributivo e contrattazione collettiva rappresenta una scelta di sistema che valorizza il ruolo delle parti sociali nella regolazione del mercato del lavoro e nella tutela dei diritti dei lavoratori. Il concetto è stato introdotto dall’interpretazione autentica riportata nell’articolo 2, comma 25, L. 549/1995, che si riferisce espressamente alla normativa sopra richiamata: “L’articolo 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”.
Il quadro normativo, pertanto, indica come la contrattazione collettiva sia destinataria di un ruolo fondamentale nell’individuazione del minimale previdenziale. Il Legislatore ha, tuttavia, dettato una traccia per individuare quali contratti collettivi siano rappresentativi a un sufficiente grado per assolvere a tale compito, utilizzando il criterio del contratto “comparativamente più rappresentativo”. La scelta operata, tuttavia, amplia il criterio, inserendo la specifica “nella categoria”, che utilizza un concetto nuovo e non presente – in senso rilevante ai fini di quanto in esame – nell’ordinamento. Il concetto di categoria, qui utilizzato, in sostanza, per individuare un settore produttivo, non ha definizione normativa precisa e, pertanto, manca di un perimetro determinabile in modo esatto. I dubbi, relativamente a questa definizione, si colgono soprattutto quando in un determinato settore produttivo si rinvengano più contratti, per ciascun ambito produttivo, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative: esempio classico è il settore metalmeccanico, dove operano sia il Ccnl Metalmeccanica industria (Codice Cnel C011) che il Ccnl Metalmeccanica artigianato (Codice Cnel C030).
È possibile sostenere che un datore di lavoro artigiano si trovi nella medesima categoria di un datore di lavoro che non rivesta tale qualifica, nel caso in cui entrambi operino nel settore metalmeccanico? Oppure il concetto di categoria si estende anche a tale distinzione?
La risposta a queste domande implica anche l’individuazione del minimale contributivo su cui calcolare quanto dovuto all’Inps con riferimento a ciascun lavoratore.
Oltre al minimale contrattuale, come anticipato, è prevista anche l’applicazione del minimale c.d. di legge, che dev’essere in ogni caso rispettato, anche nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda una retribuzione giornaliera inferiore. Il minimale di legge è individuato sulla base del 9,50% dell’importo del trattamento minimo mensile di pensione a carico del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) in vigore al 1° gennaio di ciascun anno.
L’Inps, ciascun anno, emana – solitamente nell’arco del gennaio di ciascuna annualità – una circolare con cui vengono individuati i minimali di legge per ciascuna delle Gestioni interessate, in particolare il Fpld. Per l’anno 2024, a fronte della variazione percentuale ai fini della perequazione automatica delle pensioni, calcolata dall’Istat nel 5,4%, il minimale di legge è stato individuato in 56,87 euro giornalieri (pari al 9,50% del Trattamento minimo mensile, ossia 598,61 euro).
Il minimale di retribuzione, ai fini contributivi, non dev’essere rispettato nel caso in cui il datore di lavoro eroghi integrazioni di prestazioni mutualistiche che risultano inferiori al limite minimo stabilito.
Per quanto riguarda i lavoratori di società e organismi cooperativi, come definiti dal D.P.R. 602/1970, a partire dal 1° gennaio 2007 la retribuzione imponibile per il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali deve seguire le stesse norme previste per la generalità dei lavoratori. Queste norme includono il rispetto del minimale di retribuzione giornaliera per i contributi Ivs e assistenziali, come indicato nell’articolo 1, comma 1, D.L. 338/1989.
La situazione è analoga per i lavoratori soci delle cooperative sociali, definiti dall’articolo 1, comma 1, lettera a), L. 381/1991, e per le altre cooperative regolate dai decreti ministeriali ai sensi dell’articolo 35, D.P.R. 797/1955. Per questi soggetti, dal 1° gennaio 2010, si applicano le stesse norme previste per tutti gli altri lavoratori nella determinazione della retribuzione imponibile ai fini contributivi, comprese le disposizioni sul minimale di retribuzione giornaliera.
Il precedente sistema di calcolo convenzionale riservato a queste categorie è stato, quindi, superato. La retribuzione imponibile ai fini contributivi deve ora essere calcolata considerando non solo la paga base, l’indennità di contingenza e l’elemento distinto della retribuzione, ma anche tutti gli altri elementi retributivi previsti dalla contrattazione collettiva e individuale. Questo importo dev’essere poi rapportato al numero effettivo di giornate di occupazione del lavoratore.
Per quanto riguarda i contratti part-time, la legge stabilisce delle regole precise per calcolare la retribuzione minima ai fini contributivi. Questo calcolo si basa su 2 normative: il D.L. 338/1989 e il D.Lgs. 61/2000.
Per determinare la paga oraria minima, si utilizzano formule diverse a seconda dell’orario di lavoro settimanale. Nel caso standard di un Ccnl che preveda 40 ore settimanali, esemplificando sulla base del valore del minimale previsto per il 2024, è necessario moltiplicare 56,87 euro per 6 e dividere per 40, ottenendo una paga minima oraria di 8,53 euro.
Si registra anche una novità importante introdotta nel 2021: per i lavoratori con part-time verticale o ciclico (quelli, cioè, che alternano periodi di lavoro a periodi di non lavoro), bisogna comunicare all’Inps attraverso il sistema UniEmens anche i periodi non lavorati. Questo perché, come specificato dalla circolare Inps n. 74/2021, questi periodi vengono considerati utili per maturare l’anzianità necessaria per la pensione.
Il caso giurisprudenziale: la sentenza n. 22907/2024 della Corte di Cassazione
Il tema del minimale contributivo ha trovato spazio di discussione in ambito giurisprudenziale. La recente sentenza n. 22907/2024 della Corte di Cassazione, ha individuato un particolare tema riguardante questo aspetto, che ha ricadute rilevanti nell’ambito della gestione del contenzioso con l’Inps riguardo all’individuazione nel minimale.
La vicenda processuale oggetto della pronuncia riguardava un avviso di addebito emesso dall’Inps per il pagamento di contributi previdenziali, calcolati sulla base del minimale contributivo previsto dal Ccnl Logistica, trasporto merci e spedizioni (Codice Cnel I100). Il caso ha sollevato importanti questioni procedurali e sostanziali, in particolare rispetto all’onere della prova e alla possibilità di produrre tardivamente in giudizio il contratto collettivo di riferimento.
La controversia nasce dalla contestazione di un avviso di addebito dell’importo di 666.042,24 euro a titolo di contributi, oltre somme aggiuntive e compensi di riscossione. La società cooperativa destinataria dell’avviso ha impugnato il provvedimento, contestando la determinazione della base imponibile contributiva effettuata dall’Inps.
Il punto centrale della controversia riguardava proprio l’individuazione del contratto collettivo da utilizzare come parametro per la determinazione del minimale contributivo. Il fatto rilevante, in questo caso, riguardava la mancata produzione in giudizio, da parte dell’Istituto, del Ccnl individuato quale base per il calcolo del minimale.
La Suprema Corte ha colto l’occasione per ribadire alcuni principi fondamentali in materia di minimale contributivo. In primo luogo, ha confermato che spetta all’Inps l’onere di provare la sussistenza e il contenuto del contratto leader utilizzato come parametro per la determinazione del minimale contributivo. Questo principio si basa sulla considerazione che l’Istituto, quando avanza una pretesa contributiva, dev’essere in grado di dimostrare tutti gli elementi costitutivi del proprio diritto.
Nel caso specifico, la Cassazione ha ritenuto che il Ccnl utilizzato per la determinazione del minimale contributivo rappresenti un documento indispensabile, in quanto idoneo a dissipare lo stato d’incertezza sui fatti controversi.
La sua produzione, anche se tardiva, non può essere aprioristicamente esclusa dal giudice di merito, il quale deve, invece, valutarne l’efficacia risolutiva rispetto alla controversia. Questa valutazione dev’essere effettuata considerando sia l’interesse delle parti alla corretta definizione del rapporto contributivo, sia l’interesse pubblico alla corretta attuazione della tutela previdenziale.
La Suprema Corte ha ritenuto di enunciare un principio chiaro sul tema, con la seguente statuizione, particolarmente significativa: “Pertanto, deve essere affermato il principio per cui, ai fini della determinazione del minimale contributivo, il Giudice, fin dal primo grado e dunque anche in appello, deve esercitare il proprio potere-dovere di integrazione probatoria ex officio e acquisire il CCNL, individuato dalla parte onerata della prova, indispensabile a individuare la retribuzione parametro”.
Il ruolo della contrattazione collettiva e il contratto leader
La sentenza n. 22907/2024 della Corte di Cassazione offre importanti spunti di riflessione sul ruolo della contrattazione collettiva nel sistema previdenziale italiano. Il concetto di rappresentatività comparativa, introdotto dal Legislatore proprio per individuare i contratti collettivi da assumere come riferimento per la determinazione del minimale contributivo, risponde all’esigenza di selezionare, tra i diversi contratti collettivi applicabili, quello che offre le maggiori garanzie in termini di rappresentatività delle parti stipulanti e di tutela dei lavoratori. Questo criterio selettivo assume particolare importanza nel contesto attuale, caratterizzato da una significativa frammentazione della contrattazione collettiva e dalla presenza di numerosi contratti non rappresentativi. Evidentemente, la scelta del Legislatore risponde a una situazione di fatto che non garantisce un criterio univoco di determinazione della rappresentatività, stanti le storiche resistenze delle organizzazioni sindacali all’applicazione del disposto costituzionale sul riconoscimento.
Con riferimento a questo tema, è di assoluta rilevanza l’ordinanza n. 13840/2023 della Corte di Cassazione. Con questa pronuncia, viene chiaramente ribadita l’autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva. Questo significa che le regole che governano il calcolo dei contributi previdenziali seguono una loro logica specifica, distinta da quella che regola la retribuzione. Questa autonomia è giustificata dal fatto che le 2 obbligazioni rispondono a esigenze diverse e, soprattutto, dalla necessità di salvaguardare l’unitarietà e la tenuta del sistema previdenziale nel suo complesso. Un secondo principio sottolineato dall’ordinanza citata riguarda la selezione del contratto collettivo di riferimento per il calcolo dei contributi. La Corte chiarisce come questa scelta non sia rimessa all’autonomia del datore di lavoro, ma sia riservata al Legislatore: in presenza di più contratti collettivi applicabili, anche dello stesso livello, è necessario individuare il contratto leader.
Questo aspetto assume particolare rilevanza nel contesto attuale, caratterizzato dalla proliferazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali minori, che spesso prevedono trattamenti economici e normativi inferiori rispetto a quelli stabiliti dai contratti leader. Il sotteso di questo meccanismo è, quindi, di duplice natura: da un lato, garantire l’attuazione dell’articolo 38, Costituzione, dall’altro evitare una proliferazione incontrollata di contratti collettivi che potrebbe portare a una frammentazione del sistema e a un aumento della spesa previdenziale pubblica.
L’ordinanza richiama anche un aspetto importante, in ordine alle sanzioni applicate. Ove, infatti, la scelta del datore di lavoro si riveli intenzionale, si configura un’ipotesi di evasione contributiva e non di semplice omissione, con conseguente applicazione di sanzioni più severe. Questo orientamento evidenzia come il sistema sanzionatorio sia strutturato per scoraggiare pratiche elusive che potrebbero minare la base contributiva del sistema previdenziale.
Altri elementi giurisprudenziali
La Corte di Cassazione ha emanato altre 2 rilevanti pronunce nel corso del 2024, sul tema dell’applicazione del minimale contributivo: le ordinanze n. 19759/2024 e n. 19760/2024.
L’ordinanza n. 19759/2024 ha sottolineato un principio importante in merito all’individuazione del contratto collettivo da applicarsi: la rilevanza dell’attività effettivamente svolta dall’impresa oggetto dell’accertamento. Quest’interpretazione poggia su un criterio di rilevanza: data la natura pubblica della materia previdenziale, il criterio di calcolo dev’essere oggettivo e predefinito. Mentre le imprese hanno libertà di scelta nella contrattazione collettiva, per quanto riguarda il trattamento economico e normativo dei dipendenti (tenendo in considerazione le disposizioni dell’articolo 36, Costituzione, sulla giusta retribuzione), questa libertà non si estende alla determinazione della base contributiva.
Nel caso specifico, se viene accertato giudizialmente che un’impresa svolge attività commerciale, questa classificazione determina la base per il calcolo dei contributi secondo l’articolo 1, D.L. 338/1989. Non ha rilevanza, ai fini contributivi, che l’azienda applichi il contratto collettivo per dipendenti di studi professionali sulla base dell’estensione dello spettro applicativo previsto dal testo del contratto medesimo.
L’ordinanza n. 19760/2024, invece, si sofferma sull’estensione delle conseguenze relative all’individuazione di un contratto collettivo quale parametro per il calcolo del minimale contributivo. In particolare, il caso esaminato riguardava il Ccnl per il settore dell’edilizia, che, segnatamente alla possibilità di sottoscrivere contratti a tempo parziale, ne limita l’utilizzo. La tematica centrale del caso in esame riguardava l’eventualità che la stipula di contratti part-time in eccesso, rispetto alla percentuale prevista dal Ccnl relativo al settore edile, potesse dar luogo, per i contratti eccedenti, alla commisurazione dell’obbligazione retributiva alla retribuzione virtuale prevista per i contratti a tempo pieno. La Corte di Cassazione ha sottolineato come la funzione della norma sul minimale sia quella d’individuare il complessivo valore economico delle retribuzioni imponibili di una data impresa, ai fini contributivi. In particolare, in caso di violazione del divieto di assunzioni a tempo parziale in misura superiore a una determinata percentuale del totale dei lavoratori occupati a tempo indeterminato, va commisurato alla retribuzione dovuta per l’orario normale di lavoro anche per i lavoratori assunti part-time in violazione del divieto contrattuale, a prescindere dalla circostanza che tali compensi siano stati effettivamente corrisposti.
Implicazioni pratiche e operative
Dal punto di vista pratico, la giurisprudenza fornisce importanti indicazioni operative sia per gli enti previdenziali sia per i datori di lavoro. L’Inps, quando emette un avviso di addebito basato sul minimale contributivo, dev’essere in grado d’individuare e produrre il contratto collettivo di riferimento. Questa esigenza risponde non solo a requisiti formali, ma anche alla necessità di garantire la trasparenza e la verificabilità della pretesa contributiva.
Per i datori di lavoro, la sentenza ribadisce l’importanza di una corretta individuazione del contratto collettivo applicabile, sulla base dei criteri individuati nel tempo. La scelta del contratto collettivo non può essere guidata solo da considerazioni di convenienza economica, ma deve tenere conto del fatto che, ai fini contributivi, il parametro di riferimento sarà comunque costituito dal contratto leader del settore. Questo principio assume particolare rilevanza per le imprese che operano in settori caratterizzati dalla presenza di più contratti collettivi.
La pronuncia ha importanti riflessi anche sull’attività degli operatori del diritto, in particolare degli avvocati e dei consulenti del lavoro. Questi professionisti dovranno prestare particolare attenzione alla gestione del contenzioso in materia di minimale contributivo, sia nella fase di predisposizione degli atti processuali sia nella fase istruttoria, tenendo conto dei principi enunciati dalla Suprema Corte in merito ai poteri istruttori del giudice e alla rilevanza del contratto collettivo.
In conclusione, la sentenza n. 22907/2024 della Corte di Cassazione rappresenta un importante tassello nella definizione del quadro normativo e giurisprudenziale in materia di minimale contributivo. La pronuncia, unita all’orientamento complessivo della Corte di Cassazione e alle disposizioni di legge, conferma il ruolo centrale della contrattazione collettiva nella determinazione degli obblighi contributivi e fornisce utili indicazioni operative per tutti gli operatori del settore. Al tempo stesso, essa evidenzia come il sistema previdenziale italiano si fondi su un delicato equilibrio tra autonomia negoziale e tutela dei diritti dei lavoratori, nel quale il minimale contributivo svolge una funzione essenziale di garanzia della correttezza e dell’adeguatezza della contribuzione previdenziale.
Si segnala che l’articolo è tratto da “La circolare di lavoro e previdenza”