23 Maggio 2024

I mezzi utili ad arrivare al risultato

di Riccardo Girotto Scarica in PDF

Nonostante fosse chiaro da sempre che il lavoro subordinato risulta espressione di una prestazione di mezzi, la cui dovuta diligenza assume carattere accessorio, “Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”, dove è il tempo a misurare la controprestazione che il sistema sinallagmatico garantisce al dipendente; nonostante tutto questo, la dialettica degli ultimi anni, complice l’esplosione drogata dalla pandemia dello smart working, ha sviato la comunicazione profana del diritto del lavoro, paventando una possibile, nonché tanto innovativa, quanto irrealizzabile, sublimazione del risultato nella prestazione di lavoro subordinato.

La persistente bugia comunicativa si è nutrita di racconti riferiti a fantomatiche aziende precorritrici, abili a connettere il lavoro dipendente al risultato, senza preoccuparsi di quanto e come il lavoratore lavorasse per ottenerlo. Prestazioni libere e dipendenti pagati per ciò che realmente producevano, senza più controllo alcuno della loro prestazione.

Concretamente, però, se la privazione del controllo pare assolutamente possibile, così come tecnicamente sconsigliata nell’area del lavoro subordinato, la retribuzione legata al risultato non può che connettersi a titoli aggiuntivi rispetto ai minimi di matrice contrattualcollettiva. Questi ultimi, infatti, bellamente ignorano i racconti devoti alla prestazione di risultato, sulla scorta di una tutela nientemeno che Costituzionale. Così l’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”; nessun riferimento alla necessità di raggiungere un risultato, aspetto che trova residenza nell’articolo 2222, cod. civ., riferito al lavoro autonomo, ove, a contrario, si marca il rapporto sinallagmatico tra corrispettivo e opera eseguita (o servizio).

Le notizie a supporto ed enfatizzazione delle fantomatiche soluzioni spesso dimenticavano (volutamente) di segnalare come la retribuzione di risultato non possa che considerarsi aggiuntiva alle dovute retribuzioni minime. Facile dedurre come non ci sia alcuna possibilità di sostituire il risultato al tempo, semplicemente la soluzione “innovativa” era quella di pagare di più i dipendenti, aggiungendo una retribuzione di risultato e sottraendo ogni forma di controllo, così da spendere positivamente il concetto di fiducia, pur ovviamente garantendo la piena erogazione della retribuzione a tempo dovuta.

Acquisito che alcun paradigma è mai cambiato e alcuna soluzione innovativa è mai stata adottata, semplicemente le aziende dalla grande disponibilità hanno ben pensato di offrire un di più a dipendenti già destinatari quantomeno dei trattamenti minimi. Bella forza.

Ma a indorare la pillola da un po’ di anni è arrivato lo smart working. Il lavoro che combina prestazioni in presenza a prestazioni in luogo diverso dalla sede aziendale, costantemente ignorato dalla sua introduzione nel nostro ordinamento a opera della L. 81/2017, ma reso famoso dal suo uso distorto in periodo Covid, veniva presentato come l’antidoto alla rigidità imposta dal D.Lgs. 66/2003, grazie alla condivisione espressa del libero orario di lavoro da parte del lavoratore. L’entusiasmo per la misura non vedeva limite nemmeno al cospetto dei diritti generati dall’articolo 2113, cod. civ., a cui poco interessa l’accordo espresso dal lavoratore: “Le  rinunce e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide”.

Insomma, a casa sua il lavoratore fa ciò che vuole, lavori pure di notte o oltre l’orario, nel rispetto dei sacrosanti momenti di disconnessione, o faccia pure a meno di lavorare, ma presenti all’azienda i risultati conseguiti. E giù di stampa specializzata (poco), che, in assenza di argomentazioni giuridiche a supporto, passava le fake di un dipendente al quale gli straordinari o il notturno potevano non pagarsi, a patto di compensare adeguatamente il risultato.

Fortunatamente, a frenare questa deriva mediatica, che rendeva i consulenti antipatici alle aziende clienti, alle quali non veniva consentita l’applicazione di queste magiche soluzioni, è arrivata ora anche la Cassazione (n. 10640/2024), lapidaria in alcuni passaggi, attrezzati proprio su un caso di smart working con vincoli di risultato: “nel contratto di lavoro subordinato il lavoratore non si obbliga al raggiungimento di un risultato, ma si limita a mettere a disposizione del datore le proprie energie, nei modi e nei tempi stabiliti dal contratto”; leggasi: prestazione di mezzi. Amen.

La transizione verso un paradigma meno legato al tempo e più votato al risultato, che peraltro non si vede perché dovrebbe riguardare il fallimentare istituto dello smart working e non il rapporto di lavoro nella sua totalità, resterà, come ampiamente prevedibile, nella penna dei commentatori profani e svanirà nell’ufficio degli imprenditori ambiziosi, ma privi di un puntuale corollario normativo a supporto.

Le parti sociali mai si sono dimostrate disponibili a cavalcare questa transizione, tantomeno il Legislatore si è dimostrato impavido nel percorrere le vie, necessariamente tortuose, che condurrebbero a questo risultato. Il compito delle parti sociali, tutte, è quello di mantenere lo status quo ante L. 81/2017, alzare le barricate e frenare eventuali scossoni al paradigma.

Non è corretto boicottare i sogni degli habitué della stampa profana, ma arriverà il momento di svegliarsi, dare credito ai tecnici, e prendere atto che tutto rimarrà come prima, avvolto nella regola dei mezzi utili a raggiungere l’unico risultato possibile: la granitica staticità.

 

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